L'islam senza velo
Le uniche scelte sartoriali oggetto di controversie politiche al mondo sono quelle delle donne musulmane. Il loro abbigliamento, il velo che copre il loro volto, è regolato sia nei paesi in cui l’islam è minoranza, come in Europa, sia in quelli in cui è professato dalla maggioranza. Riviste come Hijab Moda in Egitto commercializzano “abaya di lusso”, le palandrane che rivestono da capo a piedi. L’Iran è pieno di marchi di moda femminili. Dubai, Jakarta e Kuala Lumpur ospitano sfilate con veli sgargianti. Londra e Parigi di recente hanno organizzato simili eventi e c’è stata la prima “settimana della moda islamica” in America. Quasi inesistenti nei media solo un decennio fa, le donne musulmane che indossano l’hijab adesso sono presenti anche nei programmi televisivi come MasterChef. In questo tripudio di chador hanno generato scandalo le parole di Laurence Rossignol, ministra francese della Famiglia, e di Pierre Bergé, socio e compagno dello stilista Yves Saint Laurent. Entrambi stanno battagliando contro il velo islamico che prolifera in Francia persino nelle grandi linee di moda, pronte a raccogliere un giro di affari di cinquecento miliardi di dollari entro il 2019.
La guerra del velo ha radici lontane. Ma non così lontane. C’era un tempo, a noi vicinissimo, in cui il mondo arabo-islamico considerava anormale velare la donna, quasi una forma di minorità. Anzi, nei paesi dove oggi fatichi a trovare una donna senza chador o niqab, fino a vent’anni fa incontravi pochissimi veli. E’ difficile credere che fino ai primi anni Novanta la maggior parte delle donne nelle strade dell’Algeria fossero vestite all’occidentale.
Il 13 maggio 1958, a Place du Gouvernement ad Algeri, alcune donne algerine si strapparono via i veli, tra gli applausi dei Pieds Noirs francesi. Minigonne, pantaloni a zampa d’elefante e capelli corti invasero le strade d’Algeria. Le cose cambiano con la rivoluzione islamica iraniana. Le prime pezzole appaiono all’inizio degli anni Ottanta tra i militanti del movimento islamico, all’università, nei quartieri più poveri. L’hijab è distribuito discretamente dall’ambasciata iraniana ad Algeri e nelle moschee.
All’inizio degli anni Novanta, l’Algeria era sul punto di entrare in un lungo coma fatto di morte e paura: la guerra civile, lo spettro dello sfondamento islamista del Fis. La gente capì che qualcosa di tremendo stava per succedere dal numero di veli per strada. Da un paio d’anni si stava diffondendo l’uso del velo all’iraniana e da poco, in quartieri per nuovi ricchi, come Hydra, si vedeva, sia pure di rado, anche il lugubre costume importato dall’Arabia Saudita, tutto nero, lungo fino ai piedi, anche gli occhi coperti con un velo nero, con due forellini invisibili per riuscire a distinguere qualcosa. E’ il burqa oggi tanto di moda.
Non a caso fu una ragazza che rifiutava il velo la prima vittima della guerra islamista in Algeria: Katia Bengana, che difese la sua scelta anche quando il suo boia le puntò il fucile alla testa facendola esplodere sotto i proiettili. In nome di Katia le donne scendevano in piazza al grido di “rifiutiamo l’esilio, la sottomissione e la compromissione”. Famosa e spettacolare la provocazione islamista del 1994, quando Algeri si svegliò letteralmente tappezzata di manifesti che annunciavano l’esecuzione delle donne senza velo. Così non se lo tolserò più il velo. Oggi in Francia una strada di Villefontaine, nella regione di Grenoble, porta il nome di Katia.
