Romanzo parlamentare
In attesa di referendum costituzionali, dopo maratone parlamentari e fiducie, si potrebbe, come suggeriva del resto Benedetto Croce nel 1940, “ricercare come nei romanzi degli italiani fu figurata Roma, diventata capitale del regno e centro della vita politica e parlamentare”. Il romanzo parlamentare italiano parte con le grandi speranze della vigilia, il 27 novembre 1871 la Camera dei deputati apre infatti a Roma dopo la tournée iniziata a Torino e spostata a Firenze; con il Regno unitario e il cambio di location gli scrittori italiani si scatenano; con plot anche tutti simili: grandi speranze iniziali, delusione e morìa di idealismi presto.
Federico De Roberto nel 1906 è a Roma per riprendere il vecchio progetto del romanzo parlamentare, “L’imperio”, seguito dei “Viceré” e ultimo tassello della trilogia sicula della famiglia Uzeda, e scrive a una morosa: “Più sto a Roma più rimpiango Milano, dove la pianta uomo cresce con qualità ignorate nel resto d’Italia”. Prima dell’Expo e dell’albero della vita. Il suo protagonista, un giornalista speranzoso e ingenuotto tipo il Lucas Goodwin di House of Cards, si chiama Federico Ranaldi e arriva tremebondo nella tribuna stampa di Montecitorio: “Le sedute sono più interessanti d’uno spettacolo teatrale”, rileva, e “il giovane abbracciava con uno sguardo la scena, commosso dalla maestà di Montecitorio, Foro della Nazione, Basilica della Terza Roma”, ma poi si accorge che è tutta “’na sòla”. La delusione per i magheggi, i trasformismi, le oratorie cheap, tutto così lontano dalle retoriche risorgimentali, è sintetizzato nei materiali. Finalmente Ranaldi vede il presidente della Camera e i ministri e i deputati celebri, e “dovette appoggiarsi alla colonna; allora, sotto la mano, sentì che la grave colonna sorreggente l’arco solenne era di legno foderato di cartone”. La Camera è cartonata, la Patria forse nasce già fallata.
Anche il povero Francesco Sangiorgio, deputato di prima nomina protagonista della “Conquista di Roma” di Matilde Serao, romanzo parlamentare per eccellenza, viene subito deluso dall’interior design metaforico: “Le pareti color legno, coi fregi di un azzurro cupo, erano fatte apposta per non riflettere nulla, per estinguere ogni allegrezza luminosa: quella tinta volgare assorbiva e smorzava tutte le altre, avvolgeva tutti i colori in una gradazione scialba e monotona”.
Poi non lo saluta nessuno, in quanto peones o deputato semplice. E’ come trasparente, in mezzo alla moltitudine di nuovi arrivati nella neo capitale che si affollano attorno a piazza Colonna. Roma, che non aveva mai avuto un centro – non lo era il Campidoglio e non lo era piazza Navona, nonostante i mercati e i giochi acquatici estivi – aveva ora il suo fulcro anche urbanistico attorno alla Camera, dove sorgevano tutta una serie di attività: i “liquoristi” Ronzi & Singer, il caffè Aragno, pasticceria con birra di Vienna, buffet e “café” alla francese (poi diventato Spizzico, e sottoposto alla patina del tempo). E il ristorante Fagiano e il caffè delle Colonne, dove è introdotto l’uso delle kellerine, procaci cameriere vestite alla moda bavarese (con “un vestitino nero rifinito di bianco ai polsi e completato da un grembiulino sempre bianco”).
Lo storico caffè Aragno, luogo d'incontro di artisti d'avanguardia e intellettuali, oggi non più esistente
Nascevano anche, attorno ai bisogni dei peones o deputati, nuovi bisogni per rivestire il corpo della politica: fazzolettai e fornitori d’underwear come Schostall, come scrive con grafia d’epoca Gabriele D’Annunzio, ancora cronista sulla Tribuna; guanti bianchi per entrare a Palazzo; ecco tutto un business di guantai – che fa da pendant letterario alla fabbricazione di guanti che sta nella “Pastorale americana” di Philip Roth, ma qui non siamo a Newark, ma sempre nella “Conquista di Roma”. Nella bottega della guantaia, a via di Pietra, dove oggi c’è il renziano Salotto42, le commesse devono soddisfare soprattutto onorevoli di varie taglie e nuove esigenze protocollari, “un deputatino piccolo e grasso, quasi rotondo, con una corona di barba nera e un par d’occhietti vividi, piccini, rotondi”, cerca disperato qualcosa per la sua taglia, è un deputato di sinistra che sadicamente viene incaricato di accogliere il re e la regina, che come nelle monarchie costituzionali aprono l’anno del Parlamento (e i romani si affezionarono poi a questo strano animale della regina Margherita, in fondo la prima regina della storia romana, finalmente una sottana femminile dopo tante sottane papali).
