Coltivarono lunghe amicizie e conoscenze mondane, insieme assaporavano la dolcezza della vita. “Gli ultimi libertini” di Benedetta Craveri è pubblicato da Adelphi

Vite parallele degli ultimi libertini

Curiosi di tutto per il piacere del corpo e dell'anima

Giuseppe Marcenaro
Colti, eleganti, maestri nell’arte della seduzione: con il loro pensiero illuminarono l’Ancien Régime al tramonto. Alcuni furono travolti dalla Rivoluzione, altri le sopravvissero. Sette storie raccontate nel libro di Benedetta Craveri

Fu lei, passabilmente, la prima a leggere le memorie del duca di Lauzun. Il manoscritto era stato sequestrato per ordine diretto di Napoleone. E lei, ovviamente accontentata, aveva chiesto di potervi dare un’occhiata. Per forse capire cosa contenesse quella scritturazione che, se resa pubblica, secondo diffuse dicerie, avrebbe suscitato scandalo nel gran chiacchiericcio della Francia imperiale. Dove tutti facevano le bucce a tutti, si scandagliavano a vicenda i vari trascorsi, e ognuno cercava di far dimenticare trucidezze, marachelle e peccati inassolvibili. Tuttavia… Passata la bufera le “formiche ricostruivano il formicaio”. Dovendo restituire il manoscritto, in tutta riservatezza, se ne era fatta fare una copia. Certo a suo comodo di lettura. Coll’effrazione “ingenua” aveva però evitato, almeno sulla carta, la cancellazione di una testimonianza diretta, da chi li aveva vissuti, degli ultimi anni dell’Ancien Régime, da molti rimpianti. La sua una “marachella” alle spalle di un patrigno e a un tempo cognato.

 

La fervente lettrice, curiosa del tramontato mondo e di quell’ancora vagheggiato douceur de vivre, passato il ’79, il Terrore, il Consolato, era Hortense Beauharnais, figlia di Giuseppina. Per volere del patrigno, nel 1802, a diciannove anni, Hortence va sposa a Luigi Bonaparte, che dal 1806 sarà nominato re d’Olanda. Hortence, reticente, segue il marito sul trono dell’Aja. Duplice il disappunto: apprestarsi a una sorte reale che non la interessava, con un marito subìto e malsopportato, con il quale non andava d’accordo, e soprattutto abbandonare la per lei più che piacevole vita condotta nella “nuova” società parigina, quella del Consolato e dell’Impero. Se ne sarebbe ricordata nelle proprie memorie.

 

Da “Mémoires de la Reine Hortense: Aux Tuileries et a la Malmaison 1799-1801”:
“Sono stata accompagnata da mia madre a un ballo del fratello di M. De Talleyrand, M. Archambaul-Joseph De Talleyrand-Périgord, che aveva sposato Sabine Olivier de Senozan di Viriville, decapitata nel 1794, cancellato di recente dalla lista degli esiliati. Al ballo erano convenuti suoi compagni di sfortuna e una parte della nobiltà sopravissuta alle disgrazie della Rivoluzione. Vi ho visto per la prima volta De Mun, De Gontaut, De Nicolaï, De Noailles, De Choiseul-Praslin… mi piaceva il tono dei loro discorsi… ascoltavo… desideravo conoscere i loro caratteri… mi incuriosivano… ma allora ero troppo giovane per pensare al matrimonio. La monotona vita al Luxembourg mi annoiava moltissimo e diventava insopportabile soprattutto quando mia madre voleva parlarmi seriosamente di De Mun. Aveva una fortuna immensa, ancor giovane era già avvocato e, dicevano, avesse molto interesse per me. Non ne ero convinta. Era un uomo frivolo e in realtà puntava alla figlia del Primo Console soltanto per ambizione… Durante l’assenza del Console e di mio fratello Eugenio abitavamo alla Malmaison e tutti i giovanotti del faubourg Saint-Germain venivano assiduamente. Si ricominciava a parlare di matrimonio… Finalmente non si parlava più di M. de Mun, rimpiazzato nei discorsi di mia madre, che lo aveva in simpatia, da M. de Gontaut, dal gradevolissimo aspetto, fratello minore del duca di Biron…”.

