Eugenio Scalfari. Il suo Cortese è innamorato della messa in scena di sé e di ogni suggestione della mente

Eugenio va a Creta

Pietrangelo Buttafuoco
Il caos deflagrante della filosofia fatta romanzo. Il patriarca, i guitti e l’innocenza del Minotauro nel “Labirinto” di Scalfari. Torna in libreria dopo diciotto anni, nella nuova veste Einaudi, la storia di Cortese deu Gualdo e della sua numerosa schiatta.

Impugna le corna che porta, il toro. Sta in piedi su due gambe, ha un torace imponente e dalla bocca – grande, gocciante di schiuma – urla tutta la disperazione sua di mostro. Leggo il finale de “Il labirinto”, il più bel libro di Eugenio Scalfari, e trovo in un rigo – “Quando verrà non troverà nessuno” – il grido dell’eterna innocenza del Minotauro. L’Io cosciente della bestia non ha voce. E’ solo un impeto, l’Io. E’ la coazione di un gesto: aggrapparsi alle corna, o al proprio collo – teso d’angoscia, bramoso di sangue – per stanare da se stesso la bestia matta e infera. Il bestio, infatti, vuol strapparsi – afferrandosi da sé – la sua stessa testa. In questa, e non nel cuore, alberga la matta brutalità della sostanza infera e Minotauro, infatti, brama per sé la libertà.
Il “Faust” – il poema teatrico di Goethe dove l’uomo è la posta di un ramino tra Dio e il Diavolo – nel compimento circolare della sfericità ha un prologo in terra, e uno in Cielo. “Il labirinto”, invece – è il romanzo filosofico di Scalfari, tornato in libreria dopo diciotto anni nella nuova veste Einaudi – nella deflagrazione del caos, ha un prologo nell’intima essenza del mito. Nulla è esplicitato, ed è un’allegoria cui il lettore è chiamato a fare esercizio di ermeneutica.

 

E’ puro magma egeo, “Il labirinto”. Rammemora, infatti – nella storia a noi contemporanea di Cortese dei Gualdo e della sua numerosa schiatta – l’Io profondo. Ed è l’origine sacrissima di ciò che, nello stigma della contraddizione delle nature – la terra, il Cielo, il mito – dilania l’uomo e il creato. Il segno è il caos “dove nessuno di noi, dunque, è definitivo”. La storia di Cortese dei Gualdo, un patriarca, innamorato della messa in scena di sé e di ogni suggestione della mente, è il racconto del “Labirinto”. Vi si racconta di un giorno speciale – l’arrivo di una compagnia di guitti girovaghi nella tenuta di cui don Cortese è padrone – e si racconta, nell’epilogo che è proprio della sontuosa partitura, di Andrea. E’ il giovane della schiatta dei Gualdo, cui tocca in sorte di avviarsi nel mondo, per lasciarsi alle spalle il labirinto il cui prologo occulto – a cui la prosa nitida di Scalfari ne affida l’eco – è a Creta.

 


Il labirinto del palazzo di Cnosso a Creta


 

L’implicito si esplicita nel groviglio di alte mura, quelle del labirinto, costruito da Dedalo, dove doppia prigione per il Minotauro sono la sua stessa carne, i suoi stessi zoccoli, la coda e il pelo ispido, irto di pronta e matta furia. Chi tante ne ha viste, e tante ne ha fatte, lo sa. “Si esce”, e Scalfari lo scrive, “da un labirinto solo per entrare in un altro sicché muovendosi si resta fermi, ma questa è la nostra condizione: di contenere in ogni nostro attimo tutto il futuro e tutto il passato che coincidono incontrandosi nella porta carraia del nostro presente”. Frutto qual è – figlio qual è – di Pasifae, Minotauro è il risultato di un’immonda copula. Quella che la madre, donna che s’imbestiò “tra le ’mbestiate schegge” – nuda e prona – s’ingegnò di godere col bianco toro dall’incredibile vigore.

 

L’animale – bellissimo – è l’offerta votiva che Poseidone attende da Minosse, il re di Creta. Il sovrano, invece che sacrificarlo, lo nasconde tra i propri bestiami e al dio destina un altro esemplare, non certo importante. Poseidone scoperto l’inganno si vendica facendo innamorare Pasifae, moglie di Minosse, del bianco toro di cui attende l’olocausto ed è da questo innesto contro natura che nasce Minotauro. L’infante, dal muso bovino, è presto gettato dal sovrano tra alte mura di un imbroglio di sentieri contorti e stretti. La creatura, costretta nell’ombra è – agli occhi degli uomini – un essere deforme. Ed è, anche per le vacche i cui calori – “e ’n su la punta de la rotta lacca”, scrive Dante – umettano le mandrie di Poseidone, un obbrobrio.

