Chiese turche
La chiesa di Surp Giragos, San Ciriaco, è il più grande edificio di culto armeno nella Turchia asiatica e uno dei più grandi in tutto il vicino oriente. Chiusa negli anni Sessanta ufficialmente per “mancanza di fedeli”, era stata restaurata e riaperta cinque anni fa. Un gesto riconciliatore di Recep Tayyip Erdogan, si diceva, quando ancora l’allora premier turco pareva essere serio e rispettabile interlocutore dell’occidente nonché argine ultimo al caos che tormentava e lacerava i paesi limitrofi. Merito di Ahmet Davutoglu, notavano altri, segnalando come la saggezza di quest’austero professore universitario fino a due giorni fa primo ministro, avesse portato a una distensione con la comunità armena, ammiccando agli europei ancora risolutamente contrari all’ingresso di Ankara nella comunità di Bruxelles. Cinque anni dopo, le cronache raccontano di un filo che s’è di nuovo interrotto. Surp Giragos è stata infatti requisita (e chiusa) dalle autorità locali, assieme ad altre cinque chiese della zona. Diversi terreni sono stati espropriati. Il motivo, ha spiegato il governo, è legato a “ragioni di sicurezza”. Lì, a Diyarbakir, territorio curdo, a centocinquata chilometri dal confine siriano, si combatte. Ankara contro il Pkk e viceversa. Niente paura, avvertono dal governo: tutto tornerà com’era prima, bisogna solo aspettare che le “operazioni” sul terreno si concludano e che la quiete spenga gli ardori bellici. Un calendario per le restituzioni, però, non esiste. E poi i piani di sviluppo sono tali da accrescere la differenza anche tra coloro che già sospettano delle reali intenzioni di Erdogan: “Trasformeremo Sur (il cuore antico di Diyarbakir, ndr) in una meta turistica ambita. Tutti verranno qui ad apprezzarne le architetture”, ha detto Davutoglu, convinto che la città diverrà la “nuova Toledo”. C’è un video che spiega la grandeur presidenziale – che più che a Toledo rimanda alla ben più profana Las Vegas – anche se a parlare è il premier: “Diyarbakir è una città sacra che è stata rovinata. Voglio che abbia un futuro radioso, ricostruirò le moschee in modo che il suono del Corano possa sentirsi di nuovo. Rinnoverò tutto, nuove strade, nuove case, nuovi centri ricreativi. I bambini saranno di nuovo felici di giocare e ridere. Costruirò grandi spazi che consentiranno alle persone di vivere in modo felice e libero”. Sarà.
Alcune macerie di Diyarbakir dopo gli scontri tra i militanti curdi e la polizia (foto LaPresse)
Padre Yusuf Akbulut, prete siro-ortodosso della chiesa di Maria Vergine (anche quest’edificio rientra nelle seimilatrecento proprietà per le quali il governo ha in progetto un maquillage urbanistico), nota che nelle parole del primo ministro si parla di tutto, perfino dei giardinetti, meno che delle chiese. Anche perché la dichiarazione ufficiale che dovrebbe rassicurare i più preoccupati, in realtà rimanda un’eco sinistra: “Costruiremo le case nel grande, vecchio stile ottomano”, garantisce Davutoglu, così l’antica cittadella sarà più appetibile per gli stranieri incantati da tutto ciò che rimanda alle Mille e una notte, al Serraglio e all’atmosfera orientaleggiante d’Istanbul. “Vogliono distruggere le case di quanti sono sopravvissuti alla morte e ai massacri in quei luoghi”, ha detto – meno propensa a farsi trascinare dalla nostalgia – Figen Yüksekdag, co-presidente del Partito democratico del popolo, rappresentante la minoranza curda in Turchia e convinta che il trattamento toccato agli armeni un secolo fa ora lo si voglia riproporre sui curdi. Dai palazzi del potere di Ankara fanno sapere che si tratta delle solite esagerazioni, visto che l’intento è solo uno: proteggere le chiese dalle bombe e dai razzi che cadono sulla città. Di più, sottolineano gli organi competenti: anche le moschee della zona hanno subìto la stessa sorte. Il problema, che né l’ex premier Davutoglu né qualche altro funzionario dell’esecutivo ricordano, è che le moschee sono già di proprietà statale.