Il New York Times ha pubblicato un servizio fotografico da Kabul negli anni Settanta e Ottanta. Ragazze afghane all’aeroporto o alla locale università. Niente burqa o veli, potremmo essere a Londra. In Afghanistan si girava in minigonna e si ballava. Poi arrivarono i talebani e misero il velo alle donne. Già il re Amanullah Khan, negli anni Venti, permise alla moglie di andare in giro senza chador e promosse l’emancipazione delle donne, anche nel vestiario. La scintilla dell’emancipazione fu accesa in Marocco dalla principessa Lalla Aisha, figlia del sultano Mohamed Ben Youssef, che prese il titolo di re quando fu proclamata l’indipendenza del paese. Il giorno in cui, nell’aprile del 1947, la principessa tenne un discorso pubblico a Tangeri, la gente rimase sbalordita. “Siamo vissute per secoli nell’oscurantismo, rese cieche dai pregiudizi e dai cattivi costumi. Dobbiamo mutare radicalmente le nostre abitudini”.
Mohammed V inviò a Tangeri la principessa Lalla affinché, parlando in pubblico e senza il velo, indicasse alle donne marocchine che il mondo stava cambiando. Le figlie di quanti quel giorno trasalirono di fronte alla bocca nuda di una discendente del Profeta avrebbero preso il sole in bikini sulle spiagge affacciate sull’Atlantico. In poche settimane le donne in tutto il Marocco si tolsero il velo. Se lo sarebbero rimesso quarant’anni dopo, sull’onda della reislamizzazione. Oggi il novanta per cento delle donne marocchine indossa il velo. In Egitto, nei lontani anni Cinquanta, Kamal Nasser prese in giro in televisione la richiesta della Fratellanza musulmana di mettere il velo alle donne. E sua moglie Tahia sfoggiava una folta chioma senza chador, anche nelle fotografie ufficiali. Nei decenni successivi, il velo a poco a poco è scomparso in Egitto, tanto che nel 1958 un giornalista straniero scriveva che “il velo è sconosciuto qui”.
Solo negli anni Ottanta e Novanta la versione wahhabita rigorosa dell’islam è arrivata in Egitto, riportata dai milioni di egiziani che erano andati a lavorare in Arabia Saudita e in altri paesi del Golfo. Intanto i movimenti islamici politici stavano guadagnando terreno, in particolare i Fratelli musulmani. Fu allora che le donne egiziane iniziarono a indossare il velo. Oggi, secondo la studiosa Mona Abaza, l’ottanta per cento delle donne egiziane è velata. Il tradizionale velo nero che copre le donne iraniane, dal capo alle caviglie, entra nel paese soltanto con l’avvento al potere dell’Imam Khomeini. E insieme al velo, Khomeini abrogò anche l’illuminato diritto di famiglia promulgato dallo Scià. L’ayatollah disse che il chador è la “bandiera della rivoluzione”. Il paradosso è quando il paese insorse contro lo Scià, con quella marea di dimostrazioni popolari che finì per travolgere il regime simboleggiato dal Trono del Pavone, si videro le donne scendere in piazza a migliaia avvolte nel tradizionale velo, in sfida alla forzata “occidentalizzazione”, salvo poi rimpiangerla dopo l’avvento della teocrazia. Già nel 1926 in Iran, Reza Shah aveva fornito protezione della polizia alle donne iraniane che avevano scelto di fare a meno del velo.
Dieci anni più tardi, il 7 gennaio 1936, lo Scià ordinò a tutti gli insegnanti, alle mogli dei ministri e dei funzionari governativi “di apparire in abiti europei”. Lo Scià chiese alla moglie e alle figlie di apparire senza veli in pubblico. Queste e altre riforme secolarizzanti furono sostenute da Shah Muhammad Reza Pahlavi, che nel settembre del 1941 succedette al padre sul trono e istituì il divieto delle donne velate in pubblico. Nel 1924, un anno dopo la fondazione della Repubblica turca sulle rovine dell’impero ottomano, Mustafa Kemal Atatürk abolì il Califfato ottomano, che era stato l’ultimo residuo sunnita del Califfato islamico dal 1517. Dopo aver introdotto una costituzione laica e un codice giuridico penale occidentale, Atatürk chiuse le scuole religiose, abolì la poligamia, introdusse il matrimonio civile e un concorso di bellezza nazionale. Negli anni fra il 1925 e il ’35, Kemal Atatürk arringò ogni giorno le folle femminili, spingendole a dare l’esempio: togliersi dalla faccia il velo significava affrettare i tempi dell’avvicinamento della Turchia alla civiltà occidentale. Le donne, in quegli anni, erano vestite di seta: ampi calzoni, allacciati alla caviglia, corpetti rilucenti, e in testa, quel velo – il marciai – che le consacrava a un destino oscuro, anonimo, di silenziose schiave. Il marito-padrone aveva, per legge e consuetudine, ogni potere sulla donna. Quietamente la donna si tolse il velo, ci si trovò benissimo e non lo rimise più.
