George Arnald, “La distruzione dell’Orient nella battaglia della baia d’Aboukir”, 1825-’27

L'esule trionfante

Marina Valensise
Dall’Egitto all’Italia, l’educazione di una fanciulla che ama le battaglie navali. L’autofiction di Teresa Cremisi, signora dell’editoria francese. Un sottile gioco di specchi tra personaggio e narratore. L’incanto de “La Triomphante”: tutto  diventa racconto, con leggerezza.

La bambina era mansueta, figlia unica, bastava a se stessa, ma aveva una strana passione. Le piacevano le battaglie navali. Sapeva tutto dei segreti della marina militare e della sua storia; per esempio conosceva a menadito la differenza tra i cannoni da 36 libbre e quelli da 32, ed era persino in grado di dire se erano caricati a palla, a granate o a mitraglia, se per sincronizzare i tiri erano necessari due o tre uomini. La sua era una passione apparentemente inspiegabile, frutto non di un’indole violenta e prevaricatrice, ma di una curiosità infantile nata dalle circostanze, probabilmente dall’ambiente, anzi dal luogo stesso in cui da piccola passava le sue estati. Figlia di una coppia borghese e cosmopolita di Alessandra d’Egitto, andava al mare sulla baia di Aboukir, teatro della più grande battaglia navale dei tempi moderni, quella del primo agosto 1798, quando la flotta di Napoleone Bonaparte, impegnata nella campagna d’Egitto, venne attaccata nottetempo e distrutta dalla Royal Navy di Horatio Nelson, perdendo quindici delle diciassette navi e migliaia di uomini. Di quella battaglia la piccola sapeva tutto. Era stato il padre, nei lunghi pomeriggi d’estate passati in silenzio in riva al mare, fra la ricerca di ricci e grandi nuotate, a raccontarle per filo e per segno quella storia d’altri tempi, e suscitare in lei una curiosità indelebile, alimentata poi per anni con letture varie, accumulando particolari e conoscenze tecniche. Con la forza dell’immaginazione, la bambina reinventava la storia di quella battagli tremenda, riusciva a sentire persino le grida dei marinari, gli scricchiolii delle navi, il fragore delle esplosioni, e meditava sull’inanità del destino, sul lavoro e la perizia di migliaia di artigiani serviti per costruire tutte quelle navi e andati in fumo in una notte, sotto il fuoco della battaglia.

 

Basta questo solo dettaglio, in cui la biografia cede alla grande storia, e il particolare minuto della vita quotidiana trascolora nella vanità delle cose, per dare una misura della densità da moralista di questo primo libro di Teresa Cremisi, “La Triomphante” (Adelphi, 185 pp., 16 euro). La signora dell’editoria francese, oggi membro del Cda di Rizzoli e del Corriere della Sera, del Teatro La Fenice, ex presidente di Flammarion, ex direttrice generale di Gallimard, madrina di tanti autori famosi, da Michel Houellebecq a Yasmina Reza, passando per Christine Angot e Catherine Millet, questo libro l’ha scritto in francese, la sua lingua d’elezione, e l’ha riscritto in italiano. In Francia, il libro è stato pubblicato come un romanzo, ma adesso esce senza etichetta nella collana Fabula di Adelphi, quasi a significare che prima di essere un romanzo è anche un’autobiografia, o forse un’autofiction intinta di romanzesco. E infatti, sempre sospesa tra il vero e il verosimile, tra la realtà e l’immaginazione, Teresa Cremisi distilla la sua verità di narratrice in pochi tratti sicuri. L’io narrante è una donna come lei, ma di dieci anni più anziana. E’ una bambina nata ad Alessandria d’Egitto come lei, e fuggita dall’Egitto di Nasser nel 1956 per riparare in Italia, come lei. E come lei è una ragazza che ha vissuto e studiato a Milano, e ha lavorato in un’impresa editoriale, in veste però di giornalista di costume, e poi di responsabile di una tipografia, anziché come lessicografa e editrice. E come lei, è una donna approdata a Parigi, con un grosso incarico di manager editoriale.

