Al giardino non l'ho detto
And does it not seem hard to you,
When all the sky is clear and blue,
And I should like so much to play,
To have to go to bed by day?
Ma non vi pare brutto,
Col cielo così chiaro e azzurro,
Quando si vorrebbe tanto giocare,
Dovere andare a letto di giorno?
Robert Louis Stevenson
A primavera la vita è spingere. Chi ha un giardino lo sa. Anche chi ha qualche bulbo piantato in un vaso sul davanzale della finestra, appena sopra le automobili, appena sopra le sirene delle ambulanze. A primavera i bulbi spingono, le gemme premono e ovunque nasce qualcosa, anche a dispetto di chi non ha innaffiato, di chi è andato via. In aprile la vita è spingere, è un movimento inarrestabile verso l’alto, che arriva dalla terra, da dentro, ed esce fuori. Le ragazze la sera per strada, che fino al giorno prima era deserta, la fila dei motorini parcheggiati, quei due si baciano seduti sulla scalinata e non hanno freddo e poi lui la prende per mano e la porta via, sempre immersi in questa vita nuova e soltanto loro. Ci si abbraccia di più, ci si tocca, ci si accompagna a casa e poi ci si riaccompagna, per non smettere di parlare.
A primavera la fine del giorno ha una luce che sembra infinita, è impossibile che arrivi il buio, e comunque quando arriva è un buio rosato, un buio pieno del bagliore di tutte le persone accese, come i bulbi che spingono per uscire. E’ il momento del fulgore, dei nuovi inizi, della gioia di essere vivi e di essere usciti dall’inverno. Ma allora perché, come i bambini che non vogliono andare mai a dormire, che dicono ancora dieci minuti per favore, ancora una capriola, ancora una storia, un pezzetto di film, ancora la tua mano nella mia, allora perché dover andare a letto di giorno, quando si vorrebbe tanto giocare? Perché la luce si infittisce e scompare, quando ci aveva promesso, o almeno noi avevamo capito così, di non finire mai?
E’ così bella, proprio adesso poi, adesso che sembrava finalmente di riuscire ad afferrarla: sembrava di avere capito qualcosa, avere afferrato la vita, dopo avere lasciato andare e venire giorni e notti senza quasi accorgersene, senza fare caso alla luce, e proprio adesso la vita comincia a fuggire, mentre i bulbi spingono per uscire, mentre la vita degli altri spinge, mentre il cielo è così azzurro. Il nostro grande amico Stefano Di Michele è morto mentre il cielo era azzurro, mentre i bambini giocavano a calcio nella piazza piccola perché era sabato, qualcuno andava al mare e i narcisi erano sbocciati. C’era il vento, però, che si alzava e subito si calmava, e lui che aveva afferrato se stesso nella vita, ci era riuscito, avrebbe voluto ancora giocare, scrivere, accarezzare i suoi gatti, sedersi sul terrazzo, mangiare la pizza bianca, chiacchierare con gli amici con un libro in mano e due dita con in mezzo il sigaro non sempre acceso a tenere il segno fra le pagine.
Come nella poesia magnifica di Giorgio Caproni, “Congedo del viaggiatore cerimonioso”, il momento più difficile, mentre tutt’attorno la vita spinge, è stato cominciare a tirare giù la valigia, e salutare, è stato saperlo in arrivo: “Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione. Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte: così bello confondere i volti (fumare,
scambiandoci le sigarette), e tutto quel raccontare
di noi (quell’inventare facile, nel dire agli altri),
fino a poter confessare quanto, anche messi alle strette,
mai avremmo osato un istante
(per sbaglio) confidare”.