 

Ed è a proposito di questo passo delle memorie di Hortense, con una puntigliosità quasi piccata come se la cosa la riguardasse personalmente, a interferire e a “precisare” la “svista” della Regina d’Olanda, salta fuori Louise-Marie-Victoire de Chastenay, la memorialista che doveva essersi autoincaricata di “rammendare” i fatti del mondo parigino del tempo. In più punti del suo “Mémoires de Madame de Chastenay” chiosa, corregge, argomenta circostanze: “La Regina cade certamente qui in confusione… La Regina sbaglia… E in particolare nello specifico riferito passo evocato da Hortense.
Da “Mémoires de Madame de Chastenay, 1771-1815”:

 

“Errore della Regina. Il titolo di duc de Biron non aveva nulla a che fare con i due giovani ricordati da lei. Apparteneva a chi era stato ghigliottinato il 31 dicembre 1793 e il titolo non passò al ramo dei Gontaut di Saint-Blanchard, dei quali faceva parte Aimé-Charles-Zacharie-Elisabeth cui fa riferimento la Regina Hortense. Charles de Gontaut, molto charmant, allora si chiamava Aimé ed era nell’età giusta per sposare Hortense”.

 

Sublime distinzione: l’arte della ciarla affidata alla memorialistica. Con uno spericolato salto da cinguettio salottiero si svelerebbe allora, senza svelarla, la ragione per cui Hortense fosse così interessata a leggere le “Mémoires du duc de Lauzun”, congiunto, così sembrava, dell’affascinante giovane che stava nel gioco dei flirt tra i frequentatori della Malmaison.

 

Hortense era vivace, capelli biondi, occhi azzurri, si diceva che il suo nome fosse scelto ispirandosi a Hortensia, il rarissimo diamante color rosa pesca appartenuto a Luigi XIV. Curiosa di come fosse il mondo, soprattutto del tempo quand’era nata, a Parigi nel 1783. Il padre, visconte Alexandre de Beauharnais era stato giustiziato nel 1794, un paio di giorni prima delle fine del regime del Terrore. Sua madre, Giuseppina Tascher de La Pagerie, imprigionata nel carcere del Carmes, presto rilasciata, due anni dopo sposava il generale Napoleone Bonaparte.

 

Nella corte dell’Aja, la regina Hortense viveva praticamente separata dal marito, re Luigi Bonaparte, fratello del patrigno. Inutilmente oppostasi, venne persuasa dalla madre ad accettare il matrimonio per il bene della famiglia e per fortificare l’unione coi Bonaparte. Diede al marito due figli. Uno morì. L’altro, Louis-Napoleon, futuro Napoleone III. La nascita dei figli la rese in un certo qual senso libera dagli impegni di regina. Nel 1810 abbandonò l’Olanda. Riprese così i rapporti con l’uomo che da sempre amava, il colonnello Charles-Joseph, conte di Flahaut, prestante, raffinato. Nel solito giro dei potin, forse figlio di Talleyrand. L’anno dopo, in una località discreta, nei pressi del lago di Ginevra, Hortense diede segretamente alla luce un figlio di De Flahaut, battezzato Charles-Auguste-Louis-Joseph, più tardi conosciuto come duca di Mornay, nominato dal fratellastro Napoleone III. Questa è però un’altra storia.

 

Giochi di memoria e certe concomitanze, nella nuvola di supposizioni e chiacchiericci, sembrerebbero fissare a quel 1811 il “colpo” di libertà di Hortense, quando, onde evitare il riaffiorare di un passato nel quale si andava continuamente scandagliando per cercare di capire cosa fosse effettivamente successo, si rese pubblica la decisione di Napoleone I imperatore di far sequestrare, e far sparire, il manoscritto del duca di Lauzun. Quelle memorie erano la testimonianza di anni belli e tragici, a modo loro l’antitesi del nuovo regime. Si vociferava sarebbero state pubblicate. Il mondo parigino era in allarme per il timore di rivelazioni che avrebbero potuto creare fratture e contrasti nel nuovo ordine preteso dall’imperatore. Sparì così il manoscritto di uno degli ultimi celebri libertini di Francia dell’Antico Regime, la cui testa era caduta sotto la lama della ghigliottina il 31 dicembre 1793. Napoleone poteva darsi pace…

 

