Natalia va a Mosca
Il suo “lessico famigliare”, biografico e letterario, è entrato a far parte della storia italiana della seconda metà del Novecento. E’ il ritratto di un mondo perduto, quello dell’élite antifascista torinese, della Einaudi, di un ceppo culturale che è anche parentela, la sinistra azionista, moralista e “indipendente”, con la sua “arte dell’indignazione”, come ebbe a definirla l’Unità il giorno della scomparsa della scrittrice.
Il padre di Natalia Ginzburg, Giuseppe Levi, insegnava Anatomia comparata. La moglie, Lidia Tanzi, era figlia di Carlo Tanzi, l’amico di Bissolati, di Turati e di Anna Kuliscioff. Natalia è l’ultima di quattro figli. Leone Ginzburg, il primo marito, è uno dei grandi intellettuali ebrei italiani, l’animatore a Torino di Giustizia e Libertà assieme a Vittorio Foa e Sion Segre Amar. Finirà in carcere a Regina Coeli, dove incontrerà una morte orribile. Poi il secondo marito, l’anglista Gabriele Baldini, il lavoro all’Einaudi, il Premio Strega per “Lessico famigliare”, i tanti romanzi, le due legislature alla Camera come indipendente nelle liste del Pci.
Ma non sarebbe male se una certa intellighenzia di sinistra, che in questi giorni riempie i quotidiani e i teatri di celebrazioni per il centenario della grande scrittrice, facesse i conti anche con alcune sue piccole, ma proprio piccole virtù. Non di poco conto, considerando che hanno plasmato tanta cultura italiana del Novecento. La prima di queste, notissima, la tirò fuori lo stesso Primo Levi, in un’intervista rilasciata allo scrittore Ferdinando Camon, rivelando che il suo romanzo autobiografico “Se questo è un uomo”, il capolavoro della letteratura della Shoah, era stato respinto da Einaudi e per questo pubblicato dal piccolo editore De Silva.
Levi spiegò che l’esaminatore del manoscritto era stato “una personalità della letteratura italiana, ebrea, vivente”. Si scoprì poi che era stata Natalia Ginzburg a censurarlo: “No, guardi, non rientra nei nostri programmi editoriali”. Nel 1996 la studiosa francese di Levi Myriam Anissimov, autrice della sterminata biografia “Primo Levi ou la tragédie d’un optimiste” (Lattès), accusò la Ginzburg di aver snobbato Levi, considerandolo come un semplice chimico che scrive, e di averlo lasciato fuori dai salotti.
Meno nota è la pubblicistica di Natalia Ginzburg, che per anni ha vergato pagine di autentico disprezzo nei confronti di Israele sui maggiori quotidiani italiani, dalla Stampa all’Unità. In un articolo per il quotidiano torinese del settembre 1972, titolo “Gli ebrei”, scritto a ridosso della strage degli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco, la scrittrice nazificava così Israele: “A volte ho pensato che gli ebrei di Israele avevano diritti e superiorità sugli altri essendo sopravvissuti a uno sterminio. Questa non era un’idea mostruosa, ma era un errore. Il dolore e le stragi di innocenti che abbiamo contemplato e patito nella nostra vita non ci danno nessun diritto sugli altri e nessuna specie di superiorità.
Coloro che hanno conosciuto sulle proprie spalle il peso degli spaventi non hanno il diritto di opprimere i propri simili con denaro o armi, semplicemente perché questo diritto non lo ha al mondo anima vivente”. E ancora: “Dopo la guerra, abbiamo amato e commiserato gli ebrei che andavano a Israele pensando che erano sopravvissuti a uno sterminio, che erano senza casa e non sapevano dove andare. Abbiamo amato in loro le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi. Questi sono i tratti che noi amiamo oggi nell’uomo. Non eravamo preparati a vederli diventare una nazione potente, aggressiva e vendicativa. Speravamo che sarebbero stati un piccolo Paese inerme, raccolto, che ciascuno di loro conservasse la propria fisionomia gracile, amara, riflessiva e solitaria. Ma questa trasformazione è stata una delle cose orribili che sono accadute. Quando qualcuno parla di Israele con ammirazione, io sento che sto dall’altra parte”. Erano tutti così, gli articoli della Ginzburg.
“Amo l’ebreo dalla schiena ricurva” scriveva durante la guerra del Kippur del 1973. Le rispose, con una lettera durissima, un antifascista come Sion Segre Amar, che della scrittrice era stato amico d’infanzia, ma che stavolta accusò di aver aperto, con i suoi articoli antisraeliani, “la ferita difficilmente rimarginabile di un tradimento”. Dieci anni dopo, il 22 luglio 1982, la Ginzburg tornò ad accusare Israele con un articolo, pubblicato sempre sulla Stampa, dal titolo “Un bambino ebreo”, dove la scrittrice dichiarava che “fra gli ebrei che subirono le persecuzioni naziste quarant’anni fa e l’imperialismo d’Israele oggi non esiste rapporto o connessione di nessuna specie”. Niente male. Dunque l’ebreo israeliano sarebbe addirittura una mutazione antropologica rispetto all’ebreo vittima dei campi di sterminio.
In una successiva intervista all’Unità, dal titolo edificante “Meglio vittime che persecutori”, Natalia Ginzburg dichiara che “il sionismo è sempre stato un pericolo”, che “è bene e giusto che gli ebrei si mescolino agli altri”, che “è meglio farsi ammazzare piuttosto che diventare persecutori”, che “non si può accettare che chi ha conosciuto la persecuzione l’attui poi selvaggiamente sugli altri”.
In quella intervista, la Ginzburg celebrava l’inversione dei ruoli: “I palestinesi sono gli ebrei di ieri”. La leadership palestinese colse l’occasione ed Elias Freij, storico sindaco di Betlemme dell’Olp, intervenne sulla stampa italiana per dire: “Natalia Ginzburg ha ragione: oggi i giudei siamo noi, massacrati e perseguitati come lo erano loro negli anni Trenta e Quaranta”.
Non sazia di attacchi a Israele, nel 1988 la Ginzburg torna a firmare sull’Unità un fondo di prima pagina dal titolo “I miei occhi ebrei e la Palestina”, dove definisce Israele “totalitario e razzista”, paragonandolo al fascismo. “Non penso che questo evento, il genocidio, giustifichi nulla, nessuna forma di razzismo e di infamia. Semplicemente li spiega. Dal male nasce il male e dal razzismo la violenza, la persecuzione”. La Ginzburg arrivò dunque a sostenere che gli ebrei israeliani compiono, reprimendo i palestinesi, una specie di orrido rito sadomasochista, in cui sfogano sui palestinesi le sofferenze patite nei lager nazisti. Le risposero, sempre sull’Unità, alcune personalità ebraiche, come Ugo Caffaz e Roberto Finzi, Tullio Levi e Amos Luzzatto.
Anche dopo il 1989, Natalia Ginzburg si disse affezionata al comunismo, tanto da non voler aderire alla svolta di Achille Occhetto a Bologna. Il 16 novembre 1989, in una intervista alla Stampa, la scrittrice dichiara: “Sono contraria a che il Pci abbandoni la denominazione di ‘comunista’ e il simbolo della falce e martello. Anzi, qualcosa di più: sono addolorata. E’ come se mi avessero tagliato una mano”.
E ancora: “Le idee, il pensiero, il comunismo in sé, erano buoni e dobbiamo salvarli”. Il Muro di Berlino era appena caduto. La pensava allo stesso modo negli anni dello stalinismo? “In quegli anni avevo un senso di forte disagio. Ma poi ne parlavo con Felice Balbo e lui mi diceva che tutto presto sarebbe cambiato. Ed è stato così”.
E cosa scriveva del Piano Marshall che salvò l’Europa nel dopoguerra? “Gli americani ci rifilarono gli scarti delle loro fabbriche. C’era la sensazione sgradevole di essere caduti nell’‘area americana’”. D’altronde, sempre in quel fatale 1989, Natalia Ginzburg era capace di firmare articoli come questo sull’Unità: “Mi ricordo un viaggio in Unione sovietica. Avvertivo indistintamente un’atmosfera straordinaria e non riuscivo a capire da cosa fosse prodotta. Alla fine, me ne sono accorta: lì non c’era la pubblicità”. Da non credere.
Due anni prima, al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, meglio noto come “Referendum Tortora”, Natalia Ginzburg sceglie di sposare la battaglia di Magistratura Democratica contro il tentativo di estendere il perimetro della responsabilità togata. Così aderisce all’appello di Norberto Bobbio, per il quale il tentativo di estendere la responsabilità civile rappresenterebbe una minaccia all’indipendenza giudiziaria.
Sono anni in cui, sull’Unità, Natalia Ginzburg teorizza per prima l’“integrità morale” a sinistra, la “rettitudine”, contro quello che definiva “il partito occulto” di Bettino Craxi, di cui parlava come un virus. Mise poi la propria firma in calce al manifesto del mondo della cultura “Per un vero rinnovamento del Pci”, che l’ex parlamentare Antonello Trombadori commentò così: “Figurano, oltre a esponenti della sinistra indipendente entrati nel Pci in età ben avanzata, anche rappresentanti di correnti diverse che dell’aggettivo ‘comunista’ si sono servite per contrapporsi al Pci e a quelle scelte che, dalla svolta di Salerno di Togliatti all’opzione Nato di Berlinguer, sono state accusate di abbandono dei principi di classe, di moderatismo, di resa della borghesia”. Trombadori, senza nominarla, attacca così Ginzburg: “Vi fanno spicco anche scrittori che ebbero voce nella cultura anti Pci del ‘partito armato’ e perfino addetti alle salmerie del ‘soccorso rosso’. Mi chiedo il perché della ingiusta e ingiustificata assenza di altri non meno competenti in ‘identità comunista anti Pci’, come i capi delle Brigate rosse”.
Natalia Ginzburg attraversò gli Anni di piombo firmando un appello dietro l’altro, alcuni dei quali Indro Montanelli definì “prose assetate di sangue”. Nel 1976 partecipò alla campagna innocentista per il brigatista Alvaro Lojacono, condannato per l’omicidio dello studente nazionalista greco Mikis Mantakas. E così scriveva sul Corriere della Sera: “Appartengo al numero di quelli che pensano che Lojacono sua innocente, Panzieri innocente, e che né l’uno né l’altro, con la morte di Mikis Mantakas, abbiano rapporto alcuno”. Ci mise la mano sul fuoco sull’innocenza dei brigatisti. Si spinse fino al paragone fra i brigatisti e le vittime politiche del ventennio fascista: “Nel 1931 in Italia fu condannato a morte un operaio di nome Schirru, venuto dall’America con il proposito di uccidere Mussolini. Non fece nulla e fu condannato a morte”. E sempre nel 1971 Natalia Ginzburg firmò il celebre appello dell’Espresso in cui il commissario Luigi Calabresi veniva definito “commissario torturatore”.
In quegli anni che si stavano arrossando sempre di più e che sarebbero poi sfociati nelle imprese del terrorismo comunista, anche gli intellettuali della sinistra rampante dell’epoca, oggi riveriti e famosi, urlavano la loro solidarietà agli slogan che avrebbero spianato, in certi casi, la strada agli assassinii.
Era il 18 ottobre 1971 quando Natalia Ginzburg, assieme a Umberto Eco e altri, firmava un appello in cui si diceva che “quando essi gridano ‘lotta di classe, armiamo le masse’ noi lo gridiamo con loro e quando essi si impegnano a ‘combattere un giorno con le armi in pugno contro lo stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento’ noi ci impegniamo con loro”. Pagine, queste, forse poco degne degli Struzzi Einaudi.
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