Negli ultimi dieci anni l’inversione di tendenza, con la reislamizzazione della società turca e l’allontanamento dall’occidente. Nel 1997 il governo di coalizione presieduto dall’islamico Necmettin Erbakan abolì il divieto di usare il velo nei luoghi pubblici.
E cosa aveva fatto in Tunisia il governo Bourguiba per meritarsi la scomunica da parte degli integralisti iraniani, a parte eliminare la poligamia, istituire il divorzio giudiziario e indicare un’età minima per il matrimonio ( diciassette anni per la donna)? L’illuminato Bourguiba aveva emesso una circolare che vietava nelle scuole e negli uffici pubblici l’uso dell’hijab. Una decisione, disse Khomeini, che pose il governo tunisino sullo stesso piano del deposto Scià e dell’“eretico” padre della Turchia moderna, Atatürk.
Da tempo anche gli intellettuali islamici avevano preso posizione contro il velo. Già nel 1899, l’intellettuale egiziano Qasim Amin pubblicava il libro “La liberazione della donna”, in cui sosteneva che il velo non era commisurato ai principi dell’islam e ne chiedeva la rimozione. E nel 1923 la femminista Hoda Hanim Shaarawi, che ha stabilito la prima associazione femminista, è diventata la prima donna egiziana a rimuovere il velo. Lo stesso vale per il Pakistan, la “terra dei puri”. Come ha scritto Bina Shah sull’Independent, “sono cresciuta in Pakistan e non avevo mai visto nessuno indossare un hijab. E’ stato solo alla fine degli anni Ottanta che ho visto il mio primo hijab, indossato dalla madre di una ragazza pakistana-americano di Peoria, nell’Illinois”. Non soltanto il mondo islamico non conosceva la pezzola oscurantista. Ma le donne andavano in giro mostrando le gambe. Prima della diffusione dell’islam politico, la minigonna, che era un simbolo culturale occidentale, poteva essere vista in tutto il medio oriente.
Ne erano esempi le hostess in minigonna e senza velo della compagnia aerea afghana, il concorso di bellezza che re Hussein di Giordania organizzò all’Hotel Philadelphia, la squadra di calcio femminile dell’Iraq, l’atleta siriana Silvana Shaheen, le donne libiche che marciavano senza veli per chiedere diritti, le studentesse vestite all’europea all’università palestinese di Berzeit, le donne della borghesia del Cairo e le ragazze egiziane che facevano in bagno (no, niente burkini), le iraniane che trasformarono Teheran in una sorta di piccola Parigi. Poi, a metà degli anni Ottanta, tutto cambiò d’improvviso: la sharia, la legge in vigore nel VII secolo di Maometto, venne implementata in molti di questi paesi sotto la spinta reislamizzante; la donna in medio oriente venne messa in una gabbia portatile e in Europa cominciò a indossare il velo per reclamare la propria “identità”. Accadde per la prima volta in una scuola a Creteil, in Francia, nel 1989, non a caso lo stesso anno della fatwa contro i “Versetti satanici” di Salman Rushdie.
Alcune famiglie musulmane francesi venivano pagate ogni trimestre da parte delle organizzazioni musulmane estremiste soltanto affinché le loro figlie indossassero l’hijab a scuola. In altri casi, bastavano le minacce se le ragazze non volevano portarlo. Quel velo significava il rigetto dell’identità occidentale. Il rifiuto dell’assimilazione. La separazione.
Prima furono imposti i veli alle donne, poi furono gettati i semi della guerra santa contro l’occidente. Siamo ancora lì, al chador e al jihad.
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