La controrivoluzione
Quella notte il padre entrò nella scuola occupata per portare caffè caldo, alcune coperte trovate in un armadio della casa al mare ma soprattutto il sostegno morale ai suoi ragazzi (da qualche anno, ormai, li sentiva tutti suoi: una comunità di liceali per cui lui si impegna seriamente, da rappresentate d’istituto e uomo consapevole e attento ai rischi educativi, uno su cui gli studenti possono contare). Entrò a scuola in un modo segreto e un po’ eroico, superò la nuvola di fumo, le bottiglie vuote di birra, salì al primo piano con un sorriso magnetico e complice, pronto ad alzare le dita in segno di vittoria: sua figlia, che divideva il sacco a pelo con un’amica, lo vide ed ebbe una crisi isterica. “Vattenee”, urlava facendo gesti con le mani, l’amica cercava di calmarla, e lui pensò che aveva bevuto ed era molto eccitata per l’occupazione, nessun problema, i ragazzi vanno prima di tutto compresi, in compenso gli altri erano felici di ricevere il caffè e le coperte e quel senso di vicinanza e di trionfo. Pensò di accettare una birra, che c’è di male, il giorno dopo avrebbe scritto una mail agli insegnanti per rassicurarli sullo stato della scuola (c’era perfino un bell’albero di Natale, fatto con l’aiuto di altri genitori), ma la figlia singhiozzava: decise così di tornare a casa, in fondo erano già le due di notte. “Hasta la victoria, siempre”, e di nuovo giù per le scale, radioso e fiero di quei ragazzi coraggiosi, che facevano sentire la propria voce, che non si arrendevano. Come sempre c’erano un po’ di genitori contrari, antichi, un po’ ottusi, convinti che l’occupazione fosse una perdita di tempo e una prova alcolica esagerata, non riuscivano a vederne la ricchezza, l’importanza, ma lui che ha cresciuto quattro figli, due maschi e due femmine, insieme a una moglie affettuosa e gentile, ultimamente solo un po’ nervosa, ha lo sguardo alto, il respiro lungo. Infatti quando quella madre carina, un po’ sprovveduta, una di quelle preoccupate per le canne in cortile e i bulli, gli si è avvicinata scambiandolo per il preside e gli ha detto: vorrei candidarmi per il consiglio d’istituto, lui l’ha guardata dalle profondità dei suoi occhi azzurri e le ha detto: “Lei non può venire qua dal nulla, con quel sorrisetto, a dire mi candido, ci sono discorsi, liste, principi”. La scuola partecipata è una cosa importante, ci vuole dedizione, non è che una arriva dal nulla, magari moglie di un commercialista, magari la sua segretaria, e si prende la scuola e i miei ragazzi, e mi ruba gli slogan magari, e le domande migliori, e la battaglia per la gita a Marrakech. Il padre quella notte andò a dormire con il pensiero della signora che lo fissava stupita: domani alla riunione le offro un caffettino per spiegarle meglio le mie idee e l’importanza della scuola come riserva indiana contro le brutture del mondo fuori. “Sei andato di nuovo a scuola?”, lo svegliò di soprassalto la moglie. “Sì, i ragazzi avevano bisogno di me”. “C’era Arianna? Ti ha visto? Come stava? Lo sai che ha ricominciato a strapparsi tutti i bottoni dalle camicette?”. “C’era, ha detto: manda un bacio a mamma, siete forti, scialla”.