Chiedere congedo ai gatti, alle persone con cui era bello scambiare le sigarette e le parole, chiedere congedo agli alberi e alle piante del giardino a cui ancora non si è detto che si sta per morire. Al cane Macchia di Pia Pera, scrittrice, traduttrice dal russo, giardiniera appassionata, che in un libro abbagliante uscito per Ponte alle Grazie, “Al giardino ancora non l’ho detto” (è un verso di una poesia di Emily Dickinson), racconta la rivelazione e la convivenza con il suo giardino dentro la malattia che la sta portando lentamente (mai abbastanza lentamente) a non essere più un giardiniere, ad aver bisogno degli altri anche per battere sui tasti, a dovere andare a letto di giorno, mentre sul gelso ci sono tante more verdi che si apriranno poi – forse – in piccoli fiori. Pia Pera ha perso la donna che era un tempo, quella che camminava in montagna, visitava giardini in Giappone, guardava con commiserazione chi prendeva il taxi invece di andare a piedi, che andava di fretta con le gambe e con i giudizi: quando ci si sente forti, succede che i deboli, i lenti, gli amareggiati diano fastidio (perché non si levano di torno, questi incapaci, perché la fanno tanto lunga?), da quando ha ricevuto la notizia, e la percezione costante, sul corpo e sull’idea di futuro, di una catastrofe.
Come la tempesta sugli alberi, sapendo però che non smetterà mai, al massimo diventerà una pioggia, ma continuerà, e il giardino dovrà vedersela da solo, anche il ciliegio e gli asparagi. I gatti dovranno trovare qualcun altro che dia loro i croccantini. Gli amici non potranno riprendere le conversazioni interrotte, sui telefoni resteranno messaggi senza risposta, storielle che non si è riusciti a raccontare, abbracci che restano nei pensieri e non nelle mani, le parole messe da parte che invece bisognava far uscire subito. Eppure, scrive Pia Pera, “questa catastrofe mi ha, in un certo senso, sanato”. Le ha dato un nuovo sguardo, libero dai fronzoli, libero anche dagli scopi, dal controllo, dal dovere di assecondare i progetti e i sogni degli altri. “C’è qualcosa di più, in questa paradossale serenità? Mi trovo io stessa in balìa. Questo ispira un sentimento di fratellanza col giardino, acuisce la sensazione di farne parte. Altrettanto indifesa, altrettanto mortale. Meno sola, in un certo senso.
Altrettanto sola? Se all’inizio mi prendevo cura del giardino, compiendo in piena autosufficienza tutti i lavori, adesso debbo prendermi cura di me stessa. Il tempo prima impiegato potando, scavando buche, bruciando frasche, zappando, falciando l’erba, adesso mi viene rubato dalle cure necessarie a mantenere me stessa in vita. Quasi fossi diventata io il giardino”. Per lei è arrivato (troppo presto) il tempo di lasciarsi coltivare, come una pianta, lasciare che la primavera faccia quello che deve, non pretendere di opporsi alla corrente oltre le possibilità (Pia Pera racconta in questo libro anche l’epoca della sua frequentazione intensiva con “ciarlatani di ogni genere”, che promettevano di farla tornare a ballare entro l’estate, che ordinavano di spostare il letto, e cambiare il ferro con il legno, per via della cattiva situazione elettromagnetica, che giravano per casa agitando bacchette, che dicevano: sono le delusioni che non ti fanno guarire).
Questo libro è un diario privo di finzione, di aggiustamenti, di consolazione (la malattia è odiosa, la sensazione di soffocare, la notte, fa spavento, camminare è sempre più difficile, gli orizzonti rimpiccioliscono), ma è colmo di bellezza e di libertà, glicini in fiore e tulipani in mezzo all’erba alta: la certezza, accolta attraverso il passaggio nel dolore e nella paura, che quello che abbiamo davanti è, sempre, l’attimo per attimo, sono gli esseri (il cane, i figli, un gatto, il verde di una foglia, un uomo innamorato) attraverso i quali qualcuno ci ha molto amato, “ed è stato lo stesso un miracolo potersi affacciare sul mondo, almeno per un poco”, guardare la luce che sembra non dover finire mai. ma quando la luce si spegne, che cosa resta? Essersi affacciati, essersi voluti bene. Avere curato il giardino, gli amici, i bambini, i fiori, i segreti.
