Il libro infinito
Nel groviglio delle pagine sicuramente c’è. Certo, in un sottotraccia di qualche riga. Leggibile a chi non sfugga: sta scritto in uno spazio bianco. La pausa tra pensiero e memoria. E’ il fantasma di Laerzio de Figuereido. Magari si chiamava non proprio Laerzio ma Antonio, passabilmente Herberto. Comunque è un personaggio che sta in una delle tante storie di Roberto Bolaño scritte o ancora da scrivere. Perché il supposto Laerzio, o Antonio, o Herberto qui evocato, e che Bolaño non raccontò mai con la sua liquida e fluviale scrittura, esiste sicuramente in pagine non ancora pubblicate. Le pagine della mente. Un personaggio-ombra che in un giorno non precisabile superò la soglia di un negozietto di bigiotteria aperto in un vicolo degli anfratti aggrovigliati nel centro di Blanes, un villaggio sulla costa catalana dalle parti di Girona.
Dietro al bancone stava un giovane uomo dal sorriso spento e dai capelli scarruffati. Portava gli occhiali a stanghetta. Tondi. Scrutò il personaggio-ombra che aveva superato la soglia del suo negozietto. Il giovane uomo dal sorriso spento si chiamava Roberto Bolaño e aspettava con angosciata ansia qualche cliente. Laerzio o ver Antonio, ma anche Herberto de Figuereido non doveva comperare niente. Neppure gettare uno sguardo. Non gli interessava la bigiotteria. Aveva soltanto una storia da raccontare. Fu ascoltato e l’avventura sua finì nell’ambulacro mentale del giovane uomo dal sorriso spento. Una vicenda archiviata in quel vuoto che si chiama anche e variabilmente precarietà della letteratura in divenire. Un appunto a futura memoria per un libro che si ha sempre da scrivere. Una storia da depositare a futuro utilizzo in quella specie di brogliaccio-illusione disposto alla scrittura e che fa vagheggiare, in chi la pratica, una specie di status drogato prossimo all’allucinazione: una postuma chimera perché in un immaginabile domani, in definitiva assenza fisica di un autore, possa sussistere. E grazie a parole superstiti l’autore medesimo possa vantare dal silenzio “anch’io sono stato”.
Roberto Bolaño
Nei giorni della “visita” di De Figuereido alla bigiotteria, Roberto Bolaño, che traguardava i quaranta, si lamentava di sé con sé. Temeva la morte ed era ormai certo che, dato il tempo, gli sarebbe stato impossibile accogliere tra le sue mani uno strano oggetto che si chiama usualmente libro. Un libro suo. Una storia raccontata da lui transustanziata su carta stampata. “Sono ormai certo che morirò senza che una parola mia sia stata pubblicata… D’altra parte la letteratura non ha alcun valore se non è accompagnata da qualcosa di più luminoso del mero atto di sopravvivere”. Sfidava la sorte che intanto col suo cinico alone guatava. E preparava proprio per Bolaño, esule cileno stracquatosi in Spagna sulla costa catalana, giornate di grovigli e calembour letterari. Intanto lo aspettava il successo. In vita. E poi, dopo una morte piuttosto prossima – se ne sarebbe andato a cinquant’anni – un diorama postumo da gettar nello sconforto lettori, indurre letterati e curiosi a scandagliare vita e miracoli di quello scrittore attorno cui, vero e presunto, crebbe un fungaio di storie, vere o inventate, da trasformare opera e vita di Bolaño in un flipper sempre sul punto di continui tilt. La sua costanza scrittoria dalle dimensioni insospettate, era andata costruendo una autentica cartografia d’autore. Poi, ciò che doveva avvenire avvenne. Fino al 1998 Bolaño era uno scrittore poco noto che viveva in isolamento a Blanes. Aveva ottenuto, fin allora, un riscontro di stima con la pubblicazione di “La letteratura nazista in America” e “Stella distante”. Maggiore attenzione suscitò l’uscita di “Chiamate telefoniche”. Si vide offrire allora la collaborazione al quotidiano della provincia catalana, Diari de Girona. Si realizzò il suo ideale: “Tenere una rubrica su un giornale nella quale poter parlare del più sconosciuto poeta provenzale come del più noto romanziere polacco…”.
Figlio di un camionista e pugile dilettante, Roberto Bolaño Avalos era nato a Santiago del Cile nel 1953. Alla fine degli anni Settanta, la madre andò a vivere in Spagna. Lui la seguì. Il padre rimase in Messico. Roberto Bolaño aveva vissuto l’infanzia tra Los Angeles, Valparaiso, Quilpué, Viña del Mar, Cauquenes. La sua una famiglia inquieta alla costante ricerca di fortuna. Sempre da un’altra parte. Giovinetto s’era impiegato come bigliettaio d’autobus sulla linea Quilpué-Valparaiso. Fu poi a Città del Messico – raccontava – dove passava la sua vita in biblioteca. Era dislessico. Visti i risultati, il difetto non doveva avergli dato problemi di apprendimento. Lesse tutti i libri possibili. Un autodidatta che, in ogni giorno della sua vita, avrebbe mischiato autori in una formidabile macedonia. Passando da Paracelso e Max Beerbohm fin ad avvitarsi a Philip K. Dick. Letture disparatissime, da Cervantes alla fantascienza, Baudelaire e il cinema, Tito Livio e i polizieschi, i poemi e la pornografia “che lo hanno erroneamente fatto passare per una specie di tardo pop o postmoderno”, rispondeva Ignacio Echevarría, un amico di Bolaño, alle domande di Marco Cicala che lo interrogava sulla vita di chi aveva fatto della scrittura la sua esistenza, anche se diceva essere ben più felice quando leggeva. Non quando scriveva. Eppure. “Fu un autodidatta onnivoro”, raccontava Echevarría a Cicala… “Impossibile tracciare la mappa delle sue letture. Aveva una cultura-bazar… Da pop e postmoderni lo separava la completa assenza di cinismo. Bolaño resta fedele a una visione eroica della scrittura come sfida esistenziale, senza compromesso. Se vogliamo, vincolato all’idea rimbaudiana della letteratura che deve trasformare la vita. Certo, sempre con ironia. Questo non è disincanto ma, romanticamente, racchiude un’aspirazione alla totalità”. Aveva una incondizionata venerazione per Borges. Ai suoi “colleghi latinoamericani” non risparmiava ironie: Gabriel García Márquez, “un uomo incantato dall’aver conosciuto tanti presidenti e tanti arcivescovi”.
Oggi, da lettori “frustrati” dall’infernale confusione di una non storia della letteratura contemporanea, si sarebbe autorizzati a chiederci dove trovare la forza per capire donde Bolaño volesse andare a parare con il suo inesausto e individualissimo “sistema” dell’arte di leggere. Sorprendendoci quando si scopre, per dichiarazione stessa di Bolaño, in una delle sue ultime interviste, ormai circonfuso dalla fama, che dopo aver esplorato tutti gli autori del mondo, il suo preferito restava Eugenio Montale, il poeta della decenza di vivere, colui che per tutta la vita cercò il “varco” traverso cui evadere dalla condizione in cui l’uomo è esistenzialmente prigioniero, per trovare una dimensione altra. Ignota. Una fuga senza fine. Una fuga verso l’altrove. E per quanto possa essere improbabile cercare di buscare l’ignoto. Riuscire almeno a identificarsi in qualcosa che non si conosce.
Forse per Bolaño, dopo il successo dei suoi libri, l’ignoto era la memoria che si configurava nel suo ritorno in Cile – a parte le implicazioni politiche relative al golpe – dopo venticinque anni. “E’ strano tornare in Cile, il paese corridoio, ma se uno ci pensa su un paio di volte o perfino tre, è strano tornare ovunque. Ammesso, chiaramente, di tornarci davvero e non solo di sognarlo. Io sono tornato dopo venticinque anni. Le strade, in realtà, sembravano le stesse di sempre. I volti dei cileni anche. Questo può condurre alla noia più mortale o alla pazzia. E così questa volta, tanto per cambiare, me la sono presa con calma e ho deciso di attendere gli eventi seduto su una sedia, che è il posto migliore se vuoi evitare che un corridoio ti riservi delle sorprese”.
E allora mettiamola in questo modo. I libri di Bolaño, così onusti di immagini da creare disequilibri, così simili alla raffigurazione di corridoi senza uscita, cosa hanno significato in questi nostri decenni di inconsistenza creativa? Di produzioni letterarie opache: storie senza vigore, raccontate in lingue povere e assenza di carattere.
“A uno scrittore basta aver pubblicato un libro di racconti presso una casa editrice di infima categoria per mettere un annuncio sul giornale o su una rivista e far sorgere dal nulla l’ennesimo corso di scrittura creativa, pieno di giovani e meno giovani desiderosi di confrontarsi con il mistero della pagina bianca. I più non guadagnano molto, ma qualcuno fa i soldi a palate… Oggi si va ai corsi di scrittura creativa con la stessa disposizione d’animo di quanti vanno dallo psicanalista”. E il destino di Bolaño? All’uomo dall’inesausta “grafomania”, così eccentrico, che ha prodotto profluvi di pagine, in parte pubblicate e, alla sua morte, rimaste in una tentacolare archivio sotto forma di taccuini, diari, appunti, facimenti e rifacimenti, ritorni e memorie, cosa riserverà la sorte? Quale il destino di “Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce”, di “Monsieur Pain”, della “Letteratura nazista in America”, di “Stella distante” e “Amuleto”? Quale il futuro dell’opus monumentale “2666”, uscita dai cassetti e pubblicata postuma? E del “Terzo Reich” e dei “Dispiaceri del vero poliziotto”, entrambi postumi?
