Cotone al veleno
Se vi state preparando ad andare a votare sì al referendum sulle trivellazioni nella classica tenuta di un weekend primaverile, jeans e t shirt di cotone, mi preme condividere con voi un paio di informazioni in anteprima rispetto alla data del 12 maggio, quando verranno rese pubbliche nell’ambito del Fashion Forum di Copenhagen sulla sostenibilità. Nel vostro, anzi nel nostro infinitesimale – perché il mio guardaroba assomiglia a quello di qualunque donna occidentale si rilassi facendo shopping e dunque non ho alcuna possibilità di chiamarmi fuori – siamo inquinanti più o meno quanto le Triv, ma siamo certamente meno utili di loro. E lo siamo senza neanche la possibilità di trasformarci in energia verde un giorno o l’altro: quel che indossiamo è stato realizzato a prezzo di un dispendio di energia, di una desertificazione progressiva dei terreni e di un inquinamento delle acque esorbitanti. I tre quarti del contenuto dei nostri armadi finirà in autocombustione in una montagna di rifiuti in un paese, probabilmente centroafricano, e non potrà essere riciclato dalle donne che lavorano per uno dei tanti progetti di empowerment femminile, tipo Carmina Campus di Ilaria Venturini Fendi, perché troppo brutto, troppo malfatto, troppo di cattiva qualità. D’altronde, non l’abbiamo comprato a pochissimi euro perché tanto “lo metto due volte e poi chemmefrega se si buca perché tanto lo butto?”.
Fra coltivazione, tessitura, produzione, tintura, trasporto, lavaggi casalinghi, eventuale (e quasi impossibile) smaltimento, la maglietta da nove euro e novanta che abbiamo acquistato perché il boss non aveva risposto alla nostra mail per tutto il giorno o perché il nostro amore si è mostrato intollerabilmente laconico per tutto il weekend, ha un costo dalle sei alle otto volte superiore per il pianeta, e questo senza neanche mettere nel computo le mani sottopagate che l’hanno cucita, un argomento che preferiamo ignorare quando vogliamo rifarci il guardaroba per cento euro tre volte all’anno sentendoci straordinariamente furbi. Anche le formiche nel loro piccolo sgretolano le montagne, per cui se mai dovessimo presentarci tutti insieme a un referendum sulla sostenibilità con le nostre cassettiere stracolme di “roba” che spesso dimentichiamo di avere (“quanta roba, ma dove metto tutta ’sta roba che manco sapevo più di-averla”), saremmo esemplari in scala uno-centomila circa delle trivelle nell’Adriatico entro le dodici miglia, che è un po’ come dire che abbiamo la patente nautica da diporto per andare a versare i piatti di plastica della spaghettata al largo con gli amici, magari mentre ci lamentiamo delle trivelle. Vi elenco qualcuno dei nostri primati, a dati Textile Exchange 2015: il cinque per cento delle discariche mondiali è occupato da rifiuti tessili, cioè dalle nostre magliette bucate e dalle borsette di tela tanto ecologica che ci vengono offerte nei negozi bio e di cui non sappiamo come liberarci; il venti per cento di tutti i tessuti prodotti nel mondo viene buttato, e sempre il venti per cento dell’inquinamento delle acque mondiali proviene dal trattamento dei tessili (per fare un paragone prospettico, un altro cinquanta per cento arriva direttamente dalle fogne delle case dei nostri sviluppatissimi paesi). Infine, per produrre queste meraviglie consumiamo un trilione di kilowattora all’anno, pari al 10 per cento del totale carbon footprint.
Quando Paul Smith e Vivienne Westwood ci scongiurano di comprare meno vestiti e di migliore qualità per poterli usare a lungo, qualche ragione ce l’hanno, anche se non tutti possiamo permetterci di comprare proprio quelli disegnati da loro (e a loro, comunque, non importa granché: da buoni inglesi, difendono innanzitutto il principio).