Il genitore complice l’ho intravisto e desiderato intensamente, durante tutta la mia giovinezza scolastica, ma viveva sempre in altre case, occupava altre cucine, altri divani, a volte bagni con le librerie al posto della doccia, caricava la macchina di ragazzini anche d’estate, vacanze in Corsica in tenda, un sogno. Lo ritrovo adesso nelle chat di classe, nei genitori che, quando il figlio arriva a casa con una nota sul diario scritta dall’insegnante, rispondono con una contro nota in cui spiegano che “secondo l’autovalutazione” del figlio le cose non sono andate così, lo vedo venirmi incontro davanti a scuola e chiedermi di spostare il pigiama party di mia figlia in un giorno più adatto alla comunità, e lo ritrovo, ma più agguerrito, più speranzoso e deciso a fare della giovinezza altrui la propria, nei genitori che protestano contro la preside e i carabinieri al liceo Virgilio di Roma: sono arrivati in un attimo, chiamati dalle chat dei figli, sono arrivati per difenderli, per protestare contro l’arresto di uno studente di diciannove anni che, dopo essere già stato arrestato una volta, aveva venduto un pezzetto di fumo a un ragazzo di quattordici nel cortile della scuola – dieci euro, e alcuni genitori in una riunione successiva hanno precisato che si trattava comunque di un prezzo generoso e di uno “scambio di cortesia”, e che certo lo sappiamo tutti che le canne è meglio andarsele a fare a Villa Pamphili, “però finché non gli trovi in camera un bilancino puoi stare sereno, te lo dico per esperienza, vuol dire che non spaccia”, e comunque “la prossima settimana vedo la ministra Giannini per altre cose e gliene parlo”. Lo studente ha avuto gli arresti domiciliari, poi la sospensione della pena e tre mesi di servizi sociali, ha cambiato scuola, ha scritto un lungo e per niente sciocco post su Facebook in cui si firma con ironia “uno spacciatore”, e naturalmente viene da stare dalla parte della giovinezza impertinente, ma il padre ha detto che dobbiamo interrogarci tutti sul fallimento del percorso educativo e sul disagio esistenziale degli studenti, e ha citato i danni collaterali di Zygmunt Bauman e ha detto che quell’episodio è stato esclusivamente un epifenomeno, anche se rivelatore.
Non succede solo al Virgilio, ma al Virgilio si nota di più, per una concentrazione di genitori riconoscibili e protagonisti, che stanno dentro la scuola dei figli come si sta su un palcoscenico, con il pubblico degli altri genitori (ma anche degli studenti) che dovrebbe limitarsi ad applaudire, e il preside, da sempre, da decenni, nella parte immobile del nemico, o almeno di una persona del tutto inadeuguata al ruolo, il rappresentante di una “torsione autoritaria”, ha scritto una madre in una mailing list di genitori. La preside del Virgilio ha detto in un’intervista al Corriere della Sera che i genitori aizzano i figli e pretendono di intervenire su tutto, che si sostituiscono alla scuola, “magari per fare politica o per farsi vedere”. Fare politica fa parte delle aspirazioni di qualcuno, magari, ma farsi vedere significa moltissime cose: ricordare le barricate, soprattutto se non si sono fatte quando era il momento per motivi anagrafici, sentirsi ancora giovani, diventarlo di nuovo, ma anche essere amati e approvati dai figli, e inglobarli e farsi inglobare nella loro vita. Arrivare, con qualche acrobazia psicologica e ideologica, a far coincidere le vite di padri, madri e figli, anche nelle possibilità, nelle serate insieme, nell’esibizione davanti al mondo: mio figlio mi adora. Inglobarli significa anche divorarli, scrivono nei libri gli psicanalisti. A volte invece significa farsi divorare, per non litigare, per rimanere amici, per sentirsi utili, come la madre che dorme nella stanza del figlio unico diciassettenne, “gli lascio il lettone il sabato sera con la sua ragazza, così stanno più comodi e non litigano”. E tuo marito dove dorme? Nell’ingresso, a lui piace così la mattina esce prima di tutti e almeno non mi sveglia: va a comprare i cornetti e i giornali.
