Le crociate dell'altro mondo
Vorrei riaffrontare la questione del confronto fra islam e cristianesimo, ovvero fra islam e occidente, che non è la stessa cosa ma, nell’occasione che mi muove, avvicina molto i due termini. L’occasione è la traduzione Einaudi di un’importante “storia islamica delle Crociate” di Paul M. Cobb, col titolo “La conquista del Paradiso” (in originale “The Race for Paradise”, cioè piuttosto la gara, la corsa al Paradiso). Cobb, nato nel 1967 ad Amherst, Massachusetts, è un medievista storico dell’islam. Il suo testo, uscito nel 2014, quando il sedicente Califfato inaugurava il suo macabro spettacolo, mi interessa soprattutto perché aiuta a sciogliere un equivoco. L’equivoco consiste nel ritenere, dichiaratamente o implicitamente, che le ragioni del passato diano credito alle ragioni del presente, e viceversa. Le Crociate hanno preso un valore così suggestivo che la disputa sui buoni e i cattivi di nove secoli fa pretende ancora di decidere dei buoni e i cattivi di oggi. Così, dopo una lunga storia apologetica delle Crociate come valorosa difesa della vera fede cristiana, soccorso ai confratelli sottomessi, e liberazione dei luoghi santi contro la superstizione e la ferocia musulmana, venne una revisione che le denunciò come un capitolo di fanatismo, intolleranza e avidità cristiana, e infine una storia che cercava un equilibrio fra le opposte fonti, cristiana e musulmana. Il dilemma era riassunto nella famosa formula di Steven Runciman, autore tra il 1951 e il 1954 di una influente “Storia delle Crociate” (Einaudi 1966): “Sia che si considerino come la più straordinaria e la più romantica delle avventure cristiane o come l’ultima delle invasioni barbariche…”. Lui inclinava per la seconda ipotesi. (Un pronipote di Runciman, David, insegna Scienze politiche a Cambridge ed è sotto la sua responsabilità che Giulio Regeni è andato a studiare al Cairo).
Il libro di Cobb trascura lodevolmente la numerazione convenzionale delle Crociate e bada piuttosto al movimento d’espansione cristiana nell’XI secolo, favorito dalle divisioni tra i poteri musulmani. “Gli osservatori musulmani medievali interpretarono le Crociate che venivano lanciate in Siria e Palestina non come un fenomeno radicalmente nuovo emerso dal mondo cristiano, ma come gli episodi recenti di una storia molto più lunga di aggressioni franche alla Casa dell’Islam… Da questa prospettiva, la prima di queste nuove e preoccupanti invasioni franche fu quella che costò la Sicilia al mondo islamico e aprì le cateratte per ulteriori conquiste franche in al-Andalus, nel Nordafrica e infine nel Vicino Oriente”. Per quest’ultimo, “le fonti islamiche medievali (come le cristiane, del resto) non si riferiscono mai a questi eventi come alle ’Crociate’; non esiste un termine simile in arabo classico, e l’espressione araba che indica oggi le Crociate (al-hurub al-salibiyya, ‘le guerre Crociate’) è un neologismo moderno”. Le spedizioni nel vicino oriente si inseriscono nel confronto tra “franchi” e musulmani nel Mediterraneo, finché il 1492 sanziona lo spostamento del centro geografico e civile nell’Europa occidentale. Per i musulmani i latino-cristiani erano dei barbari di frontiera, biondi e slavati, pigri e corpulenti. E femminei, anche, deboli di sole e lunatici.