Dopo tanto rumore e scatenata bulimia dei lettori, un po’ per tutte le belle e controverse e labirintiche ossessioni, passioni, genialità e bugie sulla personalità della vita di Bolaño, smerciando un’immagine maudit di ex tossico, arrivando a dire, per far più bello e perverso il mazzo, fosse morto di overdose mentre se ne andò per una pancreatite trascurata, qualcuno comincia a chiedersi se il fenomeno Bolaño, dopo tanto clamore, si stia affievolendo. Prossimo all’infungibilità. Che sia intanto passata la moda dello scrittore cult? Tale era stato fatto diventare. Quello di Bolaño è un tragico fenomeno che ha travolto un autentico letterato in un oggetto da mercato editoriale. E che, proprio perchè presentato come prodotto, purtroppo destinato a consumarsi. Un crimine compiuto dal mercato editoriale. Si è portati a credere che, indipendentemente dalla qualità dell’opera, il successo di Bolaño sia frutto di un’operazione pianificata dall’establishment culturale americano, un establishment che decise di investire non sulla qualità e l’importanza di un’opera ma sull’immagine di un autore presentato come scrittore maledetto, fuggito dal Cile in Messico, poi di nuovo in Cile, in prigione, fondatore di un movimento poetico d’avanguardia, vagabondo per l’Europa, riparato in Spagna. Tutte cose sul crinale di una realtà trasfigurata.
In realtà Bolaño era un tranquillo uomo borghese, un ottimo marito e un buon padre. L’opera sua, magari pensata e vagheggiata in un negozietto di bigiotteria aperto negli anfratti aggrovigliati del centro di Blanes, il villaggio sulla costa catalana dalle parti di Gerona, era stata scritta negli ultimi dieci anni della sua vita, salutarmente “perseguito” da una forsennata fantasia, suffragata dalle slavinate di libri letti che allagavano la sua mente. Romanzi, creazioni letterarie, saggi narrati, i suoi, che non assomigliavano alla vita dell’autore. Ma erano l’autore. L’industria editoriale, scopertolo, con tutta una serie di valenze passabilmente bottegaie che potevano piacere al pubblico, suscitando l’appetito per un prodotto dal sapore diverso, “inventò” un mito. Una icona nuova. Un po’ James Dean, un po’ Jack Kerouac, un po’ Rimbaud. Un autore da vendere facilmente all’occidente, noto mantrugiatore della letteratura sudamericana. Gli elementi, sapendoli cucinare, con qualche fantasiosa forzatura, potevano esservi tutti. Da parte degli avveduti agenti di bestseller, con i romanzi di Bolaño, si erano create addirittura delle autentiche suspense editoriali. Su quali avrebbero potuto essere gli svelamenti sulla vita di alcuni personaggi nelle aggrovigliate e misteriose situazioni create dallo scrittore nel libro vient de paraitre, per altro postumo, “continuazione” ideale di quello già da tempo in libreria. Libri pubblicati per calmare la fame voyeuristica di supposti estimatori.
L’opera di Bolaño, a parte alcuni casi di pagine sfuggitegli di mano, fuor dei climi mercantili, è una fragorosa e impropria autobiografia dell’autore, costruita tra la felicità e incubi, dove, nell’impervia e dolcissima impresa di risvegliare il testo, il lettore caduto nell’impetuosità di un torrente creativo, fatica a respirare tra i flutti. Pagine come un sogno-vissuto, il romanzesco e il reale, controtipi di un unico delirio: l’inaccettabile e drammatico presente in cui tutti siamo calati. La radiografia che trasfigura una inestricabile tragedia. La Bolaño-mania ha forse oscurato la grandezza di uno scrittore. Alcuni suoi libri, acquistati con fregola modaiola, sono stati abbandonati dall’incauto lettore dopo alcune pagine. Stanno ancora in qualche angolo. Sono riesumabili. Dopo una pausa di silenzio si possono rincontrare. Con autenticità. Non come furono presentati, quali strane fiction molto snob. Verrà il tempo della resurrezione. Tramontata l’editorial operazione, compiuta al pari di quella generalmente operata con centoni di nessun valore, proposti al mercato come capolavori di prima grandezza. A Bolaño è stata vampirizzato la creatività. Una ulteriore prova della cieca ignoranza degli editor, i classici inventori di bestseller da banco.
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