I pediatri hanno smesso di consigliare la disinfezione scrupolosa dei pavimenti di casa. I bambini si lasciano gattonare quasi ovunque, “così si immunizzano”, come dicevano le nostre nonne

Evviva i batteri

Fabiana Giacomotti
Nell’ultimo decennio, dopo essere stati tenuti a lungo ai margini della ricerca medicale, i batteri hanno conquistato un ruolo centrale. I biologi hanno iniziato a lavorare al sequenziamento del microbioma e cioè alle sequenze geniche delle popolazioni microbiche che colonizzano il nostro tratto digerente e che costituiscono appunto il microbiota.

Se pensiamo ai titoli di testa che accompagnano l’Isis ogni volta che minaccia di sterminarci per via batteriologica come pianificavano di fare i nazisti a Dachau e come tramano tutti i cattivi della storia più recente, compresi quelli fittizi di 007 (“Al servizio segreto di Sua Maestà”, il primo della serie: era il 1969 e non si poteva contare granché sugli effetti speciali, dunque i microbi andavano benissimo perché non si è tenuti a mostrarli ma fanno paura lo stesso), è piuttosto singolare che i batteri, nostri ma anche altrui e ingeriti nei modi eccentrici che vedremo, siano diventati l’ultima tendenza in fatto di alimentazione e di dieta persino sulle televisioni generaliste e in programmi di inchiesta. Report, per esempio. “E adesso pensiamo un po’ allo stomaco”, annunciava improvvisamente garrula, qualche settimana fa, Milena Gabanelli, dopo aver colpito basso i diverticoli di Confindustria, nell’ambito di una serie di servizi sulla salute che si protraggono ormai da mesi e che, a occhio e croce, sono realizzati allo scopo di evitare cali di audience in coda al programma cioè verso le undici della sera domenicale, quando anche l’inchiesta più riuscita si scontra con il diritto dei lavoratori al sonno ristoratore in vista di una nuova settimana, e l’unica soluzione per evitare un’azione drastica sul tasto rosso del telecomando è toccare temi personali rilevanti quali, appunto, lo stomaco o anzi l’intestino.

 

L’organo deputato alla trattazione del tema sarebbe lui, ma ovunque, persino a Report, si fa fatica a nominarlo: dall’intestino al suo contenuto che si sta scoprendo molto utile anche fra gli umani ma che rimane immondo, il passaggio è infatti fin troppo breve. Le mode sono innanzitutto una questione di marchi, di loghi, di definizioni e del loro immaginario, quindi i programmi di Maria de Filippi o di Paolo Bonolis possono anche “parlare alla pancia del paese” quanto vogliono, sul “malpancismo” abbiamo costruito un’intera stagione politica essendo diventati impopolari e vetusti i grattacapi, ma che la pancia contenga gli intestini è cosa che tutti sottintendono ma che suona oltremodo volgare pronunciare.

 

Dunque, i miliardi di microbi che colonizzano il nostro corpo dalla nascita e che in alcune eleganti cliniche inglesi le mamme di taglio cesareo fanno prelevare con un tampone vaginale prima dell’operazione e poi strofinare sulla bocca, gli occhi e le manine del neonato per garantirgli lo stesso patrimonio batterico che avrebbe nascendo naturalmente ed evitargli quello dell’ostetrica, hanno assunto la denominazione elegante di microbiota, con quel “bio” incastonato per evocare atmosfere felici, pulite e luminose, e hanno iniziato una lenta risalita mediatica dalle oscurità ctonie dove sono stati relegati per secoli conquistando copertine di femminili di fascia A, spazi importanti nei programmi di inchiesta e scaffali dedicati nelle librerie specializzate. I pediatri hanno smesso di consigliare alle mamme la disinfezione scrupolosa dei pavimenti di casa: esiste ovviamente una differenza fra i batteri buoni e quelli cattivi, fra sporcizia utile e pessima, ma quel che è certo è che nella “ipotesi igiene” su cui si stanno concentrando attualmente i biologi, le case più pulite sono anche quelle in cui si hanno più chance di sviluppare allergie.

 

Ci avrete fatto caso, dalle pause pubblicitarie dei programmi di prima serata sono spariti i batteri cartoon antropomorfi, enormi, verdi e ghignanti, del famoso detersivo “presidiomedicochirurgico” pronunciato senza pause nell’ultimo secondo di programmazione degli spot perché tutti gli altri erano serviti a decantarne le virtù di sterminatore: nessuno vuole più trasformare casa nella sala operatoria dell’ospedale Niguarda. I bambini si lasciano gattonare non proprio ovunque ma quasi, “così si immunizzano”, come dicevano le nostre nonne, improvvisamente riabilitate nel ruolo di puericultrici.