Ma sopravviveva la copia che si era segretamente fatta fare Hortensia. Nel 1821, in piena Restaurazione, “Mémoires du duc de Lauzun” andò in libreria, suscitando un vero e proprio scandalo. Quando apparve, soddisfece sicuramente l’ansia di curiosità e forse dissipò quei timori che la rievocazione di un passato in contrasto con le politiche del presente potevano creare. Qualche disturbo sociale. Non vi era dubbio che i “Mémoires du duc de Lauzun” fosse un libro singolare, data la fama dell’autore. In realtà una testimonianza, di parte, della tramontata vita dorata dell’aristocrazia di Francia. Secondo Sainte-Beuve “null’altro che un libro mediocremente divertente, confinante a tratti con la noia… Una raccolta di pettegolezzi… La rievocazione di un’epoca curiosa iniziata nella frivolezza e conclusasi nel sangue”.

 

Pagine zeppe di nomi e di fatti: intrichi di una contingenza dove il piacere della vita era la vocazione di una certa élite cosmopolita con al centro la corte: un palcoscenico calcato da mattatori, prim’attori, caratteri e comparse d’ogni umana varietà: Maria Antonietta, Talleyrand, i vari clan nobiliari con al centro quel sublime grafomane del principe de Ligne, autore di numerose opere letterarie e soprattutto dei “Mélanges”, opera autobiografica in trentaquattro volumi, raccolta di una enorme massa di notizie sui personaggi più noti del secolo.Testimonianza degli incontri avuti da De Ligne con Voltaire, Rousseau, Caterina II di Russia, Federico il Grande, Luigi XV, Luigi XVI, Maria Antonietta, la Du Barry, Goethe, Casanova, Madame de Staël e infiniti altri che “scrissero” la storia politica, culturale e del costume del Settecento.

 

Armand-Louis de Gontaut de Biron e duca de Lauzun, autore delle memorie fatte sequestrare da Napoleone e “salvate” da Hortense, era nato nell’aprile 1747. Morta la madre nel darlo alla luce. Allevato nel boudoir di madame de Pompadour, di cui De Lauzun padre era uno dei cortigiani più in vista. Pur avendo avuto insegnanti improvvisati, Armand-Louis leggeva e scriveva continuamente fin dalla più tenera età. A dodici anni, con la compiacenza del re, entrava nel reggimento delle Guardie. L’occhio protettore del sovrano lo destinò a una esistenza fortunata. D’altra parte la zia di lui, la duchessa Choiseul, era la moglie del primo ministro. Secondo l’uso della nobiltà di rango si avvitò presto ai piaceri. Senza tuttavia rinunciare all’ascesa ai vertici della carriera militare. Partecipò fieramente alla guerra di indipendenza in America e, rientrato in patria, coinvoltosi nei mutamenti rivoluzionari, superfedele alla monarchia, perse la testa sotto la lama della ghigliottina. Con il conte e con il visconte di Ségur, con il duca di Brissac, il conte di Narbonne, il conte di Vaudreuil e il cavaliere di Boufflers, il duca di Lauzun faceva parte d’una brillante “compagnia” di libertini. Lunghe amicizie e conoscenze mondane. Insieme assaporavano la dolcezza della vita. Godevano di significativi incarichi nel reame. La troppa fortuna e il troppo piacere impose tuttavia loro un inaspettato contrappasso: pareggiare i conti facendoli vivere in un’epoca di grandi sconvolgimenti sociali. Travolti dalla rivoluzione. Quelli che scamparono al Terrore furono costretti a cercare nuovi registri esistenziali. Alcuni, adattandosi, si accomodarono all’empireo napoleonico. Uno, dopo una parentesi di silenzio, riaffiorò con la Restaurazione nella cerchia di Luigi XVIII.

 

Tutto questo universo di esistenze, intrichi, grovigli parentali, palesi e sotterranei, ottunde piacevolmente la mente quando s’abbia tra le mani un recente, bellissimo libro, di Benedetta Craveri, “Gli ultimi libertini” (ed. Adelphi, 620 pp., 27 euro). E’ la storia di sette personaggi d’alto lignaggio vissuti al tramonto dell’Ancien Régime, sotto i regni di Luigi XV e Luigi XVI, durante l’avvento dell’età dei Lumi e il profilarsi della Rivoluzione.

