Rap mediorientale
Qualcosa di interessante al festival newyorkese di Tribeca lo si trova sempre. Anche quest’anno. Due film narrativi (“Junction 48” e “Appena apro gli occhi”) si occupano della musica e del canto fra gli arabi di Israele e in Tunisia, con finale amaro in entrambi i paesi ma in contesti piuttosto diversi. Due documentari parlano della satira sotto il fratello musulmano Morsi e il generale al Sisi in Egitto e della “comicità di sopravvivenza” nella cultura ebraica dopo la Shoah. Il presidente egiziano Anwar el Sadat (1970-81) secondo il giornalista Mike Wallace, alla domanda “Lei è antisemita? risponde: “Io, antisemita? Ma io sono semita! Gli ebrei sono miei cugini”. La fine che fecero fare a Sadat dopo che aveva fatto pace con i cugini è nota.
“Junction 48” (premio per il miglior film narrativo a Tribeca e premio del pubblico alla Berlinale) è ispirato alla vita del rapper palestinese Tamer Nafar, frontman del gruppo DAM. Racconta le avventure di Kareem e della sua ragazza Manar. La colonna sonora hip-hop accompagna la storia, ambientata nel quartiere arabo di Lyd (Lod per gli israeliani), una cittadina mista vicino all’aeroporto di Tel Aviv. Kareem è un giovane perditempo, con pochi lavori saltuari, per la disperazione dei genitori musicisti. All’improvviso un incidente lo priva del padre e costringe la madre su una carrozzella. Kareem decide di dare una svolta positiva alla sua vita e si dedica seriamente alle prove con la sua band hip-hop. Scrive canzoni ispirate alla dura vita dei giovani in un quartiere crivellato dalla criminalità, con tanti spostati, disoccupati, piccoli spacciatori, e con poche prospettive per il futuro. Kareem dice in un rap: “Non faccio politica”, ma i testi dicono la frustrazione di giovani palestinesi che si sentono in trappola. Il gruppo è invitato a suonare in un club di Tel Aviv, ma a metà canzone è aggredito da violenti rapper israeliani ipernazionalisti. Tornati a Lyd, Kareem e i suoi organizzano un concerto. Manar, la fidanzata, è cantante anche lei, ma la famiglia le vieta tassativamente di esibirsi; Manar fugge da casa, trova sigillata la sala, annullato il concerto e Kareem disperso, improvvisa una jam session per strada con i musicisti rimasti senza palcoscenico. Arriva la polizia. Manar é arrestata e rilasciata poco dopo, senza conseguenze. Nel frattempo si racconta di un pastore di capre, padre di un amico di Kareem, la cui casa è minacciata di demolizione dagli israeliani, per costruirci un “Centro per la pacifica convivenza”, ironia sottile come una martellata sui testicoli. Il pastore spiega che la sua famiglia era fuggita all’arrivo degli israeliani nel 1948, ma poi lui era tornato per badare alle capre. Non si era più mosso dalla proprietà da allora; nonostante vivesse lì da sessant’anni, per Israele era rimasta una proprietà abbandonata, dunque poteva essere rasa al suolo.
Udi Aloni, regista di “Junction 48”, è un artista e attivista per i diritti dei palestinesi. Promuove la creazione di uno stato unico bi-nazionale in Israele. Aloni usa per l’attuale governo israeliano parole come “fascista”, “pulizia etnica” e “apartheid”, tanto per capirci. Non sorprende, dunque, se in “Junction 48”, i personaggi israeliani sono caricature negative. All’inizio i rapper israeliani sono entusiasti della musica di Kareem e dei testi di Manar; ma poi s’incazzano gli skinhead israeliani e il volemose bene degrada in bagarre. I poliziotti israeliani sono, guarda un po’, razzisti mentre i personaggi palestinesi sono sostanzialmente pacifici, compassionevoli, tolleranti. Un critico americano ha scritto del film: “Qualunque sia la tua posizione politica, i personaggi stereotipati di questo film devono fare molta strada per arrivare a non essere unidimensionali”.