Molte cose sono cambiate: quasi vent’anni fa, il film di Gabriele Muccino “Come te nessuno mai” raccontava del sedicenne innamorato che scappa di casa con il sacco a pelo e corre a piedi a occupare la scuola (dove arriverà anche la polizia e gli studenti lanceranno le uova), ribellandosi ai genitori che minacciano di cambiargli liceo o almeno, dopo, di portarlo dallo psicanalista. Faceva parte delle cose della vita: mio padre non vuole che io dorma a scuola, io scappo e ci vado lo stesso, resto a dormire, torno due giorni dopo felice e sconvolta e con gli occhi che quasi escono dalla testa, spalancati sul mondo, sulle notti insonni, sulla vita adulta che inizia, faccio la doccia, mi addormento su una sedia, aspetto la punizione, me ne frego, mi chiudo di nuovo in camera, scappo ancora, divento grande. Andava bene così per Freud, emanciparsi dall’autorità dei genitori, non sembrava esserci un altro modo del resto (“il progresso della società si basa su questa opposizione tra generazioni successive”), e invece adesso i genitori che scrivono mail piene di punti esclamativi: “L’occupazione si farà, non ci fermeranno”, e anche: “Non lasciamoci stritolare dai tentativi di normalizzazione”. I genitori preparano i panini, l’insalata di pasta, infilano negli zaini gli spazzolini da denti, il dentifricio, i caricabatterie del telefono e le bustine di zucchero per cali di pressione (anche i cuscini gonfiabili), si indignano se ai figli viene tolta l’aula autogestita, quella delle canne, e sono convinti della necessità di aprire il bar scolastico un po’ prima, per dare modo a tutti di fare colazione con calma, come è stato anche chiesto al sottosegretario all’Istruzione in un incontro che ha avuto per tema non solo l’occupazione e le proteste contro le riforme, ma anche le brioches al cioccolato. Mettono molti like su Facebook alle foto dei figli e ai post contro la “torsione autoritaria”, fino a che i figli si cancellano da Facebook (“è da vecchi, e ci sta mio padre che non si tiene più”). I ragazzi stanno bene, ma a volte lanciano occhiatacce ai genitori: “A ma’, anche un po’ meno simpatica, va bene?”, perché la madre si prende un po’ troppo la scena quando in cucina parla di rivoluzione e di quando lei si faceva arrestare alle manifestazioni mezza nuda (a quel punto di solito il fidanzato di Stella diventa rosso in faccia) e offre tutto il suo appoggio e si entusiasma per quella scritta sul muro: “Il Virgilio non si arresta”, e d’estate in Grecia una sera guidava cantando Battisti a squarciagola, “e guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere”, ma Stella, dal sedile dietro, mentre le amiche si scattavano i selfie da mettere su Instagram, le ha detto: “A ma’, la traggedia però no, va’ più piano dai, che hai pure bevuto troppo”.
La spettacolarizzazione dell’essere genitori comporta anche questo: abbracciare idealmente, e anche concretamente, per comunicare il nostro status di genitori moderni, tutte le cose e anche gli sbagli che spettano solo ai figli, che toccherebbero a loro, che noi dovremmo osservare con un po’ di distanza, invece di riempire tutte le zone di silenzio con il nostro rumoroso sostegno. E’ il loro spettacolo, non il nostro, quindi è anche il loro palcoscenico: dovremmo piacere ai nostri figli (e ai loro amici), ma tuttavia non piacergli troppo. Essergli simpatici, ma non troppo simpatici. Soccorrerli, ma non soccorrerli troppo. Così al liceo Virgilio, e in tutti i licei della provincia più minuscola, o della periferia più complicata, dove arrivano le poliziotte con i cani a perquisire le ragazze nel bagno, il padre protagonista non sa rassegnarsi all’idea di essere diventato, ormai, una comparsa: un genitore, nonostante tutte le grandiose intenzioni. Uno a cui viene chiesto di fermare la moto a cento metri dalla scuola, perché i compagni non vedano Rocco arrivare con il padre, uno a cui i compagni di classe danno del lei, uno a cui la figlia urla: “Vattene, lasciami vivere”, ora che finalmente ha una migliore amica a cui suo padre sembra “troppo vecchio per quelle scarpe che porta, non dirmi che va pure a ballare”. No, però l’estate scorsa alle Eolie ha recitato una poesia in piedi sopra un tavolo, poi è svenuto sui piatti sporchi, ma quella bella vomitata l’ha rimesso in forma. Per quanto crediamo di stare dalla loro parte, di combattere i loro stessi nemici, per quanto ci sforziamo anche di ascoltare la musica che piace a loro, di essere avventurosi e complici e illuminati e interessanti e brillanti, per quante birre berremo con loro, il destino è per fortuna sempre lo stesso: i nostri figli rideranno di noi.
Il Foglio sportivo - in corpore sano