L’Unione europea, pur con parecchio ritardo, ha varato regole severissime sulla tipologia e lo smaltimento dei coloranti e sugli scarti di lavorazione dei tessili, dunque i nostri produttori hanno almeno l’obbligo di fare attenzione ai coloranti che usano e tutto l’interesse a usare fonti di energia rinnovabili, ma fossi in voi non mi siederei sulle rive del Brahmaputra a vedere che cosa venga sversato dalle aziende terziste dei nostri brand globali low cost nelle stesse acque in cui milioni di persone cucinano e si fanno le abluzioni igieniche e rituali. Per produrre e mantenere la t shirt di cui scrivevamo prima, quella che tanto buttiamo perché chissene, fra coltivazione del cotone, tessitura, tintura, media ponderata di lavaggi, se ne vanno 700 galloni, cioè circa 2.600 litri di acqua. Il ciclo di vita completo di un paio di jeans ne assorbe addirittura 3.400, di cui circa 1.600 addebitabili a noi e alle nostre lavatrici, e altrettanti alla coltivazione del cotone. E qui arriviamo alla notizia dolente e parecchio spiacevole, perché intaccare il mito della purezza e della naturalità assoluta del cotone equivale a insinuare che Biancaneve se la facesse con i nani (qualche film porno, in effetti, lo ha fatto), o a mettere in dubbio che le pecore dei nostri twin set non producano solo morbide matasse e cacchina santa per le concimazioni, ma anche parecchia anidride carbonica, perché è da quando siamo nati che le nostre mamme ci leggono i “Canti dell’innocenza” di William Blake e all’agnellino associamo “l'abito di gioia, soffice, lanoso, splendente” e una “tenera voce per far gioire le valli”. Per i terreni, il cotone è peggio del sale. Dove passa lui, non cresce letteralmente più l’erba per almeno tre anni e sarà mica un caso se di solito si fotografano le piante di cotone dal basso in modo che risaltino contro l’azzurro del cielo, e non dall’alto, perché si vedrebbero le spaventose crepe che producono nel terreno. Quei bellissimi batuffoli bianchi, oltre a pungere e a piagare le mani se si tenta di raccoglierli senza protezione (“Il colore viola” sarà pure un film lacrimevole, ma non racconta panzane sulla sorte degli schiavi africani deportati), sono costantemente attaccati da funghi e muffe, per cui devono essere irrorati di pesticidi e diserbanti che, va da sé, restano nelle fibre con cui fabbrichiamo camicie e t shirt e sono ovviamente molto dannosi per la salute di chi lo maneggia.
Anche il cotone biologico, coltivato in realtà in una percentuale inferiore all’uno per cento e parecchio caro (all’ultima edizione di Pitti Filati ne è stato presentato uno a fibra extralunga, fatto crescere sulle sponde del Nilo come ai tempi di Mosé, meraviglioso, ma ho la netta impressione che la sua origine sarà a lungo per il nostro paese un deterrente peggiore del suo costo pur elevato), per crescere fino ai due metri regolamentari di altezza assorbe acqua come una idrovora.
Nonostante diversi organismi e ong internazionali, come Better Cotton Initiative, lavorino allo sviluppo di tecniche alternative e sostenibili perché di cotone nel mondo vivono 250 milioni di persone, soprattutto in aree disagiate, gli stessi produttori hanno calcolato che nel giro di vent’anni il bianco batuffolo diventerà una delle fibre più costose in quanto sempre meno disponibile sul mercato, e che fra meno di dieci, cioè domani, per l’industria dell’abbigliamento l’approvvigionamento di acqua sarà la questione prima e dirimente, la “main issue” come verrà detto a chiare lettere a Copenhagen. I catastrofisti annunciano che dovremo scegliere se bere e mangiare oppure se comprarci un’altra t shirt. I pragmatici si sono invece attrezzati da anni rivitalizzando poliestere e vecchie fibre, applicando depuratori che riciclano fino al novanta per cento delle acque di lavorazione dei tessili e, pur senza saperlo e guidati dalla sola motivazione estetica, lo abbiamo fatto in piccola parte anche noi. Ci è bastato scegliere jeans, felpe e t shirt elasticizzati oppure realizzati in modal, una varietà del rayon prodotta dagli anni Sessanta, in tencel (un altro derivato della cellulosa) o anche nello stesso cotone ecologico che esiste, naturalmente, a meno che non si insista per pagarlo venti euro, cuciture e rivetti sulle cinque tasche compresi, perché allora torniamo al discorso dei piatti in mare e del Brahmaputra stillante liquami di prima.
“Per i carciofi a chilometro zero siamo disposti a spendere fino al trenta per cento in più. Di quello che indossiamo, per molto tempo ci è interessato solo che fosse carino e che costasse poco”, osserva Marco Lucietti, marketing director dell’azienda leader mondiale del settore, la turca Isko, duecentocinquanta milioni di metri prodotti all’anno per quasi tutti i brand della moda e circa venticinquemila tessuti in portafoglio, più una nuova fibra in via di sperimentazione per il maggior produttore di moda maschile italiano. Di questa ignoranza siamo responsabili noi e la nostra smania di cambiarci ogni giorno almeno quanto chi ci permette di farlo senza intaccare troppo le nostre sostanze. Se da una parte noi, forse credendoci impermeabili come materassini da bagno, siamo disposti a indossare praticamente qualsiasi cosa, scarpe di plastica indistruttibili, tinture sconosciute che ci stingono addosso alla prima sudata e orecchini carichi di metalli che neanche una centrale nucleare, dall’altra i produttori e, talvolta, la stessa moda, hanno fatto fino a oggi pochissimo per aumentare la nostra consapevolezza sul rispetto dell’ambiente. Talvolta, guarda il caso del cotone, l’hanno addirittura deviata, al punto che le fibre man made come il rayon ci sembrano inquinanti e il cotone il massimo della naturalezza a prescindere. La chimica selvaggia della seconda metà dell’Ottocento, che faceva delle operaie delle tintorie delle fashion victim reali, e dei cappellai dei veri matti perché esposti ai vapori di mercurio della lavorazione del feltro, almeno da questa parte del mondo è ormai materia per i ricercatori, gli storici e gli appassionati di Lewis Carroll, ma il differenziale di prezzo e soprattutto il diverso posizionamento di un prodotto di moda ecologica rispetto a un equivalente realizzato senza la stessa attenzione per i processi e le fasi di lavorazione sono strategie che solo da poco si sono iniziate a valutare. “Tanti grandi brand temono che, producendo una quota di capi sostenibili, il resto della produzione venga caricato di valenze negative e scartato a priori”, aggiunge Lucietti.