 


Jean-Honoré Fragonard, “Il bacio rubato”, 1778 (San Pietroburgo, Hermitage)


 

Tra altre occasioni d’amicizia questi “personaggi” erano tutti fratelli di loggia. Nell’attonita penombra, pochi istanti prima che tre colpi di maglietto sanciscano l’ammissione di un nuovo frére-maçon, grembiule bianco e grado di apprendista, primo gradino della scala di perfezione, avranno inteso anche loro le “raccomandazioni” che il maestro venerabile rivolge all’iniziato: “… Un massone non sarà mai un ateo stupido, né un libertino irreligioso…”. Certamente non irreligioso della vita propria. Il culto di se stesso. Libertino individualista, effratore teorico e scanzonato d’ogni costume, scapestrato, écornifleur, superficiale e farfallone, uno che sale e scende da ogni letto e per esclusivo piacer proprio passa sopra a ogni principio. Edonista. Fin alla sregolatezza di tutti i sensi. Ponendo, corpo e anima, fuori da quelli che solitamente s’usano definire i precetti del buon senso comune. E ancora: sprecone di fortune ereditate o lucrate, mariolo, campione di raggiri al tavolo verde, ovviamente cinico, teorico di doppie morali. E, per sé, un esclusivo diorama di verità. Rispettabilissimo in pubblico. Nel privato capace di apparecchiare pantomime sottilmente perverse come quelle del cavaliere di Valmont a cui, nelle “Liaisons dangereuses” di Choderlos de Laclos, la marquise de Merteuil impone, figuriamoci, di rispettare il “codice libertino”, semmai codice del genere sia mai esistito. Goder del piacere ovunque sia. Il rifiuto d’ogni convenzione sociale esibita con anche passabile aggressività. E per buon peso, proprio nel tempo dei libertini evocati da Benedetta Craveri, con l’intimo capriccio di trovarsi in gruppi esclusivi dove entre nous, anche amandosi e odiandosi a un tempo, si conferivano l’un l’altro onorificenze cavalleresche: l’Ordine della Malizia d’esempio. Ogni cavaliere recava una spilla ovale raffigurante in smalto una scimmia con la scritta “Io son fatta per imitarvi, quest’è il mio più nobile esercizio, così voi mi ricambiate perfettamente, assomigliandomi in malizia”, dando l’occasione a quel bell’esemplare di letterato da bricconeria erotica che fu Restif de la Bretonne di testimoniare come durante quei rendez-vous “ci si racconta vicendevolmente e con dovizia di particolari le avventure galanti e le incursioni nelle tornate di altri consimili convegni: quello dell’Ordre de la Félicité, l’Ordre de la Coulotte, l’Ordine ermafrodita o del Sublime segreto della felicità nel giardino dell’Eden”. Ve n’era per ogni gusto. Compresi gli aficionados della Pléiade, una associazione basata, veri o fittizi, sulla “recita dei ruoli”: il marito, la moglie, l’amante ufficiale, l’amante occasionale, il confidente: è un gioco in cui non si fa mistero di nulla, in cui le public partecipa con morbosa curiosità delle novità “sentimentali e dei combini di coppia”. Ovviamente bandita la goffaggine e la povertà di spirito. La religiosità esibita, soltanto ed esclusivamente quella dell’intelligenza.

 

“Gli ultimi libertini”, un abbagliante diorama con al centro, in dissolute pantomime, l’individuo indifferente ai sentimenti, pronto ad abbandonare le proprie “vittime” in un lago di disperazione e, come si suol dire, con il cuore infranto. Se femmine, a soccombere, magari incinte. Facendo apparire il frutto degli intrichi erotici risultato di convegni sessuali altrui. E in speciosità drammatiche, all’immolato “martire” causare la rovina sociale e finanziaria. Gigolò? Amante di professione? A modo suo un “eroe”: il libertino è antiautoritario, antitradizionalista. Conservatore e rivoluzionario. Quasi sempre giovane uomo, meglio se aristocratico, attraente e glamour, spensierato e spiritoso, affascinante e sessualmente irresistibile. E chi non vorrebbe, maschio o femmina, portarsi a letto un “argomento” del genere? Visto che l’umana sessualità appartiene a quel reticolo di desideri, confessabili e no, in cui si coniuga ogni vagolabile realtà e immaginazione? Fatti come siamo, composti di desideri irrefrenabili, occultati dietro “rispettabili” forme e maniere. Poi, per sognatori insulsi, il piacere di evocare le soi disant prodezze in narrazioni scanzonate, trucide e anche poetiche, cronache artistiche e leggendarie. Fin a “inventare” una specifica forma letteraria: quella comunemente e monumentalmente gloriosa definita erotica e libertina.