 

Per inventare la sua trama, dunque, Teresa Cremisi non è andata tanto lontano, ha attinto direttamente alla sua vita e al mondo che conosce. Ma ha aggiunto anche molto altro, sconfinando sia dall’autobiografia sia dal romanzo. E infatti l’incanto del libro, più che in questo sottile gioco di specchi dove l’immagine del personaggio insegue quella dell’autrice, sta nella ricchezza di spunti, nell’eccezione del punto di vista, nella capacità di penetrazione, nella leggerezza con cui tutto ciò diventa racconto, narrazione pura. Il suo è un libro che si legge tutto d’un fiato in un paio d’ore. Ma quali ore… ore fatte di eternità, che continuano a pulsare nella testa del lettore, con il caleidoscopio di dettagli e di ricordi che si trascinano dietro. Nel racconto di una bambina curiosa e solitaria, che vive entro uno strano triangolo familiare fatto di due genitori disfunzionali, si sente l’odore del mare di quel porto d’oriente, il senso di putrefazione di una civiltà esangue e irrimediabilmente condannata, si vedono la lebbra che corrode i muri e i fiori selvatici che spuntano alla rinfusa, si avverte l’allegro fatalismo che incombe sui protagonisti, il senso d’incuria, l’indifferenza al danaro, la tentazione del gioco d’azzardo al quale ricorrere per obbedire all’ananke. La Cremisi racconta e a noi sembra di toccare con mano quei mendicanti di Alessandra d’Egitto, storpi, ciechi, paralitici, che sanno soltanto chiedere l’elemosina, e che la compassione coloniale traforma in facchini, guardiani, portieri, cuochi, boys che popolano le case di quella città cosmopolita, porto dalle mille avventure, approdo di infinite vite senza radici, senza passato, senza identità o con troppe identità da dimenticare. La Cremisi ricorda le estati di bambina ad Antibes, e a noi pare di entrare con lei dentro il negozio del vecchio barbiere che dipinge conchiglie e stelle marine da mettere in vetrina, e non ha clienti perché “pederasta”. La Cremisi racconta l’arrivo a Roma negli anni Cinquanta e noi con lei ci ritroviamo in quell’appartemento di viale Adriatico, alla periferia di Montesacro, in un palazzo spuntato come un fungo in mezzo ai prati spelacchiati percorsi da greggi brulicanti, o fra i tavolini di via Veneto, all’epoca della Dolce vita, invasa da un’onda liberatrice di sensualità cattolica. La Cremisi racconta l’approdo della famigliola a Milano, la lenta deriva dei genitori della bambina, stesi come naufraghi sul letto a guardare per giornate intere la tv lasciandosi ipnotizzare da “Lascia o raddoppia?”: e noi ci ritroviamo in quella stanza insieme con loro, desiderosi solo di uscirne fuori, di prendere aria, di scappare via da quello strazio, per vincere l’inerzia della storia e correre a gambe levate verso la vita nuova.

 

Il padre della bambina esperta di battaglie navali è un dirigente d’azienda con passaporto italiano. Mite, non altissimo, occhi azzurri, è un campione di golf sposato con un’angloindiana, bellissima, estrosa, occhi neri, una passione per il disegno e la pittura. Negli anni della guerra, il padre si dà alla macchia, per evitare di finire in un campo di concentramento inglese, e trova riparo nel delta del Nilo, protetto da una galabeya bianca e dai muri in paglia e fango delle casupole dei contadini. La madre, invece, artista fantasiosa, capace di prodezze strabilianti, come guidare un’ambulanza nel deserto, ma incapace di gesti banalissimi come accendere un fornello a gas, resta nella città assediata da giovani soldati inglesi, frequenta la mensa ufficiali, riceve raccolte di poesie di Rupert Brooke con dediche infuocate, e sogna l’Europa, la Francia, l’Italia, la Costa azzurra. Le lunghe vacanze in Svizzera o al Cap d’Antibes, da marzo a ottobre, non sono che un anticipo del ritorno in Europa, che avverrà di lì a poco, in conseguenza della svolta prosovietica e antioccidentale di Nasser, e della nazionalizzazione del canale di Suez nell’estate 1956. Il clima si è fatto rovente. Denunce, accuse di corruzione, arresti a raffica: l’ostilità verso gli stranieri e i loro affari non ha più argini. Da un giorno all’altro, senza troppi bagagli per non dare nell’occhio, col solo conforto di un’edizione in tela azzura dei “Sette pilastri della saggezza” di Lawrence d’Arabia, i tre si imbarcano su un piroscafo diretto a Genova, lasciandosi alle spalle quel mondo decadente e perduto, gli storpi, i mendicanti, Mohammed, il fido servitore che al suo “gelsomino d’Egitto” regalerà prima di partire tutti i ricordi d’infanzia, e poi le suore del collegio Notre-Dame de Sion nella rue d’Aboukir, suorine adorabili, prodighe di doni, attente all’imparzialità, capaci di selezionare professori laici di prima scelta.