 

Metà e metà di due nature, Minotauro nasce prigioniero e abita il labirinto, il segnacolo delle contraddizioni entro le quali l’uomo si dibatte. La consapevolezza colpevole di chi si ciba di sette ragazzi e sette ragazze, come il mostro, in attesa del compimento, con Teseo e Arianna.

 

Metà e metà di due nature, don Cortese abita l’Io nella consapevolezza colpevole della caducità di chi si ciba di se stesso, in attesa del compimento, con la morte, e la cancellazione del tutto. La condizione propria dell’uomo – una sorta di punizione che grava sull’individuo, la nascita del senso di colpa, la responsabilità, l’incapacità di abbandonarsi alla fede nel divino – in lui è l’hortus conclusus della propria mente, presidio di un dio, Dioniso, che tutto lascia andare dove la vita conduce. Solo i poveri e gli ebeti non hanno un Io sviluppato. Gli uni perché dominati dall’istinto di sopravvivenza, i secondi perchè vivono sotto la soglia della consapevolezza. L’Io potrebbe perdere la sua forza, se l’istinto di sopraffazione non caratterizzasse l’uomo. E’ la sopraffazione dettata dalla fame di potere in qualunque campo, anche quello dell’amore.

 

Con la morte, il labirinto di ciascuno, unico e irripetibile, si spegne, tutto finisce per ricominciare di nuovo in altra veste, nel flusso inarrestabile del divenire sempre uguale e sempre diverso. Gli uomini si dividono tra coloro che vivono fuori di sé e quelli, invece, rivolti al loro interno. Sono gli estroversi e gli introversi. Tra i rappresentanti del primo tipo c’è Cortese Gualdo, ottantenne patriarca di una grande e numerosa famiglia che vive all’interno di questo villaggio in un luogo fuori dal tempo e dal mondo, circondato dalla campagna. Mentre suo figlio Stefano, sessantenne, capo di questa comunità, rappresenta coloro che vivono chiusi in se stessi, meditativi. Questa grande famiglia è composta da settantadue membri tra fratelli, sorelle, figli, nipoti. Andrea è il giovane nipote di Stefano a lui particolarmente legato da una sorta di affinità.

 

Un giorno arriva al castello una comitiva di circensi, che chiede ospitalità offrendo svago ai residenti. La richiesta accordata da Stefano sicuro di far cosa gradita al padre. Alcuni di loro sono l’avanguardia di un più numeroso gruppo di saltimbanchi, giocolieri, comici, musici governati da Alfonso il gitano denominata “Confraternita dei lunatici” in onore di Cirano de Bergerac. In loro onore viene data una festa al villaggio alla quale presenzia Cortese mentre Stefano si limita ad osservare dalla finestra del suo studio. Ha scoperto un nemico che si annida nel suo corpo come un roditore accucciato nel polmone sinistro che scava, giorno dopo giorno, in silenzio. Stefano sa che nel giro di qualche mese il roditore attaccherà la sua mente fino a ottenebrarla ma adesso osserva lo spettacolo come se egli vi fosse estraneo. Al culmine della festa che si svolge sotto la sua finestra, improvvisamente la spalanca gridando “Dio è morto e voi lo sapete”.

 

Della compagnia fanno parte Lerac, già contrabbandiere, e Renato che a quei tempi stava con una ragazza e i figli di lei. Questa un giorno aveva portato a casa Lerac, questo strano ragazzo che raccontava un sacco di storie e aveva finito per andarci a letto e diventare amico di Renato cosa che lei non aveva sopportato cacciandoli entrambi. I circensi invitano Lerac a raccontare qualcuna delle tante avventure da lui vissute. Per esempio, di quando aveva militato nella Legione straniera, ed era stato catturato da una banda di predoni, costretto a razziare con loro, aveva incontrato una bellissima ragazza araba che di notte lo aveva aiutato a scappare dall’accampamento dandogli appuntamento al forte dove Lerac era arrivato dopo due giorni di cammino, accolto come un eroe, nominato caporale, ma della ragazza nessuna traccia, poi trovata morta a pochi chilometri dal forte. Adesso Alfonso invita ciascuno a raccontare quell’episodio a modo proprio, arricchendolo con la fantasia. La conclusione nicciana è che i fatti sono stupidi, esiste solo l’interpretazione di chi li racconta.

 

Segue un dialogo tra Andrea e Stefano. Il primo vuol sapere dallo zio il motivo di quel suo grido dalla finestra la sera prima. Stefano gli spiega la sua visione della vita. Ognuno ha bisogno di credere in qualche cosa che, per chi ci crede, esiste realmente, ma se un giorno ciascuno si rende conto che quelle credenze sono false, allora Dio è morto. Per Stefano è morta la fiducia nella sua mente che lo ha sempre sorretto come un lume, adesso sente agitarsi in lui un’energia nuova che gli proviene dal corpo, una voglia di mordere la vita forse perché sa che sta finendo. Andrea ha maturato la decisione di lasciare il villaggio, vuole scegliere liberamente la sua strada ma pensa che tutto sia già scritto negli istinti – il racconto segreto di una vena mitica, ferina – della specie. Prima di andar via si congeda da Cristina la figlia di un altro zio, ragazza bellissima ed inaccessibile. Nell’incontro lei si diverte a provocarlo, gli racconta un’avventura che ha avuto con uno sconosciuto che vendeva monili al mercato del paese. Il suo sguardo l’aveva trafitta, le aveva regalato degli orecchini e portata in una baracca poco distante dove l’aveva posseduta selvaggiamente scatenando in lei un gran desiderio. Poi l’aveva riaccompagnata salutandola con una carezza. Andrea la corteggia, fanno l’amore.