 

Fin qui la professione libertina sembrerebbe dover essere monopolio del maschio. Non è così. Il libertinaggio è sessualmente neutro. A guardar bene, affiorate da potins e trame letterarie, spuntano fieramente anche begli esempi di gagliarde.

 

I libertini, “irriducibili idealisti”. Ma erano proprio così? “Ciascuno di loro volle forgiarsi un destino a immagine e somiglianza dell’idea che si faceva di sé… Figli della cultura dei Lumi, dotati di una sorprendente energia, ebbero una fiducia illimitata nelle proprie capacità di spaziare dalla politica all’economia, dalla letteratura all’arte… curiosi di tutto, a loro agio ovunque si trovassero… frequentavano gli stessi ambienti…”. Vissero comunque in perfetta armonia con il loro mondo. Senza mai fare il broncio. Il che vuol forse dire contemplare il tutto da un privilegiato punto di vista.

 

I sette mattatori rievocati da Benedetta Craveri dovevano avere la vocazione a sopravvivere a loro stessi. Non soltanto il duca de Lauzun lascia traccia di sé in uno scartafaccio di ricordi. Un altro, in “Mémoires, souvenirs et anecdotes par m. le comte de Ségur” scrive: “Libertà, regalità, aristocrazia, democrazia, pregiudizi, ragione, novità, filosofia, tutto concorreva a rendere i nostri giorni felici e mai risveglio più terribile fu preceduto da un sonno più dolce e da sogni più seducenti”.

 

Lous-Philippe, conte de Segur era militare, ambasciatore di Francia in Russia, si intinse di politica, storico, memorialista, poeta e festaiolo goguettier, che sta a indicare un allegrone che partecipa con entusiasmo a riunioni di piccoli gruppi per passare il tempo cantando. Era figlio del ministro della Guerra di Luigi XVI. Con entusiasmo era partito come ufficiale alla rivoluzione americana: “La libertà per la quale mi batterò ispira grande entusiasmo, e mi auguro che il mio paese possa godere di quello che è compatibile con la nostra monarchia, la nostra posizione e la nostra morale”. Il conte de Segur attraversa la storia come non lo riguardasse, pur facendone parte: militare e diplomatico con Luigi XVI, ambasciatore straordinario al tempo della rivoluzione, consigliere di stato durante il Consolato, Gran Maestro delle cerimonie durante l’Impero, senatore alla prima Restaurazione. Fu nuovamente dalla parte di Napoleone durante i Cento giorni. Per finire sostenitore di Luigi Filippo, riottenendo il suo posto di senatore. Un campione di trasfigarazioni, perfetto schivatore di colpi e contraccolpi. Per tutta la vita supermassone. Con nella consorteria cariche di rilievo, tipo quella di Gran commendatore del Supremo consiglio della Gran loge de France.

 

La massoneria, dall’Inghilterra era sbarcata in Francia nel 1725, trovando immediatamente terreno fertilissimo. Sopravvisse all’ostilità del governo e della chiesa. Con l’elezione a Gran maestro del duca di Chartres, cugino del re, la massoneria divenne “governo”: nel corollario di vertice stavano una bella accolita di “libertini”, gente la cui presenza a Versailles era stravivace, ben conosciuta e influente nelle anticamere, nei letti, nei circoli di conversazione. La Gran Loge de France stava all’ombra del trono. E di quella verticistica loggia facevano parte, tra tanta altra “bella gente”, per ricordarne qualcuno, Gabriel-Bernabé-Louis d’Osmond, ciambellano del duca d’Orléans e compagno di bagordi del duca di Chartres, il futuro Philippe Egalité; il conte Louis-Antoine-Auguste de Rohan-Chabot e poi duca di Rohan; l’inossidabile Charles-Joseph Lamoral principe de Ligne… fedelissimi del duca d’Orleans che, percependo il vento del 1789, andarono sempre più politicizzando le tornate esoteriche. E progressivamente spostandosi dai giardini di Versailles al Palais-Royale, nel centro di Parigi.

