Padri
Il giorno in cui i papà separati vanno dai loro figli
Ma che giacca ti sei messo? Sembri una cassettiera…” ride divertita dietro i verdi occhi selvatici. Se ho la camicia fuori dai pantaloni, se ho una scarpa slacciata, se ho una maglia troppo sgargiante, qualsiasi cosa mi trasformi involontariamente in un clown, ride la madre di mio figlio. “Con tutte le belle giacche che hai… proprio non ti sai vestire”. Va bene, la giacca non sarà un granché, ma tiene caldo e para dal vento. E questo è l'importante, per chi va in moto. Da settembre a oggi ho fatto 3000 chilometri. Quasi tutti tra il Quartiere Trieste, dove vivo io, e il centro di Roma, dove vive lui. Notte e giorno, sole e pioggia, ogni volta che la mia prostata ha sobbalzato sui sanpietrini sconnessi di Piazza Venezia, ogni volta che mi sono inzuppato e le nocche sono diventate rosse dal freddo, ogni volta che ho risposto paziente alle domande invadenti di un pediatra, ogni volta che mi sono cambiato la camicia sporca di mela grattugiata nel bagno di un bar prima di un appuntamento, l’ho fatto per te figlio mio, re dei tuoi occhi azzurri.
Ma tu questo lato del vero non puoi vederlo, sotto i cieli noncuranti. Ma quanti sono i lati del vero? Almeno tre: il mio, quello della tua mamma, e il tuo di certo. E molti altri, ma li vedrai coi tuoi occhi quando tu sarai grande, e io vecchio. Ma oggi è giovedì, sì, giovedì, come in quel meraviglioso film con Walter Chiari che mi fa piangere ogni volta che vedo la scena finale quando il figlio riconsegnato all'istitutrice torna indietro per dare di slancio l'ultimo bacio a quell’irresistibile fallito di padre. E’ giovedì ti dico, che nei tuoi giorni fatti di pannolini e Peppe Pig non vuol dire niente, ma per me vuol dire tutto. E’ il giorno in cui i padri separati vanno dai loro figli e io sto venendo da te. E al diavolo le discussioni inutili con la mamma e gli scontrini delle farmacie e le parcelle degli avvocati. Non c’è tempo da perdere, dobbiamo uscire. Dico a te ragazzo, su, infilati le tue Nike numero 21 e dammi la mano. Fuori c’è il mondo, non facciamolo aspettare. Ci sono buche e marciapiedi sconnessi da saltare col passeggino, torme di turisti da evitare, gelati da mangiare sulle panchine e piccioni da inseguire nelle piazze. Dove vuoi andare oggi? All’orto botanico a tirare pane secco a quelle anatre in quella putrida pozza? A Villa Borghese a esplorare tutti i limiti della democrazia nel cedere dopo pochi minuti il turno dell’altalena dopo mezzora di attesa? O a Castel Sant’Angelo, a carezzare i cavalli della polizia? Vuoi vedere le nutrie che si buttano nel Tevere? O difendere la nostra merenda dalle picchiate dei gabbiani della Luftwaffe? Sì, lo so, non è un granché, possiamo fare di meglio. Tu pensa a crescere sano e forte, e vedrai.
Oggi è giovedì, non te lo dimenticare. Tra poco suonerò il campanello e sentirò la tua voce argentina dietro la porta: “Papà!”, poi sentirò lo scalpiccio dei tuoi passi corti dietro la porta. La mamma mi darà i pannolini per il cambio e la pasta senza fenexiethanolo come vuole la pediatra omeopatica, mi darà lo yogurt bianco con diffidenza pensando che lo mangi io invece di dartelo pur di non inzaccherarci tutti (il che è vero solo in parte), poi si raccomanderà di non farti prendere freddo, di evitare i luoghi affollati, di non prendere il bus, di tornare puntuali, di farti il bagno ma senza riempire la vasca troppo come faccio sempre, di darti la cena senza dimenticarmi niente e io la rassicurerò e ascolterò con tutta la concentrazione di cui sono capace ma qualcosa sono certo di dimenticare, anzi, me la sono già dimenticata. Perché sono impaziente di uscire. Di vederti ridere con quei dentini separati mentre scendi dallo scivolo, d’insegnarti nomi di cose a te sconosciute e per le quali provi uno stupore insensato, di farti assaggiare sapori ignoti e respirare profumi inebrianti. Oggi è giovedì, e faremo tutto questo, io e te. Poi torneremo a casa. E dopo aver mangiato e giocato sul tappeto e guardato Masha e Orso, quando inizierai a toccarti le orecchie per il sonno, abbasserò le luci e ti prenderò in braccio e stonato come sono ti canterò Piazza Grande. E dopo un po’ tu chiuderai gli occhi proprio mentre canto la strofa A modo mio, avrei bisogno di carezze anch’io.
Poi ti metterò nel letto adagiandoti piano piano e in casa si sentirà solo il tuo respiro, come un soffio caldo e invisibile di vita. Poi tornerà la mamma, mi alzerò dal divano, mi rinfilerò la camicia gualcita nei pantaloni, le dirò che sei stato un angelo - perché lo sei - e ci saluteremo con poche parole, perché nella contorta algebra femminile un pessimo compagno è uguale a un pessimo padre. Dopo una fredda buonanotte scenderò in strada a cercare la moto. Correrò nelle strade vuote e il vento disperderà l’ultimo tuo tepore che mi è rimasto addosso. Arrivato a casa verrò sepolto dalle mail e da tutte le cose che mi sono dimenticato di fare oggi. Mi farò un gintonic davanti a un apocalittico tigì, pensando che ne succedono di cose di giovedì nel mondo. Finché crollerò sul divano senza togliermi neanche quella brutta giacca piena di tasche. In una di quelle tasche domani troverò una tessera del memory o delle bolle di sapone e mi ricorderò che ieri era giovedì. E sorriderò, pensando che domani è sabato. E questo sabato tocca a me, mio re dagli occhi azzurri.
Filippo Bologna è scrittore e sceneggiatore
Il Foglio sportivo - in corpore sano