Gli armeni però non pensano alle comitive di ricchi occidentali accaldati in calzini bianchi e braccia arrossate dal sole cocente, ma solo alla constatazione che Sur Giragos è stata chiusa. “Per noi non è solo un luogo di culto: rappresena la nostra storia e identità”, ha detto uno dei membri di quella comunità minoritaria. I vecchi sorridono mesti, convinti che si tratti dell’ultima punizione del sultano presidente; di una ripicca per le luci della ribalta che si sono accese sull’Armenia cristiana, dove perfino il Papa andrà in pellegrinaggio, dal 24 al 26 giugno prossimo, nonostante i turchi avessero fatto il possibile (e quasi l’impossibile) per scongiurare il viaggio. Tutto questo “ricorda gli eventi che portarono all’avvio del genocidio, il 24 aprile 1915, quando le proprietà furono illegalmente confiscate e la popolazione fu spostata con l’inganno, dicendo alle persone che si sarebbe trattato d’un trasferimento temporaneo”, ha sottolineato al New York Times Nora Hovsepian, presidente del Western Region of the Armenian National Committee of America. “Questo trasferimento temporaneo – ha aggiunto – si è tradotto in marce della morte e privazione dei diritti di due milioni di individui che abitavano da tempi ancestrali quella terra”.
L'interno della chiesa di Sur Giragos
E’ questo un nervo scoperto per Ankara, come dimostra l’eclatante presa di posizione (richiamo in patria dell’ambasciatore) assunta un anno fa dopo che il Papa in San Pietro parlò del genocidio del 1915, con le deportazioni in Anatolia e Siria e la sparizione di un intero popolo. Francesco andò più in là delle analisi di qualche storico, che predica prudenza nel parlare di genocidio, e perfino di quei diplomatici vaticani che mai avrebbero voluto sentire dal Pontefice frasi così nette: “La nostra umanità ha vissuto nel secolo scorso tre grandi tragedie inaudite: la prima, quella che generalmente viene considerata come il primo genocidio del Ventesimo secolo ha colpito il vostro popolo armeno – prima nazione cristiana – insieme ai siro-cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci”. E ancora, “un secolo è trascorso da quell’orribile massacro che fu un vero martirio del vostro popolo, nel quale molti innocenti morirono da confessori e martiri per il nome di Cristo. Non vi è famiglia armena ancora oggi, che non abbia perduto in quell’evento qualcuno dei suoi cari: davvero fu quello il Metz Yeghern, il Grande Male, come avete chiamato quella tragedia”. Dinanzi alle proteste di Ankara, da Roma non vi fu alcun passo verso il difficile interlocutore.
D’altra parte, oltretevere avevano già accettato a stento il programma deciso dalla Turchia per la visita di Francesco, nell’autunno precedente. Lui, il Papa, voleva andare solo dal fratello Bartolomeo I, al Fanar, sulle orme di Paolo VI, ma Erdogan puntò i piedi e pretese che il capo della chiesa cattolica andasse a rendergli omaggio nel nuovo palazzo da mille e più stanze costruito nella città fatta capitale per volontà di Atatürk. Francesco non fece da sponda al gioco del capo dello stato, non si prestò a divenire megafono delle rivendicazioni turche verso Bruxelles. Nessun accenno alla possibilità di far entrare il paese euro-asiatico nell’Unione europea, come pure qualcuno nel governo di Ankara s’attendeva e sperava. Una presa di distanza dalle politiche di Erdogan palese, seppur addolcite dal consueto spirito diplomatico, dai sorrisi del vescovo di Roma e dalla dovuta cortesia per l’ospite. Pesava la posizione turca riguardo la crisi siriana, con la Santa Sede intenta a perseguire una linea opposta rispetto a quella turca. Non ha facilitato le cose, poi, l’accordo sui migranti, con il Vaticano che fin da subito è intervenuto, attraverso le parole del segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, contro i termini dell’intesa stipulata tra l’Unione europea e la Turchia. E in Vaticano c’è ancora chi ricorda che il Gran Muftì turco, che pure ricevette con tutti gli onori Francesco al Diyanet, aveva definito “immorali” le parole del Pontefice sul genocidio armeno, avendolo già accusato l’anno precedente di non aver aperto bocca sull’assalto alle moschee in Europa.