Il romanzo parlamentare romano è poi romanzo prettamente ferroviario, arrivano in treno (a Termini appena finita, nel 1874) re e regine e arriva in treno anche il deputato Sangiorgio, pieno di aspettative. Il protagonista della “Conquista di Roma” parte da Sparanise, “piccolo e povero villaggio” della Basilicata verso il suo scranno, in uno scompartimento che oggi si direbbe executive o almeno business del silenzio e allora, in tempi pre-casta, era lo “speciale”, dovuto ai deputati, che portano in giro un medaglione d’oro di riconoscimento (oggi verrebbero scannati dai grillini). A Roma si pone subito come oggi il problema dell’alloggio, prima Sangiorgio va a dormire all’hotel Milano (oggi Colonna-Palace), poi la decisione di prendere un appartamentino, un “quartierino”, incappando così subito in una sequela di megere che ben prima di Airbnb avevano istituito fitto e subaffitto come core business.
Ecco dunque prima un quartierino lungo e stretto, inagibile, tipo oggi annuncio di loft “per amatori” – sempre difficoltoso l’alloggio a Roma – poi salendo di prezzo e standing da una signora segnalata da colleghi, “una piccolina con una vestaglia di casimiro” (cioè cachemire) “azzurro, guarnita di merletto bianco, coi capelli della fronte avvolti nelle cartine, e un profumo grossolano di muschio”. Una Pina Fantozzi umbertina, esperta in locazioni parlamentari, che rimpiange un onorevole Gagliardi che “non se ne sarebbe mai più andato, tanto vi si trovava bene, se gli elettori non gli avessero fatto il tiro di non rieleggerlo. Ma la vita politica è fatta di questi dolori!”. I deputati-peones si aggirano per la città che nel frattempo cresce attorno al nuovo Parlamento, e folti nascono gli ecomostri umbertini: il palazzo dei Boncompagni-Ludovisi principi di Piombino sulla piazza Colonna viene demolito nel 1889 e rimane per 25 anni un buco nero con polemiche e dibattiti molto contemporanei su destinazioni d’uso e riqualificazioni; a un certo punto pensano di farci pure una stazione ferroviaria, poi alla fine ci si risolve a costruire la galleria Colonna.
La Galleria Colonna a Roma
I Boncompagni nel frattempo usano la volumetria asportata per far costruire palazzo Margherita cioè poi oggi l’ambasciata americana, naturalmente al Fuksas dell’epoca, Gaetano Koch che sta facendo anche la Banca d’Italia (molto sbertucciato da Emile Zola). Non uso alla speculazione, il principe vende la tenuta alla Società Immobiliare per sei milioni, poi ci ripensa e la ricompra sperando di guadagnarci ancora di più. Intanto però il boom edilizio è terminato e lui si mangia il patrimonio suo e del figlio. Era insomma “il tempo in cui più torbida ferveva l’operosità dei distruttori o dei costruttori di Roma”, scrive D’Annunzio il 16 gennaio 1882 sul Corriere di Roma, con piglio da Italia Nostra, e prende per il culo pure i costruttori del monumento a Vittorio Emanuele (“c’è di tutto: una intera collezione di gabbie di uccelli, di panettoni architettonici, di spauracchi, di scenari in miniatura; uno sciupo, un cincischiamento miserabile di creta, di gesso, di cartapesta”).
Ma D’Annunzio, arrivato diciottenne a Roma, naturalmente è anche cronista mondano e politico e registra salotti e presenze, come il Messaggero oggi in “benvenuti a Roma” e “arrivederci”, e un posto d’onore ha il barone De Renzis (!), che non è un antenato del presidente del Consiglio odierno ma un militare, giornalista, drammaturgo, schermidore. Già protagonista della presa di Roma, nel 1870 aveva fondato il giornale Il Fanfulla, dunque datore di lavoro di D’Annunzio stesso, e poi deputato di lungo corso, molto trasformista. Aveva anche fatto un ottimo matrimonio con Edith Sonnino, sorella del futuro presidente del Consiglio liberale, celebre per aver riportato il bilancio in pareggio da ministro delle Finanze (che sogno, oggi, coi Fiscal compact). Tenevano salotto in casa, i De Renzis, al contrario del Renzi di oggi, mentre un altro presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, organizzava volentieri pranzi elettorali all’appena eretto Grand Hôtel, albergo di nascita prettamente politica. Il Grand Hôtel, oggi St. Regis, era stato voluto infatti dal premier marchese di Rudinì, che al Savoy di Londra si era imbattuto casualmente nell’inventore del lusso alberghiero, lo svizzero César Ritz, e con lui si lamentò molto perché la capitale non era ancora dotata di ospitalità all’altezza; lo svizzero si attivò e Roma ebbe il suo grande albergo (in consocietà con il Carlo Cracco d’epoca, Auguste Escoffier, che aveva una quota di minoranza; oggi sarebbero tutti indagati per traffico di influenze, forse).