 

E’ il momento dello sporco; certamente ben confezionato, ma pur sempre sudicio. Andrea Grignaffini, critico gastronomico di caratura internazionale, ritiene la nouvelle vague batterica una ribellione compensatoria alla “cultura del germoglio” che da anni ci riempie i frigoriferi di radici di daikon ed erbette medicali. E’ la riscossa delle uova centenarie cinesi, della selvaggina frollata, del fagiano “al cioccolato”, del celeberrimo faisandage (“pura fecalità”) dei manuali di cucina ottocenteschi che prevedeva la cottura dell’animale previa caduta naturale della testa per putrefazione contro la fermentazione della cultura vegetale e della moda dei succhi che, fra l’altro, privi di fibre come rimangono dopo il passaggio nelle nuove centrifughe a freddo, pare sciacquino via intere colonie di microbi buoni e simpatici depauperando l’organismo. Insomma, è il buio che riprende spazio sulla luce, il mondo sotterraneo che riguadagna terreno contro la superficie e l’ovvietà che sottende. Scomposta nei suoi elementi e derivati, la carne va insinuandosi nuovamente nell’immaginario collettivo: “E’ la trasgressione delle penicilline”.

 

Nei supermercatini di alimenti biologici del centro di Milano, i testi sul “microbiota che è in noi” occupano addirittura la posizione privilegiata a fianco delle casse, accanto ai ciucci gommosi bio al fruttosio, mentre negli Stati Uniti, da ultima ricognizione, i “gut” definiscono ormai ubiquamente l’intestino di ferro di The Donald (in Italia, le palle) e una serie di bestseller sui modi più efficaci per gestire una relazione sana, consapevole e soddisfacente fra il proprio es e il super io: “The good gut”, “The clean gut” o ancora “Follow your gut”: va’ dove ti porta l’intestino, che talvolta è pure vero e d’altronde lo scrive anche Rabelais, che considerava pancia e mente pentole equivalenti, cui dedicare lo stesso tempo, e le piume di papero le migliori per “forbirsi il culo”. In Italia, di intestini però nessuno vuole sentir parlare, mentre microbo ha un suono affettuoso e microbiota una patente di nobiltà. La definizione di batterio, se evocata con un sorriso e sfoggio di brio, è una variante accettata.

 

“Snelli con i batteri”, un titolo che non avrebbe sfigurato su “Buongiorno Elisir” a mezzogiorno, anche su Report verso mezzanotte ha toccato l’8.95 di share, quasi un milione e centomila spettatori, e tutti hanno potuto condividere l’opinione dell’autrice Stefania Rossini sul numero impressionante di diete che combattono per conquistarsi un posto al sole fra gli scaffali delle librerie e dei supermercati, sull’infinita varietà di regimi fai da te che ormai significa costruiti copia-incolla dal web, e sulla nuova (o antichissima a seconda del grado di preparazione storica e di tenuta di stomaco, perché sempre lì si torna) teoria del batterio benefico. Il microrganismo che appunto non si vede ma che può trasformarsi nel nostro migliore amico se lo trattiamo con i dovuti riguardi e farci dimagrire anche se ci ingozziamo di formaggi stagionati e ammuffiti. Anzi, soprattutto di quelli. Nella classifica discendente dagli alimenti sani a quelli malsanissimi che, ormai dovrebbe esserci venuto qualche sospetto, invertono la posizione a seconda del momento, del luogo e anche del budget disponibile (negli anni Ottanta, Armando Testa firmò per l’Eridania di Raul Gardini una delle sue ultime campagne a favore dello zucchero bianco raffinato, che già allora era posizionato un gradino più in basso della cocaina nell’immaginario delle sostanze dannose; due settimane fa, Time ha dedicato la copertina ai benefici del burro, la seconda in difesa dei grassi polinsaturi in sei mesi), i batteri vivono attualmente la condizione privilegiata di arbitri del gusto e della snellezza.

 

Se dimagriamo mangiando ogni giorno carni rosse cotte nel vino o ingrassiamo respirando l’aria del centro di Milano lo decidono loro; ormai pare un fatto assodato, una nuova tappa nell’evoluzione della conoscenza umana, un passo oltre la diatriba fra vegani, vegetariani e carnivori che occupa da mesi giornali e tv con quel genere di violenza ottusa che al terzo coniglio scuoiato, alla centesima evidenza che le carote traggano nutrimento dai microorganismi presenti nel terreno e che dunque il veganismo totale non esista e all’ennesima banana brandita come un sex toy generano un’insopportabile noia. Per questo, il microbiota gode di un inaspettato successo. I batteri mettono d’accordo tutti, vegani oltranzisti e adepti alla dieta del cavernicolo: sono organismi viventi, ma essendo privi di “faccia e di mamma riconosciuta”, che è il mantra del vegano, e per di più allevati da noi come bimbi in affido, non prestano neanche un micron della loro superficie alla polemica. In pancia, ne ospitiamo per un chilo e trecento grammi circa, cioè miliardi; per farci un’idea della loro attività, immaginiamo l’equivalente della popolazione sulla spiaggia di Ostia in una domenica soleggiata di giugno e con la stessa voglia di far baldoria. I nutrizionisti ci dicono che i nostri batteri amano la dieta variata e ricca di muffe, da cui la predilezione per i formaggi di fossa appunto, e che dobbiamo farceli amici, blandendoli con regalucci come faremmo con un satrapo orientale (cioccolata e mandorle, per esempio) e presentando loro amici nuovi in caso la compagnia in cui si trovano non fosse stimolante.