 

All’interno del Palais-Royal il duca d’Orléans ha fatto costruire, intorno ai giardini, delle case d’affitto, con porticati che albergano negozi di ogni genere. ll regolamemo vieta l’ingresso soltanto ai soldati, ai servi in livrea e alle donne in cuffia e grembiule. La sera, questa eterogenea société dove si mischiano grandi signori e gazzettieri prezzolati, conferisce ai giardini l’aspetto di un foro. L’ombra dei grandi tigli cela il fermento degli appetiti e degli intrighi e, in particolare, gli uomini del duca d’Orléans, instancabili nel dire la parola giusta al momento giusto, contrapponendo alla volontà retriva della corte il liberalismo del loro padrone.

 

La massoneria, spogliatasi del suo carattere di segretezza, ammettendo donne, letterati ed eruditi, muta in fenomeno mondano. Il libertinaggio trova qui il suo naturale palcoscenico. E vi stanno giusto tutti, giocando con nuove teorie filosofiche senza forse accorgersi che erano sulla strada che li avrebbe portati alla loro infungibilità.

 

Ma chi sono questi “ultimi” libertini che vissero il tramonto della Francia monarchica, negli anni estremi, avanti la grande mutazione? Curioso esito di un’epoca. Quella in cui sembrava che le trasformazioni in senso positivo per i cittadini fossero avviate verso le riforme della giustizia, verso una maggiore equità che pareva essersi già curiosamente profilata con l’ascesa al trono di Luigi XVI. L’ eterna illusione di ogni nuova epoca. Prerogativa comune a tutti gli inizi. Non certezze. Soltanto speranze. Con il nuovo re, con Luigi XVI, ironia della sorte, tutto il passato appariva in procinto d’essere spazzato via. Ripulita l’aria. In quella Francia ricca di personaggi d’esprit, fluttuavano individualità “diverse”, “eccentriche”. Protagoniste di “avventure” politiche e sociali. Con il loro pensiero illuminavano il tempo. Erano compassati borghesi e uomini d’antico lignaggio. Fieri, coraggiosi, eleganti, colti. Emanavano inoltre uno charme nutrito dai loro particolari talenti. Erano maestri nell’arte della seduzione e i molti successi galanti riscossi con le donne del bel mondo non impedivano loro di praticare il libertinaggio nella sua accezione più alta. Tipi capaci, nel giro d’amicizie, di corteggiare le stesse donne. Coltivavano le medesime relazioni. Trescare in affari lucrativi. E ciò nei “salotti” preferiti. Le corti. Versailles.

 

Al fondo ciò che si percepisce è comunque l’ombra di un guizzo, quello del furbastro di “professione libertino”, che, al suo apparire nel beau theatre du monde, sembra vocato a far zampillare soltanto il piacere dell’intelletto. Un vizio della società. Di una certa classe. E’ la ricerca del piacere ovunque sia. Lo spontaneo scansare qualsiasi convenzione.

 

La sorte, per un imperscrutabile rollerball, ha voluto che un libro come “Gli ultimi libertini”, affollata narrazione di un “ciclo storico”, l’Ancien Régime, arrivato al suo drammatico capolinea, in simbolica similitudine, fosse scritto e pubblicato in un tempo di mutazione epocale come il nostro. Segnato da intrichi, efferatezze, contraddizioni, incomprensioni e perfidie. Affollato di “libertini” e supposti tali. Non sempre colti e raffinati come quelli che Benedetta Craveri evoca con gusto e sapienza. Nell’atto di risvegliare le pagine del suo libro, in un lampo di imageries, ci fa sorprendere gli antichi libertini e il loro mondo dentro a una sofisticata vue d’optique. Circonfusi da un’eleganza che assolve le loro turpitudini sideralmente lontane. E vien così di paragonarli a “certi” libertini dell’età nostra, mascherati da intellettualini elettronici. In realtà soltanto guitti che si esibiscono in rappresentazioni da albagiosi dilettanti. Non lasceranno libri di memorie. Nessuna eredità sbarazzina. Soltanto polvere. Per fortuna.

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