Il centro della civiltà era in Arabia. “Non esiste motivo, scientifico o di altro tipo, per cui il Nord dovrebbe stare in cima a una mappa”. La mappa disegnata da al-Idrisi nel 1154 per Ruggero II è a tutta prima incomprensibile, semplicemente perché l’orientamento è capovolto rispetto a quello nord-sud con cui siamo abituati a guardare l’atlante. Il centro del mondo di al-Idrisi “non è Gerusalemme, come in molte mappe cristiane medievali, ma la Penisola araba e la città santa dei musulmani, la Mecca…”. A metà dell’XI secolo il dar al-islam, il mondo musulmano, è enormemente più vasto e più urbanizzato della cristianità latina. Le metropoli d’occidente, Roma, Milano, Colonia, toccavano appena i 30-40 mila abitanti mentre Bagdad “al suo apice nel tardo IX secolo, ospitava forse 800 mila persone”. Qualche osservatore franco, in difficoltà nei labirinti delle dispute teologiche e settarie successive alla morte del Profeta, immaginava che il califfo fosse una specie di papa, e qualche musulmano immaginava il papa come una specie di califfo. La disputa fra sunniti e sciiti era solo una, benché potente, delle divisioni islamiche, e lungo la dinastia fatimide (969-1171) anche il regime egiziano divenne sciita. Quanto a Gerusalemme e la Palestina, per i musulmani erano solo una parte dello spazio sacro di al-Sham, la Siria – una regione molto più estesa della Siria d’oggi, o piuttosto di ieri. “Dio ha diviso il mondo in dieci parti; ne ha messo nove decimi in Siria e il rimanente nel resto del mondo”. Nell’ultima battaglia dell’Apocalisse sarà Damasco il luogo migliore in cui trovarsi – o la Dabiq, a nord di Aleppo, cui l’Isis ha intitolato il suo rotocalco digitale.
Cobb avverte – con qualche ottimismo – di scrivere per “lettori del tutto ignari della storia dell’islam”. I quali, io per esempio, hanno nel frattempo orecchiato dalle cronache una quantità di nomi di luoghi e personaggi reincarnati, e sopra tutti il nome di jihad, confuso fra un sinonimo di terrore e una crociata alla rovescia. Se fosse per la prodezza, verrebbe da mettere a confronto i jihadi musulmani e i cavalieri cristiani: ma nella cavalleria entra una mutazione dell’immagine femminile foriera di un gran futuro. In qualche testo arabo si dice sprezzantemente che i cristiani non sono gelosi delle loro donne, e arrivano a lasciare che parlino con altri uomini. Può darsi che i poemi cavallereschi, in cui gelosia e tradimento tengono tanta parte, siano il tramite della vittoria dell’amore sulle altre fedeltà: per questo bisogna forse rileggere “L’allegoria dell’amore” di C. S. Lewis.
La lettura di Cobb mostra che lo scontro fra crociata e jihad è solo una parte della trama che variamente divide e unisce i due campi. Chi voglia evocare uno scontro di civiltà deve comunque rinunciare a vederlo fondato nel conflitto fra cristiani e musulmani tra XI e XV secolo. Là, sterminii, teste mozzate ed esposte, stupri, profanazioni, si trovano copiosamente ripartiti, così come le coalizioni ibride e i capovolgimenti di fronte. Cristiani sono di volta in volta nemici di musulmani o alleati contro altri musulmani, e di volta in volta fratelli, rivali o nemici di altri cristiani.
C’è un passo impressionante nelle Storie fiorentine di Niccolò Machiavelli. Non c’entra con le Crociate medievali della lista, riguarda il 1480: il massacro dei cristiani di Otranto da parte dei turchi ottomani del sultano Maometto II, guidati da Gedik Ahmet Pascià, “Giacometto”. I trucidati furono migliaia; 813 fra loro, che rifiutarono fino all’ultimo di rinnegarsi, sono stati infine canonizzati da Papa Francesco nel 2013. Ed ecco come ne scrive Machiavelli: “Maumetto gran Turco /…/ partito da Rodi, parte della sua armata sotto Iacometto bascià se ne venne verso la Velona; e o che quello vedesse la facilità della impresa, o che pure il signore gliele comandasse, nel costeggiare la Italia pose, in un tratto, quattro mila soldati in terra; e assaltata la città di Otranto, subito la prese e saccheggiò; e tutti gli abitatori di quella ammazzò. Di poi, con quelli modi gli occorsono migliori, e dentro in quella e nel porto si affortificò; e riduttovi buona cavalleria, il paese circunstante correva e predava. Veduto il Re questo assalto, e conosciuto di quanto principe ella fusse impresa, mandò per tutto nunzi a significarlo, e a domandare contro al comune nimico aiuti e con grande instanzia revocò il duca di Calavria e le sue genti che erano a Siena. Questo assalto, quanto egli perturbò il Duca e il resto di Italia, tanto rallegrò Firenze e Siena, parendo a questa di avere riavuta la sua libertà, e a quella di essere uscita di quelli pericoli che gli facieno temere di perderla…”. Dunque la strage musulmana di Otranto cristiana fu una iattura per il duca di Calabria e il re di Napoli e il Papa e i loro sodali, e fu una provvidenza per Siena e Firenze. Non una parola di devozione pietosa viene sprecata da Machiavelli, che non era ipocrita.