 

Muore Cortese dopo tre giorni di agonia. Organizza la sua morte come una festa, decide che tutti si vestano elegantemente, vuole che tutti i bambini gli siano portati, li bacia e li benedice, quando tutto sta per finire vuole i suoi due cani, che mettano le loro zampe sul suo letto come da sempre sono abituati. Andrea lascia il villaggio, raggiunge una grande città lontanissima “trasportato dall’altra parte del mondo a cavallo della freccia del tempo”, dove abitano uomini delle razze più diverse, che parlano un linguaggio elementare, frutto del miscuglio dei linguaggi originari. La città non ha storia perché non ha memoria, non ci sono guerre, il mutamento riguarda solo le innovazioni tecniche. Sia i Gualdo che questa città hanno tentato, in modo opposto, di fermare il tempo: gli uni nella fissità della ripetizione, gli altri nella mobilità frenetica. Il risultato è devastante per entrambi, un’esistenza claustrofobica, un labirinto da cui fuggire.

 

Tutte queste informazioni sulla città vengono date ad Andrea da Albert, un uomo di mezza età che lo avvicina incuriosito dallo straniero e gli indica il caffè degli Incostanti, luogo di incontro di coloro che per qualche motivo sono stati esclusi dal sistema. Sono più poveri, si aiutano tra loro e non hanno fretta. Lì Andrea viene introdotto alla conoscenza di Zalot e Ghiso, ideatori di un attentato ai danni del sistema che stanno organizzando grazie a delle cariche di esplosivo portate da una ragazza che viene “dall’altra parte del mondo” e che conosce Jesus, il loro capo. La ragazza è Cristina, i due si rivedono, Andrea viene accolto dai congiurati come uno di loro, lei non fa trasparire alcuna emozione rivedendolo, così come Jesus era l’uomo che le aveva regalato gli orecchini e vedendo i loro sguardi incrociarsi comprende che si conoscevano, Cristina gli dice con voce neutra che erano parenti. L’azione ha successo, il meccanismo esplode non prima di aver addormentato gli uomini presenti e averli portati via per non causare vittime, cosa su cui Jesus era stato categorico. Andrea capiva che Cristina non apparteneva a nessuno, né a lui né a Jesus, era come la dea Diana, vergine e seduttrice, quello era il suo destino, con cui “non c’è appuntamento ma convivenza dall’inizio alla fine”. Il boato dell’esplosione è enorme, vi sono vittime, poi lentamente la vita riprende senza fretta, all’inizio gli abitanti della città sono smarriti dalla mancanza della rete, ma poi pronti a conoscersi e a sperimentare.

 

Stefano al villaggio sta per morire. Affida a uno dei guitti, Renato, la conduzione della casa. Gli spiega che con la morte di Cortese e l’assenza di Andrea un ciclo si è concluso. Stefano si ritira in una casa isolata e disabitata in alto tra i monti, lontana dal villaggio in compagnia del matto e della donna che da sempre se ne prendeva cura e di un unico libro, le “Confessioni” di Agostino. La sua morte, come la sua vita, sarà l’antitesi di quella di Cortese. La vita è come la morte: cercare con essa l’incontro, liberarsi di tutti i ricordi, pensare il niente, prepararsi al passaggio, svuotata la mente di ogni pensiero. Agostino al termine dello stesso percorso si era riempito dell’eternità di Dio, mentre Stefano non ha un Dio cui offrirsi. La presenza del matto è quella della inconsapevolezza, dell’innocenza senza colpa, uno stato primordiale a cui Stefano tenta di tornare con uno sforzo immane, pulire la mente, liberarla di tutto.

 

Impugna la propria morte, don Cortese. L’Io è la nascita di quella consapevolezza colpevole, la perdita dell’innocenza propria dell’uomo, sconvolgimento tremendo nell’ordine naturale di cui nessuno conosce la causa. “come è potuto accadere un evento così enorme che un animale tra tanti abbia perso l’innocenza?”. Ed è l’innocenza, il grido del Minotauro. Quando verrà non troverà nessuno. Metà e metà di due nature, questo libro – “Il labirinto” – è letteratura, ed è mito. Il caos deflagrante della filosofia fatta romanzo.

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  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.