Anche il presidente della Camera della moda, Carlo Capasa, ha dovuto lavorare non poco di diplomazia e di blandizie per convincere i propri associati a sottoscrivere un protocollo sulla sostenibilità e, se non fosse stato perché fra i primi firmatari compaiono tutti i dieci grandi nomi della moda italiana, da Armani a Ferragamo, Gucci, Loro Piana, OTB (cioè il gruppo Diesel), Prada, Staff International, Valentino, Versace, Zegna, è improbabile che molti altri si sarebbero sentiti in dovere di sottoscrivere a loro volta. La Carta della sostenibilità è pronta da mesi, ma secondo Capasa sarà completa solo fra due o tre anni, quando verranno inserite anche voci come l’origine delle materie prime e la sostenibilità sociale, il famoso costo del lavoro per il quale scendiamo in piazza finché tocca noi e la nostra filiera, ma di cui ci importa meno di zero se riguarda il lavoratore del Bangladesh o del Vietnam che ha cucito per due centesimi le nostre camicie.
Contro la moda ecologica e compatibile che forse, sotto la minaccia di tutte queste catastrofi, obtorto collo potremmo anche decidere di acquistare, gioca un ultimo fattore negativo, e cioè la creatività. E’ vero che all’ultima sfilata couture di Chanel, Karl Lagerfeld ha presentato abiti decorati di trucioli di legno e scarpe di sughero evidenziando come l’alta moda permetta “di portare l’ecologia a livelli impensabili finora”, ma è altrettanto vero che al costo di centomila euro a capo, la possibilità di diffondere il concetto resta piuttosto limitata, e questo senza considerare che kaiser Karl potrebbe stancarsi del tema domattina e applicare il proprio genio agli scarti del greggio, chi lo sa. Un piccolo gruppo di stilisti e di brand, come Re/Use, Long Journey o Urban Outfitters, lavora sul riciclo, il cosiddetto rework, rielaborando capi usati e vintage; Johnson Hartig, creativo del marchio di culto losangelino Libertine, si vanta di aver “salvato” dal macero diecimila paia di jeans dall’anno della sua fondazione, il 2001. Ma il fatto che fino a oggi fra gli stilisti di rilevanza mondiale forse solo Stella McCartney abbia prodotto moda totalmente sostenibile e animal free (le sue costosissime borse sono in ecopelle, con grande stizza di molte signore che per il loro prezzo vorrebbero veder scuoiati stagni interi di coccodrilli) ha fatto sì che all’eco e al bio, la massa abbia associato dei gran brutti vestiti.
Per milioni di persone, moda ecologica corrisponde a sacchi informi tessuti a mano dai colori improbabili e fangosi che neanche nei dipinti dei Bruegel, indossata da ex-femministe della prima ora con la ricrescita alta due dita e per di più carissima. Non a caso, a detta degli analisti, il cambio di passo, se mai dovesse avvenire davvero, non sarà segnato però dai brand della moda di alta gamma, certamente restie a comprimere sensibilmente i propri margini a causa dei maggiori costi di produzione, ma dal cosiddetto fast fashion che può giovarsi di volumi maggiori e di processi produttivi e logistici standardizzati e su vasta scala. Non è un caso che al Fashion Summit di Copenhagen, accanto a Capasa, Lucietti e Renzo Rosso, sia attesa Anna Gedda, capo della divisione sostenibilità di H&M. D’altronde, come nell’alimentare biologico il boom è arrivato grazie alla sua accessibilità nei super e negli ipermercati, tanto che adesso anche la più tetragona delle massaie e il più fatuo dei manager single leggono con attenzione provenienza e ingredienti della spesa, lo stesso dovrà avvenire con l’abbigliamento. Nel frattempo, per iniziare, potremmo darci anche noi al riciclo autogestito, esplorando più a fondo il contenuto dei nostri armadi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano