El grinta
Dei molti modi di raccontare Diego Pablo Simeone, l’Italia ne ha scelto uno: l’anti Guardiola. Che è una cosa vera, ma non del tutto. Che è una cosa facile, soprattutto. Perché il nostro modo di rappresentare il calcio è sempre fatto di opposti, di rivalità ideali oltre che sportive, di approcci diversi, di bianco e nero, di nessuna sfumatura. E’ l’estremizzazione del messaggio sportivo, ovvero il concetto di tifo applicato a ogni cosa. Per questo oltre che squadra contro squadra, mettiamo sempre l’uno contro uno (Rivera contro Mazzola, Totti contro Del Piero). Gli allenatori sono perfetti per questo. Sono singoli, sono personaggi, sono leader. E quindi Sacchi contro Trapattoni, come Rocco contro Herrera. Perché con gli allenatori non ci si limita a cercare il dualismo e la rivalità nell’essere due tipi diversi della stessa cosa (come per esempio due numeri dieci, due centravanti, due registi): diventa una guerra civile tra due idee, tra due visioni, tra due mondi: innovazione contro tradizione, futuro contro passato, democrazia contro monarchia. Quindi di un allenatore che viene messo a confronto con un altro si scava nel carattere, oltre che nel sistema di gioco, nel modo di rapportarsi con la stampa, nel modo di essere leader di uno spogliatoio. E’ uno strumento narrativo efficace, perché anni e anni di esperienza l’hanno trasformato in un postulato: prendi due allenatori, li contrapponi e troverai la chiave per entrare nella testa di chiunque. Perché chi è sacchiano non può essere trapattoniano, chi è guardiolista non può essere cholista. Nel senso del Cholo, quindi di Simeone. Perché con Mourinho e Ancelotti fuorigioco momentaneamente, il mondo si divide tra Pep e Diego. Il che è una verità parziale: lo strumento della rivalità è comprensibile ma non spiega tutto. Non spiega fino in fondo proprio Simeone. Che non è soltanto l’opposto di qualcuno, è un’idea di calcio chiara e traslata da sé agli altri, cioè dirigenza, calciatori, pubblico. Che non è soltanto grinta, forza, voglia: è scienza esattamente come è scienza quella di Pep. Esistono molti modi per arrivare a uno stesso risultato, ma il punto di partenza e quello di arrivo sono gli stessi. E uguali sono molte altre cose. Il simeonismo o cholismo è una metacultura pallonara: è il prendere tutto sul serio, senza concedersi tregue e senza concederne ad altri. Non c’è ironia. Simeone piace perché non ha sovrastrutture mediatiche, o quanto meno questo è ciò che lascia capire di sé. Qualche tempo fa sulla Gazzetta, Paolo Condò mise insieme molte frasi di Diego: “Nell’Inter ho giocato con Ronaldo. Ricordo che nel tunnel degli spogliatoi, luogo in cui tutti i nervosismi si incontrano, lui faceva battute. La cosa non mi entusiasmava. O meglio: invidiavo ma non condividevo il fatto che lui andasse in campo per divertirsi. Nel tunnel, come nella vita, Ronaldo era un tipo rilassato, tranquillo, scherzava di continuo. Io mi concentravo pensando solo alla partita, e sono così ancora adesso”.
Adesso lo vedi in campo: corre, si agita, soffre, incita il pubblico. E’ il calcio della garra, d’accordo. Che è sempre stata una parte di Simeone, quella più visibile, più facile da capire, più immediata: la grinta, quell’idea di non mollare di un centimetro. Per questo Diego è sempre stato uno di quei personaggi che da avversario detesti e che però vorresti sempre nella tua squadra. Perché se ce l’hai contro è odioso, esagerato, pittoresco al punto da irritarti, però se è un tuo giocatore o allenatore ti fa godere per lo stesso motivo. Oggi, vedendolo a bordo campo, è come se non avesse mai smesso di giocare e questo lo rende diverso non da Guardiola ma da allenatori alla Mourinho che invece in campo di fatto non ci sono mai stati. Ma è tutto contorno, questo. Fa personaggio più che allenatore. Una parte fondamentale, ma non esaustiva di Simeone. Lui la esalta e i media la colgono e va bene così, perché è ciò che lo aiuta a raccontare una storia che si deve differenziare dalle altre. Quindi funziona e tutti fanno in modo che continui a funzionare, Simeone per primo. Che pur non avendo sovrastrutture ha testa e con quella testa ha capito che la diversità percepita dagli altri va alimentata. Quindi si pone come alternativa al Barcellona e al Real Madrid. La terza via della Spagna calcistica. Come ha scritto Tony Damascelli: “Se ti chiami Atletico e sei di Madrid che altro dovresti fare nella vita? Correre, soffrire, mostrare a quelli di là, del Chamartin, i signori del Real, che si può vincere senza esibire le medaglie sul petto e i conti correnti in banca e poi togliere la maschera ai riccastri di Catalogna, quelli del Barcellona che si trastullano con il loro tiki taka per poi spedirli a rimirar le stelle. Diego Simeone è puro football, è il calcio come dovrebbe esser, come la vita stessa dovrebbe scorrere ogni giorno: ‘Qualcuno dice che bisogna saper perdere. No, io dico che bisogna saper vincere’. Non è un salto, è un cambio di direzione, di filosofia, di testa e di cuore. Il calcio è davvero una questione di vita e di morte per il meticcio, el cholo (così lo chiamò don Victorio Spinetto, il migliore selezionatore di giovani argentini). Ma lui non è affatto di razza mista, è puro di calcio, ha un solo colore e un solo calore. Dopo aver eliminato i campioni d’Europa non ha parlato di tattica, non ha accennato all’arbitro, non ha esaltato il pubblico ma ha ricordato che i suoi, tutti, dal magazziniere all’autista del bus, dal portiere all’ultima delle riserve, si portano appresso quei valori che la società sta smarrendo, ogni giorno, sempre di più”.
Diego Pablo Simeone in allenamento (foto LaPresse)
E’ qui che bisogna fermarsi. Prendere tempo, ragionare, studiare. Perché fin qui arriva il personaggio. Poi spesso, troppo spesso, il prosieguo è qualcosa che assomiglia all’idea che Simeone sia il profeta del calcio senza campioni, fatto di grinta, di forza, di volontà. Invece no, nell’Atletico, nel suo Atletico ci sono campioni, talento, forza, tecnica. Simeone sembra coprire tutto con una leadership incredibile, con un modo di muoversi in panchina che lo fa sembrare da solo contro il mondo. Ma sotto le urla che partono dalla sua panchina negli anni ci sono stati Diego Costa, David Villa, Arda Turan, Diego Silva, Koke, Gabi, Godin, Griezmann, Fernando Torres, Juanfran: giocatori da favola che rispondono a un preciso disegno dell’allenatore. A lui l’anno prima che arrivasse alla finale di Champions contro il Real avevano venduto Falcao, 30 gol a stagione, e ha ringraziato. Perché preferiva altri, ma non è che preferisse brocchi. La grinta, per qualcuno anche la cattiveria dell’Atletico, è un aspetto del suo gioco, come è un aspetto del suo allenatore. Dentro, però, c’è un sacco di altra roba che poi è la ragione di risultati che a nessuno pareva fossero possibili negli ultimi anni. Perché oggi ci si concentra sulla vittoria contro il Barcellona e l’arrivo nelle semifinali di Champions, ma, dal 2014 a oggi, ci sono un campionato vinto, una finale di Champions (persa nei supplementari) e un terzo posto in campionato.
La terza via del calcio spagnolo è il frutto di un lavoro, di un disegno, di una strategia. Simeone ci è arrivato col tempo. Perché non è stato facile e comunque non tutti si ricordano gli inizi. Perché l’esordio da allenatore di Simeone arrivò una settimana dopo la sua ultima partita da centrocampista per il Racing Club de Avellaneda. Prima partita in panchina: sconfitta nel derby contro l’Independiente. Era il febbraio 2006, Simeone aveva 35 anni, il Racing era ultimo in classifica e aveva bisogno di un cambio alla guida tecnica. L’uomo che oggi tutti esaltano ha avuto un inizio complicato: cinque squadre diverse in Argentina in meno di sei anni, con la parentesi di mezza stagione al Catania, condotto alla salvezza. Qualche successo (un Torneo Apertura con l’Estudiantes, un Clausura con il River Plate), ma anche molte polemiche e sconfitte. A dicembre 2011, per qualcuno Simeone era un allenatore già considerato di seconda fascia, per altri ancora poco pronto: persino Lo Monaco, all’epoca dirigente del Catania, tra mille complimenti lo definisce un capitano non giocatore.
L’ha cambiato l’Atletico e l’Atletico è cambiato con lui. Perché Simeone s’è trovato in un processo di rinnovamento incredibile della seconda squadra di Madrid. Un percorso fatto di strategia imprenditoriale, di mosse finanziarie, di marketing, comunicazione e chiaramente anche di campo. Sul Financial Times, Simon Kuper ha raccontato questa evoluzione, che non è dipesa soltanto dalla capacità del club e del suo board, ma anche dalle scelte fatte dal sistema calcio spagnolo: “Le società hanno accettato di dividere gli introiti dei diritti tv in maniera più equa. Per anni, ogni club negoziava la propria quota individuale dei diritti. Real e Barcellona prendevano 140 milioni di euro ciascuno e agli altri andavano noccioline. Questa disuguaglianza ha permesso a un paese di medie dimensioni in crisi economica di finanziare due squadre al punto da farle diventare di gran lunga le più forti del mondo. Ma ha anche trasformato il campionato spagnolo in un rito noioso. L’Atletico è intervenuto: ‘Vogliamo avere un campionato o solo due club che tutti devono applaudire?’. Il resto l’ha fatto il governo che ha quasi imposto a Real e Barça di accettare una nuova distribuzione dei ricavi. Nella stagione d’oro del 2013-’14, i ricavi totali dell’Atletico erano di 169,9 milioni di euro, una cifra che gli ha dato il 15° posto nella classifica dei club con più alto fatturato. Ma entro il 2020, McKinsey proietta i ricavi della società a 310 milioni”.