 

In Cina, che di batteri pare abbia sempre avuto dotta e profonda conoscenza, fin dal quarto secolo dopo Cristo i ricchi si facevano servire una certa zuppa gialla di selezionatissimi batteri fecali (selezionati come non si sa, dev’essere andata più o meno come per il vino del contadino che faceva tendenza negli anni Settanta), anticipazione dei trapianti fecali in via di sperimentazione da qualche anno per la cura di alcune infezioni intestinali ostinatissime, e d’altronde anche i libertini mostruosi delle “Centoventi giornate di Sodoma”, nel loro progetto di meccanizzazione delle singole sezioni del corpo delle vittime incaricate di condurre al godimento, si fanno servire un certo “latte molto chiaro e per nulla lordo” per mezzo di ani trasformati in brocche. Che cosa si sapesse all’epoca è molto approssimativo anche nelle fonti, e già Kant aveva messo l’altolà al disgusto come oggi noi al sudore (“il disgusto è spiacevole di per sé e senza riserve, perciò il nostro intelletto non può essere intrattenuto da una rappresentazione del disgusto”, scrive nelle “Reflexionen”, postulandone l’esistenza come reale opposizione al bello e dunque come categoria esclusa dalla filosofia trascendentale), per cui da quell’olimpo di divinità sotterranee, di esplorazioni gargantuesche, di erotismo nero e di non detti abbiamo cavato poco, e spesso robaccia imbarazzante.

 

Nell’ultimo decennio, dopo essere stati tenuti a lungo ai margini della ricerca medicale, i batteri hanno conquistato un ruolo centrale. Dopo aver sequenziato del genoma umano, i biologi hanno iniziato a lavorare al sequenziamento del microbioma (“The Human Microbiome Project” negli Stati Uniti e il “Metagenomics of human intestine”, detto MetaHIT, in Europa) e cioè alle sequenze geniche delle popolazioni microbiche che colonizzano il nostro tratto digerente e che costituiscono appunto il microbiota. Una sorta di carta d’identità in più, e per di più, modificabile. “Un cambiamento di prospettiva”, lo definisce la biologa Maria Cristina Belfiore: “La nostra vita e la nostra salute risultano programmate non solo attraverso le sequenze del Dna, ma dipendono anche dalle variazioni epigenetiche che il microbiota attua sui nostri geni”. In parole poverissime, se gli abitanti dei piani nobili si comportano male, la plebe giù in strada, cioè funghi, lieviti e perfino virus come batteriofagi, può dar loro una regolata: “Siamo un aggregato di geni umani e geni microbici, il nostro metabolismo e quello delle specie che ci abitano si intrecciano, interagiscono ed evolvono parallelamente”.

 

Il microbiota migliore assomiglia e non a caso a certe miss Mondo venezuelane, frutto di incroci genetici e di patrimoni etnici variegati: ne accogliamo le prime colonie dalla nascita fino ai tre anni di vita, se ci ammaliamo cambia (ultima annotazione: gli antibiotici che un tempo ci calavamo come vitamine anche per infezioni virali sono in netto calo nelle regioni a più elevato sviluppo socio-culturale), ma anche il cibo ha un ruolo fondamentale per determinarne la composizione. Gli affinatori stanno avendo un momento di grande successo personale, e saperne di muffe è un tratto distintivo. Lo è anche amarsi. Non vorrei che la contiguità suggerisse un parallelismo, ma è un fatto che nulla come lo scambio amoroso continuo e la vita in comune rafforzino le difese immunitarie, come ricorda anche la storica Giovanna Motta, coordinatrice del dottorato di Storia dell’Europa all’università La Sapienza, che sta organizzando un summit internazionale sulla cultura del cibo per il prossimo giugno. Pare funzioni anche quando l’ossitocina, ormone principe del benessere rilasciato in grande quantità durante il sesso, inizia a diradare le proprie manifestazioni più entusiastiche. Basta la contiguità, per così dire il bacetto del mattino. Perfino senza essersi lavati i denti.