Condensando secoli tumultuosi nelle sue trecento e passa pagine, Cobb regala ai lettori anche episodi romanzeschi e favolosi, e per un altro verso rischia la congestione di nomi e fatti. Ma il racconto è capace di giustificare le conclusioni. Che “non ci fu una unica esperienza musulmana condivisa delle Crociate”, e “una controcrociata coordinata / in nome del jihad / restò più che altro un ideale da invocare /…/. Narrazioni strappalacrime di vittimismo – non meno delle eroiche narrazioni di trionfo – non rendono giustizia degli incontri descritti in questo libro. Le Crociate, da qualsiasi prospettiva le si guardi, non possono gettare luce sulle lotte moderne, e le loro motivazioni non possono essere legittimamente richiamate come sfondo o ispirazione di conflitti contemporanei. I musulmani e i cristiani del Medioevo andarono alla guerra per le proprie ragioni, non per le nostre”.
Cobb avverte dell’inutilità di sostituire una narrazione unilaterale all’altra, e anche una storia a venire che intrecci le due prospettive e ne cavi una comprensione più equilibrata “sarebbe solo il primo passo”. Viene da osservare che le cose sono andate troppo oltre, facendo retrocedere terribilmente quell’equilibrio. Sono “le nostre ragioni” a confiscare accanitamente jihadi e cavalieri medievali. Una storia bigotta di quel lungo periodo è infondata sul piano dei fatti e dei documenti, da una parte e dall’altra. Ma soprattutto infondato è il presupposto che le ragioni di quella storia passata, quand’anche stessero tutte o soprattutto da una parte, servano ad accreditare le ragioni di oggi. E’ facile cadere in questa tentazione polemica; l’ha fatto ad oltranza, anche con le Crociate, Oriana Fallaci. Ma è solo un espediente polemico, e un malinteso morale. Non soltanto perché ogni cosiddetto retaggio della storia deve avere una sua prescrizione, e troppe pietre antiche vogliono ancora schiacciare esseri umani vivi, come tragicamente in Israele e in Palestina. Ma soprattutto perché nella storia, benché nessuno possa più scommettere un centesimo sul Progresso, esistono dei progressi, e delle renitenze e delle retrocessioni. Il relativismo, che è la chiave di volta dei progressi, spinto all’estremo ne è la tomba. Il delitto d’onore, in Italia, l’abbiamo tolto dalla consacrazione del codice solo nel 1981, ma l’abbiamo tolto. Abbiamo decapitato sovrani e sudditi, ed esposto le teste sulle picche fino all’altroieri: ma abbiamo smesso. La ghigliottina ha funzionato in pubblico fino al 1939, in privato fino al 1977, poi è diventata un monumento. Abbiamo fatto guerra in nome di Dio, e l’abbiamo ripudiata.
C’è un bellissimo passo di Amos Funkenstein, 1984: “Nuova nel XVII secolo era la comprensione critica-contestuale della storia. I fatti storici non erano più visti come auto-evidenti, simplex narratio gestarum. Piuttosto essi prendono significanza solo dal contesto in cui sono immersi – un contesto che lo storico deve ricostruire”. Decisiva a questo riguardo era stata nelle discussioni ebraiche e cristiane attorno alla provvidenza divina l’adozione del principio di adattamento: “l’assunto che la rivelazione e altre istituzioni divine si adattavano alla capacità di ricezione e di percezione degli umani in tempi diversi”.
Abbiamo inventato e faticosamente coltivato il contesto. Il contesto può diventare l’alibi dei farabutti, ma è la condizione del progresso. In una gran parte dell’islam, degli islam, il contesto non ha fatto la sua comparsa, e la storia è soppiantata da una ripetizione senza fine: una filosofia senza filologia. La legge è una ripetizione letterale e impassibile. Un assolutismo teologico tradotto in assolutismo mentale e in azzeramento. La guerra che l’islamismo muove alla modernità è una guerra contro il contesto. Non è vero che gli islamisti odiano l’occidente perché tradisce nella pratica i principii che proclama. Vedo con qualche meraviglia che anche Franco Cardini, che pure la sa lunga, pensa così. Ma gli islamisti odiano l’occidente per i principii che proclama e per il modo sia pur tortuoso in cui li mette in atto. Per il vento nei capelli delle ragazze.
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