 

Lì, in quel collegio cattolico, da bambina, la figlia di due eccentrici sradicati, con tre o quattro passaporti e un numero imprecisato di provenienze nel loro albero genealogico, imparerà a forgiarsi gli strumenti che le consentiranno di crescere, emanciparsi, di trovare il suo posto nel mondo, pur sentendosi sempre una straniera. In classe si legge l’“Iliade”, con un quadernetto per il riassunto dei vari canti, l’interpretazione dei personaggi e lo studio delle similitudini omeriche. “Capii per la prima volta lo straordinario potere della poesia”, scrive la bambina divenuta ormai un’anziana signora, che racconta come se fosse ancora infante lo stupore davanti al catalogo delle navi nel secondo canto del poema, e l’entusiasmo contagioso di quei mesi di studio infervorato, dove gli eroi di Troia e la mitologia greca diventano materia per recite teatrali improvvisate e insulti omerici fra le compagne di classe.

 

A Milano, sarà in un’altra scuola di suore, le Marcelline, che l’ex bambina ormai diciassettenne troverà il suo approdo e la sua ragione di vita. E qui Teresa Cremisi regala ai lettori un’altro indimenticabile capitolo da romanzo. E’ sempre la protagonista, l’ex bambina mansueta che sa cavarsela da sola e ha il pallino delle battaglie navali a trovare quel collegio cattolico, di cui ha appreso l’esistenza andandosi a confessare in Duomo. E’ lei a perorare la sua causa, mentre la madre pittrice resta giornate intere a letto, in balìa della depressione. E’ lei a convincere le suore ad accettare l’iscrizione di una ragazzina partita dall’Egitto prima della fine delle scuole, figlia di due genitori “cattolici sì, ma non praticanti”, per giunta priva di certificato di nascita, e che da piccola parlava l’arabo e il greco, ma non aveva mai scritto una riga in italiano. Ed è sempre lei a trovare il modo per sopravvivere fra le sciurette della Milano bene, in gonna blu, camicia bianca e mocassini. La strada giusta l’ha imparata leggendo un romanzo. A suggerirgliela è stato Stendhal, il cinico, rancoroso, geniale inventore della “Certosa di Parma”, attraverso le parole del conte Mosca, riferite dalla Sanseverina al nipote Fabrizio del Dongo, in partenza per l’accademia ecclesiastica di Napoli: “… il conte, che conosce bene l’Italia di oggi, mi ha incaricato di farti una raccomandazione. Che tu creda o no a ciò che ti insegneranno, non fare mai obiezioni. Fa’ conto che ti insegnino le regole del whist: ti verrebbe mai in mente di fare delle obiezioni alle regole del whist?”. E poco dopo: “Un’altra cosa che il conte mi prega di dirti è questa: se ti viene in mente una risposta arguta, una obiezione schiacciante che potrebbe cambiare il corso della conversazione, sappi tacere: le persone sagaci te la vedranno negli occhi, la finezza di spirito. Per far sfoggio di finezza di spirito, aspetta di diventare vescovo”. Morale elastica, azione decisa, e in più condita da solidità di carattere e bontà d’animo. Forte di quel viatico a Fabrizio del Dongo da parte del simpatico conte Mosca, la protagonista del romanzo di Teresa Cremisi, straniera e sradicata come lei, priva dei codici di accesso alla società italiana, si farà strada nella Milano affluente degli anni Sessanta, conquistandosi l’amicizia delle compagne di classe, l’attenzione dei professori, persino l’amore di un giovane professore inglese all’università. Le prime, che non l’avevano accolta di buon grado, smetteranno di tenerle in broncio non appena lei capirà che è meglio evitare di mettersi a fare la secchiona, e inizierà a infarcire i suoi compiti in classe di piccoli errori veniali, per non farsi respingere. I professori penseranno a una disattenzione passeggera, a una mancanza di concentrazione, ma continuarenno a tesserne le lodi di alunna modello. E la stessa tecnica, del non farsi notare, vivere sottotraccia, esercitando su di sé un feroce autocontrollo, sarà vincente anche negli anni dell’università con quel bel lettore gallese, che tiene un seminario su Shakespeare. “Con noi ragazze faceva il playboy, ma io ero più brava di lui. Per quanto Thomas fosse navigato, io avevo istintivamente messo a punto un misto di distacco, ammirazione e timidezza con cui ero riuscita a farmi notare e amare”. E si capisce allora come il romanzo della bambina che amava le battaglie navali sia anche un’implacabile resa dei conti dell’autrice con se stessa, con le proprie debolezze e imperfezioni, con le proprie illusioni e soprattutto con lo schermo di un altro sé, un sé più duro e più tosto di quello vero, costruito per farsi accettare, ma che liberato dalla letteratura e con l’esercizio dello stile, appare finalmente sovrano e trionfante, per quello che è.

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