I deputati ottocenteschi viaggiavano comunque leggeri; nella House of Cards umbertina c’è infatti sempre lo spauracchio della crisi di governo, alcuni disperano, molti sperano, in un rimpasto, un sottosegretariato, un ministero. I peones vengono richiamati dalle province, per votare. “Ogni giorno, da tutte le parti d’Italia, arrivavano deputati, con una piccola valigia: la valigia della settimana di crisi, dove la moglie mette quattro camicie, sei fazzoletti, le pianelle, una spolverina”, scrive sempre Matilde Serao.
“In quella grande caldaia politica bollivano tutti i temperamenti, e tutti i caratteri delle regioni italiche si manifestavano; i siciliani si davano a quella loro foga simpatica, mescolata d’ironia e di buon senso; i napoletani gridavano e gesticolavano; i romani aspettavano, attenti, temporeggiando”. Nella grande caldaia parlamentare, anche, temperature micidiali; prima delle arie condizionate e dei rifacimenti novecenteschi, maratone sudoripare peggio che per le Cirinnà; nel 1893, nel pieno del dibattito parlamentare sullo scandalo della Banca romana, particolarmente lungo e defatigante, vengono mandati infatti commessi con idranti a spruzzare d’acqua fredda il tetto superconduttore ricoperto di zinco; sotto, i deputati sventolano ampi ventaglioni, come si vede nei disegni di Dante Paolocci pubblicati sull’Illustrazione italiana.
L’aula semicircolare (“l’emiciclo”) era infatti nota per essere gelida d’inverno e rovente d’estate; era stata disegnata dal poco conosciuto ma pratico ingegner Comotto, in fretta e furia, in un anno dopo l’unificazione, ricoprendo tipo abuso edilizio un cortile di palazzo Montecitorio, prima appartenuto ai soliti Ludovisi, principi del real estate. Per avere i definitivi ampliamenti bisognerà aspettare il 1918, quando l’architetto palermitano esperto in design balneare aggiungerà il mammozzone liberty posteriore (con lungo corridoio detto poi il Transatlantico, appunto). Mentre al Senato stavano più freschi; erano anche più furbi. “A questo Senato non vuoi più andarci!”, dice la nipotina protorenziana al nonno in “Illusione”, altro romanzo parlamentare di De Roberto; il Senato era passato pure da Torino a Firenze a Roma, e per pura coincidenza mantenendo lo stesso brand, palazzo Madama – la madama torinese era però Maria Cristina di Francia, vedova di Vittorio Amedeo I di Savoia e reggente del ducato in nome del figlio Carlo Emanuele II, mentre la madama romana era Margherita d’Austria che, rimasta vedova del primo marito Alessandro de’ Medici, sposò in seconde nozze Ottavio Farnese e soggiornò a lungo nel palazzo.
I senatori, che erano uomini di mondo, avevano meno aspettative dei deputati, ed essendo prescelti e non eletti erano sottoposti a casting che non sempre andavano a buon fine. Ambasciatori, vescovi, nuovi ricchi con 740 di almeno “3.000 lire l’anno”, che pensandoci bene era un modo assai smart di invogliare a pagar le tasse: erano diverse le categorie in cui si pescava per la Camera alta, ma in generale di diventare senatore peones non tanti avevano voglia: non ce l’aveva naturalmente il principe di Salina, rivale letterario degli Uzeda di De Roberto, che sottoposto a provino da parte del cavaliere Chevalley educatamente rifiutava nel “Gattopardo”; mentre lo zio di Tomasi di Lampedusa, Pietro Tomasi della Torretta, già ambasciatore a Londra, fu l’ultimo presidente del regio Senato, fino al referendum del 1946. Fu eletto anche nel nuovo, perché durante il fascismo si era comportato benissimo.
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