Papa Francesco, in visita ufficiale in Turchia, e il presidente turco Erdogan (foto LaPresse)
Oltretevere si diffida della Turchia, delle sue politiche volte a ricostruire una sorta di novello impero ottomano in grado di egemonizzare una buona fetta di quel che resta dell’obsoleta divisione statuale nel vicino oriente concepita con squadra e righello dopo la Prima guerra mondiale. E il Vaticano guarda da sempre con sospetto tale disegno, ambiguo nella sua volontà di coniugare l’apertura ai valori (sempre più sbiaditi ma non ancora del tutto rinnegati) di Bruxelles e l’islamizzazione forzata della società, che passa anche attraverso la richiesta di importanti figure delle istituzioni nazionali di dotare la Turchia di una Costituzione religiosa: “In quanto Paese musulmano perché dovremmo negare la religione? Siamo un paese musulmano. Per questo dobbiamo avere una costituzione religiosa. Nella Carta non dovrebbe esserci spazio per la laicità”, ha detto dieci giorni fa Ismail Kahraman, presidente del Parlamento.
Il cardinale Joseph Ratzinger, nel 2004 – quando ancora era fresco il dibattito sulle radici giudaico-cristiane del continente e Recep Tayyip Erdogan pareva un illuminato uomo di stato più vicino a Washington che alla wahhabita Riad – in un’intervista al quotidiano francese Figaro definì l’Europa “un continente culturale e non geografico”. “E’ la sua cultura”, aggiungeva l’allora prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, “che le dona un’identità comune”. Chiariva, Ratzinger, quello che è il problema maggiore, oggi divenuto una sorta di tabù: “La Turchia si considera uno stato laico, ma fondato sull’islam”. Da Papa, poi, complice anche il clamore suscitato dallo strumentalizzato discorso di Ratisbona, si mostrò disponibile quantomeno a concedere una possibilità ad Ankara, benché in Vaticano non mancasse chi – il diplomatico Jean Louis Tauran, cardinale e attuale presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, ad esempio – puntava più sull’ingresso nell’Unione di paesi “cristiani” quali Ucraina e Moldova.
Da allora, di acqua nel Bosforo ne è passata parecchia, la Turchia guarda sempre più a est e a sud e l’Europa s’è messa a discutere perfino su uno dei cardini su cui è imperniata, la libera circolazione dei cittadini. Non sfugge, alla Santa Sede, che in questa situazione il coltello dalla parte del manico lo tenga Ankara, e non solo perché si trova a suo agio nel minacciare Bruxelles di riversare sulle coste comunitarie, greche o italiane che siano, centinaia di migliaia di disperati che hanno trovato precaria accoglienza nei campi profughi dell’Anatolia. Il timore è che l’Europa indebolita e impaurita possa concedere troppo in cambio di qualche garanzia, mettendo sotto il tappeto la questione della libertà religiosa. Costruire una chiesa in Turchia è di fatto impossibile, al punto che quando il governo ha fatto un’eccezione (la prima in novant’anni, nel gennaio del 2015), la notizia è stata salutata come un evento storico, conseguenza della visita del Papa nel paese. Davutoglu aveva messo la firma, osservando come “tutti sono egualmente cittadini della Repubblica di Turchia”, e pazienza se per quattro anni la burocrazia locale aveva impedito alla piccola comunità cristiana di rito siriaco (ventimila fedeli, a fronte dei settantasei milioni di musulmani) di costruirsi una piccola chiesa. La legge è legge, e quella tante volte sbandierata dal 1923 al 2015 prevedeva che dopo la data d’istituzione della Repubblica non potessero essere costruiti edifici di culto sul territorio nazionale, salvo la possibilità di restaurare quelli esistenti. E mentre in patria s’impedisce di costruire chiese, fuori i confini nazionali Ankara finanzia l’edificazione di moschee. L’ultima, enorme, è stata inaugurata da Erdogan in persona il 2 aprile a Lanham, in Maryland, Stati Uniti: “E’ una delle più grandi mai costruite all’estero”, sottolineavano i funzionari turchi, lodando il complesso di edifici che fa da cornice all’edificio di culto. A trovare i fondi, scriveva il quotidiano Sabah, oltre a diverse organizzazioni turco-americane, ci aveva pensato la presidenza del Dipartimento per gli affari religiosi del governo, il Diyanet.
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