Il regista è un israeliano-americano che ha fatto il film con l’aiuto di autorevoli insider, tra i produttori c’è James Schamus (“Brokeback Mountain”, “Indignation”, “Suffragette” “Ragione e sentimento”). E’ una co-produzione finanziata anche dall’Israel Film Fund (sic). A favore del film ci sono buone vibrazioni tra i palestinesi, toni comici, la bravura hip-hop di Tamer Nafar e un tema politico intramontabile. Verso la fine, il gruppo di Kareem riesce a programmare un altro concerto, e Manar, nonostante l’opposizione ferma della madre, esce per andare a cantare. Ma parenti maschi della ragazza aggrediscono Kareem, minacciando di “fare del male” a Manar se lui le permette di esibirsi, un disonore per la famiglia. E’ tristemente noto in Italia che quando una famiglia musulmana si sente offesa da una figlia troppo libera, “fare del male” non significa uno schiaffo ma la pena capitale, com’è successa alla giovane Hina Saleem di Brescia, uccisa e sepolta in giardino da padre e fratelli perché amava un ragazzo italiano e la minigonna. Va da sé che Kareem vieta a Manar di cantare. L’onore della famiglia islamica è suggellato dal silenzio.
Ancora musica e società nell’altra storia, “Appena apro gli occhi”, debutto della regista tunisina Leyla Bouzid, che ha vinto premi ai festival di Venezia, Dubai e Cartagine. La protagonista è Farah (Baya Medhaffer, una scoperta); il film segue l’evoluzione emotiva e politica di una giovane ribelle. La diciottenne ha appena preso la licenza liceale con ottimi voti, e la madre si aspetta da lei un futuro da medico. Farah è appassionata di canto, però, e ama Borhene, musicista nella loro nuova band di musica indie. E’ il 2010; la Tunisia è alla vigilia della rivoluzione dei gelsomini, innesco della “primavera araba”, e ancora sotto il regime dittatoriale di Ben Ali. La band si sta preparando a debuttare. Farah è affascinante, con un viso paffuto da bambola un po’ imbronciata, occhioni profondi, un’aureola di ricci, e un carattere forte. Farah e Borhene fanno heavy petting in privato e in pubblico stentano a nascondere la passione reciproca. Farah beve birra senza complessi in un locale frequentato da soli uomini.
Se già le aspirazioni artistiche di Farah creano tensione in famiglia, il casino è totale dopo che la madre, Hayet, riceve un suo ex fidanzato impiegato al ministero dell’Interno. Hayet diffida dell’untuoso ex, che le racconta i comportamenti irrituali della figlia, avvisandola di possibili conseguenze punitive, tanto più che un delatore ha riferito il contenuto politico delle canzoni.
Hayet, preoccupata per la reputazione e l’incolumità della figlia, le proibisce di cantare al concerto di debutto; ma Farah chiude in casa la madre ed esce lo stesso. E’ magistrale la scena decisiva tra madre e figlia, in cui Farah scopre che anche sua madre era uno spirito libero da giovane, ma la vita le ha insegnato che ribellarsi senza una vera speranza di riscatto non è sempre la strada più saggia. Farah, infatti, è arrestata dalla polizia di Ben Ali, sottoposta a un interrogatorio incalzante, brutale e con molestie invasive da due sbirri. All’araba israeliana Manar era andata meglio, con il suo arresto senza conseguenze, malgrado il film fosse radicalmente anti-israeliano e sia stato premiato a Tribeca per correttismo politico.
Baya Medhaffer, a destra, protagonista di “Appena apro gli occhi”
E veniamo alla risata pericolosa nei due documentari, uno ambientato in Egitto e l’altro a New York. Il primo è “Tickling Giants” (Solleticare i giganti): è il racconto dell’ascesa e caduta di un comico egiziano e del suo programma “Al Bernameg” (“The Show”). Bassem Youssef era un chirurgo cardiaco che durante la primavera araba del 2011 aveva abbandonato il camice bianco per fare il comico a tempo pieno, con un programma satirico televisivo sulla falsariga del “Daily Show with Jon Stewart”, un classico della satira televisiva americana. Il suo “The Show” diventa la serie tv più popolare del medio oriente, con trenta milioni di spettatori a puntata. Per sostenerlo arriva Jon Stewart in persona, felice della provvisoria svolta “democratica” egiziana. Dopo l’elezione a presidente di Mohamed Morsi, Fratellanza musulmana, Youssef è incriminato per reati d’opinione, arrestato, interrogato e poi rilasciato. Destituito Morsi dal generale al Sisi, nel 2014, la musica cambia in peggio per i critici del governo, specie se mediatici. Come dimostra il disperante caso di Giulio Regeni, con i generali egiziani non si scherza. Le pressioni del regime erano tali che il programma satirico fu chiuso dal canale che lo ospitava. Temendo punizioni più severe, il chirurgo-comico ha pensato bene di fuggire all’estero con la famiglia. Oggi vive e lavora negli Stati Uniti.
“Tickling Giants” è prodotto da Jon Stewart e la regia è di Sara Taksler, senior producer del “Daily Show”, ora condotto dal comico Trevor Noah. Il documentario è composto di pezzi di repertorio dello show satirico messo fuorilegge e da interviste con Youssef e Stewart; il resto è stato girato in segreto in Egitto, facendo riprese da un’automobile in movimento. Troupe e regista sono andati in Egitto fingendo di essere turisti, e hanno evitato accuratamente di scrivere del documentario sui social media. Il filmato è stato portato di nascosto all’estero, e l’opera completata (finanziata dal crowd-funding via web) è arrivata in prima mondiale a Tribeca. Fare satira politica nella maggioranza dei paesi musulmani significa mettere a rischio libertà e incolumità personali, e a volte la vita stessa, e sembra indifferente che i regimi siano islamisti o laici. Per non parlare della strage per blasfemia dei vignettisti di Charlie Hebdo. In “Junction 48”, prodotto con i soldi dei contribuenti israeliani, in un paese boicottato per abuso dei diritti civili da università occidentali, puoi dire del sistema tutto il male che credi.
Nel secondo documentario, “The Last Laugh” (L’ultima risata) di Ferne Pearlstein , il soggetto è quella satira politica che definire “delicata” è un eufemismo. E’ legittimo, accettabile, opportuno, sfottere l’Olocausto? La regista interroga diversi grandi comici, tra cui Louis C.K., Chris Rock, Gilbert Gottfried, Harry Shearer, Sarah Silverman, Rob Reiner e il suo leggendario padre, Carl Reiner, con il suo ex socio in risate, Mel Brooks. Come sapete, “The Producers”, tra i film migliori di Brooks, racconta di un produttore teatrale che vende più del cento per cento delle quote di un film a investitori sprovveduti in uno spettacolo che pensa sia di sicuro insuccesso, “Springtime for Hitler” (“E’ primavera per Hitler”). Famoso versetto: “Don’t be stupid, be a smarty, come and join the Nazi party!” (Non essere stupido, fatti furbo, vieni e iscriviti al partito nazista!). All’uscita, nel 1968, il film fu uno scandaloso successo, tanta gente boicottava il film giudicandolo una blasfemia. Oggi mettere in burla il grottesco superomismo nazista è una pratica sdoganata, e anche il musical di Brooks, del 1991, ha avuto un lungo successo a New York e a Londra. Brooks, che ha 89 anni, non riesce a fare battute sulla Shoah ma pensa che potrebbe essere un limite della sua epoca, contemporanea con il genocidio degli ebrei. “Le tragedie, più il tempo, fanno la comicità”. “Non gliene frega nulla a nessuno se fai battute sull’Inquisizione”, dice Brooks. Settant’anni dopo la soluzione finale, le cose sono cambiate, almeno un poco.
Nel film parlano alcuni ebrei, riuniti a Las Vegas per una convention di sopravvissuti ai campi di sterminio (e già questo sembra la premessa per un film di Sacha Baron Cohen o un racconto di Philip Roth). La domanda ad anziani con un numero tatuato sul braccio è sulfurea: “Vi ricordate qualcosa di buffo dei campi?” Alcuni si offendono; ma i simpaticissimi novantenni Renée Firestone e Robert Clary, attore comico, reduci anche loro, la pensano diversamente. Entrambi hanno perso schiere di famigliari nei campi, eppure dicono che ridere è stato uno dei modi per resistere ai tormenti subiti. Clary distraeva gli altri detenuti con battute spiritose, e nel 1965 è stato criticato da alcuni ebrei per aver partecipato a “Hogan’s Heroes”, una celebre sitcom che sfotteva le guardie tedesche di un campo di prigionia militare, senza mai accennare all’Olocausto. La spumeggiante Firestone racconta di una visita medica con Josef Mengele, che le dice una frase che sembra scritta dai fratelli Marx: “Se sopravvive, dopo la guerra dovrà farsi togliere le tonsille”. Interrogato su “La vita è bella” di Roberto Benigni, Brooks esplode: “E’ il peggior film della storia!”. Subito dopo il vecchio ipocomico Abe Foxman, già capo di una nota organizzazione ebraica, controbilancia: “E’ un film geniale!”. Alla domanda sulla legittimità di sbeffeggiare la Shoah, per noi il sì decisivo arriva grazie a una formidabile comica americana, Amy Schumer (“Un disastro di ragazza”): “Mi sono sempre chiesta se, dopo essermi spogliata nuda per entrare nelle docce del lager, mi sarei tenuta in dentro la pancia”.
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