L’arrivo di soldi freschi ha definitivamente dato alla proprietà del club la certezza che non ci fosse ritorno rispetto all’idea di diventare più globali. Oggi la ricerca dell’Atletico è senza confini. A gennaio 2015 il presidente del gruppo Dalian Wanda Wang Jianlin, l’uomo più ricco della Cina secondo Forbes, ha acquistato il 20 per cento dell’Atletico per 45 milioni. Lo sponsor del club è il governo dell’Azerbaijan. In India un gruppo di investitori si è unito al board madrileno per creare l’Atletico de Calcutta. Questo amplia le possibilità di crescere: più tifosi nel mondo uguale più ricavi. E’ un’equazione semplice. Così si sono liberate risorse per gli investimenti. Nella squadra e nel resto: nel 2017, l’Atletico avrà un nuovo stadio che sostituirà il Vicente Calderón: 70 mila posti, ovvero 15 mila in più rispetto a oggi. Un costo di 220 milioni di euro, che il club pensa di ripagare in meno di quattro anni.
Tutto questo sembra che non c’entri con Simeone, invece c’entra. Perché serve una guida forte, serve un simbolo, serve un’anima. Il Cholo svolge questa funzione. Perché la narrazione di Simeone aiuta l’Atletico a essere grande. Il cholismo è un brand che Kuper ha descritto così: “Significa essenzialmente che tutta la squadra gioca con l’aggressività di chi vuole spaventare gli avversari. L’allenatore ama dire che i suoi giocatori devono essere ‘hombres’. Quando ho chiesto all’attaccante belga dell’Atletico Yannick Ferreira Carrasco che cosa significava esattamente, lui ha spiegato: ‘Le persone che hanno le loro palle nel posto giusto’. L’allenamento è senza sosta. Carrasco racconta che ‘si passa da un esercizio all’altro, in modo che la frequenza cardiaca non vada mai giù’. La stella francese Antoine Griezmann dice che, dopo gli allenamenti e le prove che si fanno in settimana con Simeone, ‘nella partita si è pronti per qualsiasi tipo di contatto fisico’”.
E’ qui che si ritorna al punto di partenza. Sicuri che abbia senso parlare di Simeone come dell’anti Guardiola? Perché i punti di contatto sono molti di più di quanto si possa pensare: l’ossessione per la preparazione fisica, per la capacità di contrastare gli avversari, per la forza da mettere in campo, per la fisicità da ostentare. L’idea di non avere la vittoria come altro mezzo di espressione della propria identità calcistica. Simeone dice: “Qualcuno dice che bisogna saper perdere. No, io dico che bisogna saper vincere”. Che è una frase che direbbe – o forse ha anche detto – Pep. E quindi il punto di partenza e quello di arrivo sono gli stessi: la differenza sta nel mezzo. Simeone, anche per caratteristiche dei suoi giocatori, non ama il possesso palla. Simeone ha ereditato una parte del lavoro che ha fatto il Borussia di Klopp: essere l’alternativa al gioco da migliaia di passaggi del Barcellona o a quello diverso ma sempre con molto possesso della palla del Real. Pochi tocchi ma in profondità, un attaccante centrale che prende botte, tiene il pallone, segna e fa spazio per gli altri, un sacco di centrocampisti che salgono e arrivano al tiro. E’ uno spettacolo diverso, calibrato sull’identità dell’allenatore. Ferguson riusciva a far giocare il Manchester in maniera opposta a come avrebbe giocato lui. Simeone fa il contrario. Per questo è come se giocasse ancora lui. Per il modo di stare in campo e per l’atteggiamento e il risultato: era un centrocampista da tanti gol e i suoi centrocampisti fanno tanti gol, motivo per cui l’Atletico è la squadra europea che ha segnato con più giocatori in Champions nel 2014, quando è arrivato in finale, e sta ripetendo lo stesso percorso adesso. Con un dettaglio in più. Questa squadra segna meno di quella di due anni fa, ma prende anche meno gol. Emiliano Battazzi ha descritto così il suo stile di gioco: “E’ fatto di linee compatte e strette, in cui tutti i giocatori sembrano legati insieme come in un biliardino o una falange oplitica. La squadra si muove sempre all’unisono, non lascia mai spazi in zona centrale, è sempre in superiorità numerica nella zona del pallone e appena riconquista il possesso può contare sul contropiede veloce”. Difesa è un termine che usa molto. A parole e nei fatti. In Champions ha giocato 16 partite in casa e ha preso quattro gol in tutto. In campionato ne ha presi 16 in 32 partite e chiaramente è la squadra che ne ha subiti meno di tutti. La garra è una spiegazione, quindi. I numeri sono il resto. E i numeri raccontano Simeone quanto le sue parole.
Il Foglio sportivo - in corpore sano