L'anima della foresta
Quando se ne accorse per la prima volta, fu come incontrare un Barbalbero nella foresta di Eriador. Come se tra le fronde e sotto la scorza degli alberi in mezzo a cui si aggirava incurante da vent’anni all’improvviso avesse scorto un occhio intelligente che lo guardava. In quello sguardo non c’era supplica, né accusa, né minaccia. Solo la spia di un essere alla sua maniera ricettivo. Senziente, paziente, rammemorante, desiderante. Il protagonista di un’esistenza tutta da indagare. A fare quell’incontro spiazzante con lo spirito di un vecchissimo faggio – verrebbe da dire “con il fantasma”, non fosse che il vegliardo era ancora vivo – fu Peter Wohlleben, guardia forestale sull’altopiano dell’Eifel, Germania occidentale, nella regione boschiva che si sviluppa tra il medio corso del Reno, le Ardenne e la Mosella. All’epoca Wohlleben faceva diligente il suo lavoro. Valutava cioè salute, robustezza e regolarità dei fusti delle piante da abbattere per ricavarne assi ben diritte e senza nodi, e da sostituire quanto prima con nuovi alberi “da legna”. Abituato com’era a guardare alla foresta “sub specie oeconomica”, in quella che oggi definisce “una prospettiva decisamente ristretta”, finì per inciampare in un sasso. Sembrava un sasso almeno.
Quando cercò di toglierlo dal sentiero, si rese conto che era saldamente ancorato al terreno. Niente di strano: ne sporgono di rocce muschiose dal suolo del massiccio scistoso renano. Gratta via il muschio, però, ed ecco che Wohlleben nota le inconfondibili striature – le rughe – di una corteccia. Allora non era una pietra. Scortecciata quella dura scorza, osserva che è verde anche dall’altra parte, che scorre linfa sotto. Possibile? Perché circolino umori vitali nelle fibre innervate del legno, bisogna che ci sia la fotosintesi, la pianta deve respirare, e per questo, lo abbiamo imparato tutti alle scuole medie, serve la clorofilla, ci vogliono le foglie. Quel ciocco mezzo sepolto non aveva neppure i rami, neppure il tronco. Eppure, inciso, sanguinava. Non c’era che una spiegazione. Erano i compagni attorno a nutrirlo attraverso le radici con cui si teneva aggrappato al suolo e, sottoterra, ben allacciato agli alberi del bosco, o meglio, agli alberi della sua stessa specie. Per spirito di corpo, solidarietà, soccorrevolezza, sostegno al più debole, i faggi vicini tenevano in vita quel che restava di un gigante caduto o abbattuto almeno quattro-cinquecento anni prima. Doveva trattarsi di un ceppo enorme, in origine, trasformato nel corso dei secoli in humus. Quel che ne restava, unghiato alla terra, continuava tenace a palpitare.
Sulle prime gli Hobbit notarono solo gli occhi. Sembrava che dietro le pupille vi fosse un enorme pozzo pieno di secoli di ricordi e di lunghissime, lente meditazioni.
J. R. R. Tolkien, “Il signore degli anelli”
Wohlleben non la racconta come Tolkien. Lo stile del suo libro non è così fiabesco. Eppure quando vi narra del suo a tu per tu con le vestigia di quel fusto secolare lascia con il fiato sospeso. Racconta anche molto altro. E con “La vita segreta degli alberi” ha stregato centinaia di migliaia di tedeschi. Pubblicato la scorsa estate dalla casa editrice Ludwig (un marchio che fa capo a Random House) con il titolo, “Das geheime Leben der Bäume”, il testo è nella Bestseller-Liste da luglio e, con oltre otto mesi di permanenza in classifica, sta sicuramente rappresentando un caso. Che i tedeschi, almeno dai tempi di Goethe, vedano nella foresta uno spazio di conforto e di rifugio e che, a dispetto del “Dieselgate”, siano da sempre sensibili al tema dell’ecologia e del rispetto della natura, è risaputo. Ma “il bosco non appariva così animato neppure ai romantici”, ha sentenziato il critico della Zeit. “Ci lascia senza parole il racconto di questo Baumflüsterer”, cioè de “l’uomo che sussurrava agli alberi”, ha commentato la Frankfurter Allgemeine Zeitung.
A dire il vero agli alberi Wohlleben non parla né sussurra. C’è chi, pur di stabilire un contatto con loro, con slancio un po’ patetico vorrebbe abbracciarli. “Ma del nostro abbraccio loro se ne infischiano”, taglia corto il forestale. “Mi piacerebbe tanto ascoltarli. Invece posso al massimo decifrare qualcuno dei loro segnali, non certo emessi per comunicare con noi”. Eppure nel libro sostiene e dimostra che gli alberi hanno linguaggio e memoria, un senso dell’amicizia e della giustizia. Che provano dolore – forse piacere – e reagiscono di conseguenza. Che si attengono a norme sociali, a una disciplina severissima nell’educazione dei figli e alle regole del bon-ton. Che, dotati di spirito di adattamento, imparano dall’ambiente e fanno tesoro delle loro esperienze. Che, esposti ad attacchi nemici, escogitano astute strategie di difesa. E che, fiduciosi, fatalisti, fedeli alla vita, sempre e comunque si affidano al caso, tentano la fortuna, vincono immancabilmente, tutti almeno una volta, alla lotteria.
Questa, scorrendo l’indice, la scaletta degli argomenti toccati nel testo. Non si creda però che, parlando di amori e di amici, di galateo e di scuola, di alleanze e assistenza sociale, Wohlleben ceda alle lusinghe della spettacolarizzazione, che si inventi una fiction ambientalista o batta la via dell’animismo o dell’esoterismo new age. Il suo è un testo scientifico, non una trasfigurazione poetica. E’ un saggio di biologia, informativo e divulgativo. Attendibile e rassicurante per le competenze specialistiche che mette in gioco, godibile e accattivante per la forma narrativa che se, stando ai titoli dei capitoli, parrebbe umanizzare l’albero, entrando nel vivo della faccenda, finisce invece per “arborizzare” l’esistenza. Per farci accedere ai parametri – tempi, grandezze, esigenze, velocità – vegetali. Addirittura per farci presentire un’oscura e muta e sorda intelligenza vegetativa.
E chissà se lo stelo che cresce verso la luce, suo Sovrano Bene, patisce della mancanza di acqua e si contrae al freddo o resiste meglio che può alle invasioni di altre piante.
Marguerite Yourcenar, “L’opera al nero”
L’albero teme il freddo, sì, ovvero le gelate e le tempeste di vento, così come soffre se esposto alla canicola. Ama il fresco, predilige terreno e aria umidi. Necessita di luce e più ancora di acqua. Perciò trova le sue migliori condizioni di vita nel bosco: vive meglio in compagnia, nel gruppo, in società, non perché sia particolarmente socievole. L’unione fa la forza, naturale: crea un guscio protettivo contro le bufere, un ombrello contro i raggi feroci del sole, una rete estesissima di radici attraverso cui trasmettere – “Wood Wide Web”, azzarda Wohlleben in inglese – nutrimento e informazioni. D’altra parte il bosco, anche a latitudini non tropicali, è una giungla, un teatro di forze, una comunità in cui vige la legge del più forte. E l’albero – che cresce, si allunga, si allarga, succhia, avvolge, divora – è una bella espressione di volontà di affermazione e di potenza. Non gli conviene spadroneggiare però. Nuocerebbe al superorganismo di cui è parte. Dovesse sopraffare un vicino, prendere più di quanto non dia, creare un vuoto, uno squilibrio accanto a sé, un buco nel tetto di chiome, si ritroverebbe alla mercé dell’ambiente, in balia degli agenti atmosferici, preda vulnerabile di invasori e parassiti. In un contesto così competitivo valgono, preziosissime, le alleanze, strette esclusivamente tra individui della stessa specie. Non fosse stato uno di loro, i faggi circostanti non avrebbero iniettato linfa vitale in quel relitto centenario. Nella zona dell’Europa centrale i più forti sono appunto i faggi, capaci di imporsi invincibili, di crescere attraverso i rami di una quercia e di sovrastare la sua corona fino a sopraffarla e a soffocarla. La quercia, da parte sua, vinta dal concorrente nella corsa verso il sole, può perdersi d’animo e farsi prendere dal panico. Allora, come impazzita, butterà polloni ai piedi del tronco, farà spuntare rami bassi nella zona buia del bosco destinati a seccare subito e a morire, disperderà energie in modo scriteriato, si indebolirà, si lascerà mangiare da funghi e insetti. Altrimenti, fiacca nel salto in alto, per salvarsi, punterà sulla sua durezza proverbiale, ispessirà la scorza come una corazza, emetterà sostanze amare per scoraggiare la voracità dei parassiti, quelle che rendono il suo legno tanto aromatico e pregiato per l’invecchiamento del vino in barrique. Quei nanetti dei tassi, invece, schiacciati da rivali così maestosi, si ingegnano ad abitare il sottobosco, a raccogliere tutta la loro forza vitale nell’intreccio delle loro radici. Sicché, dovesse cadere un fusto strangolato dalla prepotenza e possanza di faggi e querce, un nuovo albero rispunterebbe alla svelta dal terreno. Certo ci sono poi anche alberi solitari: orfani, trapiantati, “ragazzi di strada” li chiama Wohlleben. Alberi cittadini che lottano quotidianamente per se stessi, che combattono da soli la “struggle for life”, con le radici tarpate e il senso del tempo sbalestrato dalla luce dei lampioni. O alberi asceti, che grazie a frugalità, economia e risparmi, riescono a sopravvivere su un pendio scosceso, su un terreno roccioso, su una sponda burrascosa, o in certe nicchie ecologiche dove, a forza di adattamenti, riescono perfino a prosperare. D’altra parte, non hanno scelta. Una volta che hanno messo radici restano legati per la vita alla loro zolla di terra. E devono accettare quel che gli tocca.
Ma se guardi bene verso l’altra riva / Puoi ancora vedere l’albero / Che alza il braccio caparbio / Uno gliel’ha già spezzato il vento / E tu pensi: per quanto tempo ancora / Per quanto tempo ancora / Il legno ricurvo resisterà alle tempeste?
Ingeborg Bachmann, “Partenza”
Il vento però, per certe funzioni vitali, può diventare un alleato. Non solo perché trasporta i pollini e favorisce la riproduzione. Ma anche perché veicola messaggi e amplifica la comunicazione. Quando Wohlleben parla di linguaggio degli alberi non intende attribuire loro quella facoltà espressiva che ci contraddistingue. Li dichiara, si è già detto, indifferenti a abbracci e a sussurri. E nega vi sia alcun senso nello stormire delle fronde e nel crepitare delle foglie nella brezza. Quelli sono suoni suggestivi finché si vuole, ma passivi. Attivamente, spontaneamente, le piante a modo loro parlano: lanciano segnali di allarme, grida di aiuto, inviano moniti, avvertimenti, emettono seducenti, irresistibili richiami. Lo fanno in maniera sapiente attraverso gli odori. Il profumo dei fiori non è un dono per noi che ce ne estasiamo, ma uno spot pubblicitario per le api che, adocchiato il punto di ristoro, si tuffano assetate nei calici impollinandosi tutte o, con scaltrezza ancora più sottile, un’esca per le vespe che, attratte dalla dolcezza degli aromi, accorrono a divorare le larve che magari stanno rosicchiando le foglie. Agendo sul canale aromatico, gli alberi sanno difendersi anche da predatori di ben altra stazza. Come le giraffe. Dovessero dar di morso alle acacie della savana, queste non solo guasterebbero l’insalata alle erbivore dal lungo collo secernendo stille amare dalle foglie, ma produrrebbero etile dalle infiorescenze per mettere all’erta le acacie della zona. Alla lunga, va detto, anche le giraffe si sono fatte furbe e, con l’amaro in bocca, si spostano controvento, o per qualche centinaio di metri fin dove il gas segnaletico non arriva trasportato dal vento, per continuare a brucare indisturbate. Alla fine il metodo più sicuro per comunicare senza interferenze resta quello www della rete delle radici che riescono a diffondere la posta anche al di là della loro estensione, grazie alle spore dei funghi – simbionti da tenere a bada, a seconda dei casi sodali o nemici – che percorrono tutto il sottobosco. In caso di emergenza poi – Sete! Siccità! – le radici stanno emettere un grido muto, un lamento impercettibile, un gemito disperato: producono come uno schiocco sommesso dalla vibrazione di 220 Herz captata da piante sorelle che, messe sul chi va là, girano altrove le loro antenne in cerca di riserve d’acqua. Questo prova che gli alberi soffrono, desiderano, strisciano verso il ristoro, detestano di essere morsicati. Lascia in dubbio se sappiano “parlare”. Però, rincara Wohlleben, di certo stanno contare. Come capirebbero, altrimenti, che è finito l’inverno se non mettendo in relazione l’addolcirsi delle temperature (che possono benissimo tornare a precipitare) con l’aumento del numero delle ore di luce, con l’allungarsi delle giornate?
L’albero appartiene al padre o al mondo della madre? Non si può rispondere con una frase. Come vorremmo attribuire l’altezza al padre, così la profondità alla madre. Sotto la chioma troviamo riparo, sicurezza nell’intreccio delle radici.
Ernst Jünger, “L’albero”
Padre o madre che lo si voglia considerare, maschio o femmina che sia – ma la distinzione tra i generi sessuali è una determinazione secondaria, osservava proprio Jünger notando come in certe lingue il suo nome sia femminile, in altre maschile, e quanto fosse strano che dal femminile “arbor” si passi al maschile “arbre”, pur traducendo con due parole così strettamente imparentate – padri o madri che siano, dicevamo, gli alberi hanno un forte senso della famiglia. Protettivi gli uni verso gli altri all’interno del proprio clan, figuriamoci cosa non arrivano a fare per il bene dei propri figli. A dire il vero i metodi educativi sono rigidissimi. I loro rampolli, tenuti a lungo nella bambagia, solo apparentemente crescono viziati. Vengono allevati alla scuola del rigore e della pazienza. Wohlleben, ancora una volta, adduce l’esempio dei faggi, che sono così prolifici e lussureggianti dalle nostre parti. Ebbene, “i piccoli” vengono tenuti “sotto l’ala” per ottanta-centocinquant’anni prima di raggiungere la maturità sessuale. Che significa? Schermati sotto le fronde genitoriali che filtrano il 97 per cento della luce e lasciano cadere sulla testa dei pargoli non più che deboli raggi, i giovani alberi crescono lentissimamente. Ciò permette loro di sviluppare cellule lignee piccole e dunque rami più flessibili, di indurire il tronco e rendere più salde le radici, di essere fortissimi al momento in cui mamma e papà si faranno da parte e loro potranno fotosintetizzare a sazietà. Fino ad allora, dolce consolazione, i bamboccioni vengono allattati, mantenuti cioè dalla famiglia attraverso le radici. Restando in tema di educazione, Wohlleben fa anche un discorso di buone maniere: di portamento, di compostezza, di contegno. Chiaro che qui esprime tutta la sua potenza simbolica l’albero maschio, il padre, con la maestà della sua imponente figura. A parte il fatto che la fierezza di una chioma rigogliosa è sostenuta dalla trama nascosta, ma speculare, di radici altrettanto potenti, la forma ideale dell’albero non è maestosa per questioni di eleganza. Un fusto bello dritto, la chioma circolare, i rami regolari, le radici simmetriche, sono garanzia di stabilità, di resistenza ai venti, nel caso degli abeti di protezione dalla neve che non trova appiglio sulla punta e scivola giù dai rami richiusi verso il basso. Poi non è detto che l’albero, nel suo slancio verso l’alto, non incontri, crescendo, degli ostacoli da aggirare e non sia costretto a stortarsi. Poco male. Porterà impressa nella propria forma, incisa sulla propria scorza, la sua storia. E, curvo, ritorto, nodoso, rugoso, agli occhi della guardia forestale non più preoccupata solo di farne assi, riuscirà tanto più interessante e affascinante.
Il Foglio sportivo - in corpore sano