Da bambina avevo un romanzo preferito, letto almeno venti volte e poi mai più: “Il giardino segreto”, di Frances Hodgson Burnett, un libro per ragazzi degli inizi del Novecento, che ho provato da poco a regalare a mia figlia, dicendole: è bellissimo, e lei l’ha letto per farmi piacere ma si vedeva che preferiva le avventure fra i ghiacci di Tea Stilton: la scoperta di quel giardino chiuso a chiave, con le mura alte e la porta nascosta dall’edera, pieno di sterpi e di erbacce, non le ha provocato l’eccitazione, il senso di possibilità che ha invece creato dentro di me. Attraverso quel giardino incolto in cui i gigli e i bucaneve e gli asfodeli lavorano sottoterra, e il pettirosso ha fatto il nido fra i rami, i bambini della storia, Mary e Colin, cominciano davvero a vivere, Colin guarisce dalle sue malattie vere e finte, Mary trova un amore per la vita che nessuno le aveva insegnato. Smettono di fare i capricci, di piagnucolare sulle loro sfortune, non sono più pallidi e arresi perché si sono appassionati a qualcosa che li spinge verso l’alto. Il senso di avventura, di segretezza, ma anche la sensazione di potenza che offre la vista di piante cresciute, di mele che riempiono l’albero, di cose nuove e vive: è questa la primavera, è la vita che spinge.
E’ incredibile immaginare di rassegnarsi a lasciarla andare: lasciare andare le idee, toccarne l’impermanenza, scrive Pia Pera, non è diverso dal lasciare andare tutto il resto. I piedi. Il movimento delle gambe. La forza nelle braccia. La velocità degli altri. La sedia sul terrazzo (ma Stefano Di Michele diceva che certo dopo la morte ci saranno sedie e panchine e gatti e poesie, e le persone, né più sagge né migliori: uguali). Perdere pezzi di sé mentre la primavera scoppia e il cane Macchia strofina il muso sulle ginocchia, e chiedersi se davvero esista questo “viaggio dell’anima”, o non sia invece una storiella inventata per consolare chi non può più andare da nessuna parte (ma certo non ha senso rimpiangere le cose non fatte di cui evidentemente non avevamo nessuna voglia). Piuttosto, il pensiero del gelsomino, che non sa che un giorno, di colpo, qualcuno non verrà, e la siepe di lecci diventerà un bosco, e niente avrà più un freno o una carezza. “Al giardino ancora non l’ho detto – non ce la farei.
Nemmeno ho la forza adesso di confessarlo all’ape”, è l’inizio della poesia di Emily Dickinson. E’ un ribaltamento di prospettiva, è la perdita dell’egoismo, o è invece un altro modo di darsi importanza, di immaginarci indispensabili alla pianta, al gatto, alle conversazioni con gli altri, alle cose cominciate che dovremo abbandonare?, si chiede Pia Pera, prima e dopo la scoperta della malattia (“Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo. Non me n’ero accorta”), ma la risposta è forse che, qualunque vita ci siamo scelti, qualunque sia il mondo su cui ci siamo per un po’ affacciati, sempre cerchiamo gli sguardi degli altri: anche di un fiore. “E’ tutto di una bellezza, una grazia, un’armonia che mi sorprendo a desiderare un’altra primavera ancora, e a pensare: che strano, adesso che ne dubito, che non lo do per scontato, il mondo mi appaia incredibilmente ricco di meraviglie”.
L’erba fiorita, il caffè nella tazza, il posto sul divano, l’angolo preferito della finestra, il peso del gatto sulle ginocchia e i gesti di tutte le persone amate: è per Macchia che cerco di restare, scrive Pia Pera. Per Macchia e per tutti gli altri che ci guardano fiduciosi, compreso il glicine che sta in piedi per conto suo a farsi ammirare: quindi è per noi che cerchiamo di restare e crediamo intensamente in aprile e nella primavera. Nelle cose bellissime che succedono sempre, almeno per un attimo. Negli istanti in paradiso, però piantati ancora qui, con le mani nelle mani degli altri. Come nei versi in “Gente sul ponte” di Wislawa Szymborska, poetessa che Stefano Di Michele ha molto amato, e quindi certo avrà letto anche questi e avrà tenuto il segno con il sigaro fra le dita, seduto sull’unico gradino della nostra redazione, davanti ai platani: “Non c’è vita / Che almeno per un attimo / Non sia stata immortale”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano