Il tappo statalista
Ecco. Non voglio negare che un’idea di giustizia ci deve essere per guidare gli affari dell’uomo, ma perdio, ogni idea specifica partorita in un’epoca specifica presto o tardi non sarà altro che un turacciolo ficcato nel collo di una bottiglia poggiata sopra una stufa bollente, come facevamo a scuola da ragazzi per sentire il botto. Il calore che fa scoppiare la bottiglia e bagnare le mutande della maestra è l’insieme del lavoro e degli affari dell’uomo, che devono andare avanti e che faranno scoppiare qualsiasi cosa ci mettiate sopra per rinchiuderli da qualche parte, ma se li mettete al posto giusto e lasciate uno spiraglio, quel calore farà viaggiare un treno merci”, cioè bagnerà le mutande della maestra, si potrebbe concludere. Questo passaggio di “Tutti gli uomini del re”, del 1946, capolavoro di Robert Penn Warren, è la sintesi, nel linguaggio tipico del Sud degli Stati Uniti, di ciò che il mondo conservatore americano covò negli anni del New Deal e del consenso sul comunismo, intesi come le due facce della stessa medaglia, per dirla con Richard M. Weaver (1910-1963), un conservatore del Sud, che dette un contributo importante alla lotta dei conservatori e dei liberali americani contro ciò che definivano l’eccessivo ottimismo sulla natura umana nutrito dai progressisti del New Deal (e dai comunisti), che ritenevano l’uomo talmente malleabile da essere pronto in qualsiasi momento ad accettare ciò che gli veniva “offerto” dal governo, dagli “ingegneri dell’anima” (Christopher Hitchens, citato da Edoardo Rialti su queste colonne), per migliorare la sua stessa natura. Illusione fatale, diceva lo stesso personaggio del romanzo di Penn Warren: “L’uomo è concepito nel peccato e nasce nella corruzione, poi passa dal puzzo delle fasce al fetore del sudario. C’è sempre qualcosa”.
E così, solo bagnando le mutande della maestra, cioè del governo, dello stato, l’individuo si fa strada nella vita, da solo, e ciò che muta nella vicenda umana è un mutamento naturale, organico, è il vero progresso che non rinnega la tradizione. Weaver scrive questi concetti in molti articoli e in uno dei suoi libri, quello fondamentale, “Ideas Have Consequences” (1948), un classico della cultura conservatrice americana degli anni della Guerra fredda e della battaglia contro le conseguenze del New Deal. Perciò il lavoro dell’uomo farà scoppiare la bottiglia delle imposizioni, delle costrizioni, degli impedimenti, di tutto ciò che imbriglia la natura dell’uomo che è “un meccanismo auto-operante” e, poiché “l’uomo è un animale razionale, adeguato alle proprie necessità, è ben in grado di elevare la propria razionalità al rango di una filosofia”, scrive sempre Weaver. E’ il vero progresso umano, un progresso puramente individuale, sganciato da ogni intervento esterno che promette felicità e che, invece, finisce per alterare l’equilibrio naturale della società, fondato sulla diseguaglianza: “L’eguaglianza è un concetto disorganizzante perché le relazioni umane significano ordine. L’eguaglianza produce un ordine senza un disegno; esso tenta un’irreggimentazione senza significato e senza profitto di ciò che è stato ordinato da tempo immemorabile dallo schema stesso delle cose”. In sostanza, il profitto è il risultato del libero agire dell’individuo nella società e la religione deve avere il compito di dare ordine morale alla società, mettendo da parte l’inefficace, e perciò pericoloso, “blando umanitarismo” che sembra essere il suo compito attuale, un umanitarismo che, affiancandosi all’intervento livellatore dello stato, produce effetti destabilizzanti sull’ordine sociale.
Così enunciato, il pensiero di Weaver si inquadra bene nella cultura conservatrice del sud, presentandone tutti quei caratteri che lo distinguono dal conservatorismo americano del tempo. Eppure, il libro di Weaver fu considerato da Frank S. Meyer, un altro esponente di spicco del pensiero conservatore di quegli anni, “la fons et origo del movimento conservatore contemporaneo negli Stati Uniti”. Non si trattava di un semplice elogio, ma della constatazione che le valutazioni che Weaver compiva della società americana del tempo, sotto gli effetti delle misure del New Deal e dell’influenza internazionale del comunismo, poggiavano sull’idea basilare che il fondamento della civiltà – di quella occidentale, per lo meno – consistesse nella differenza e nella gerarchia, e non sul rampante egualitarismo, sul culto delle masse (del pueblo, per dirla con Papa Francesco) e sul livellamento sociale. Le idee di Weaver, da questo punto di vista, non si distinguevano affatto dal pensiero conservatore generale e da quello liberale (non liberal) del tempo. In fondo, Weaver non si allontanava molto da ciò che Reinhold Niebuhr aveva scritto qualche anno prima, nel 1944, nel famoso “The Children of Light and the Children of Darkness”: “La fiducia del moderno idealismo laico nella possibilità di una facile soluzione della tensione tra individuo e comunità, o tra classi, razze e nazioni deriva da una visione troppo ottimistica della natura umana. Questa stima troppo generosa dell’umana virtù è intimamente legata a un’erronea stima della qualità umana”. Da questo punto di vista, la filosofia del New Deal (e del comunismo) ambivano allo stesso fine: l’egualitarismo come livellamento sociale, la massa come sostituto dell’individuo, l’ottimismo ingegneristico come soluzione definitiva dei problemi della società.
Russell Kirk, nume tutelare del conservatorismo del tempo, definì un altro importante libro di Weaver, “Visions of Order: The Cultural Crisis of Our Time” (1964), un atto d’accusa contro “il ‘presentismo’, lo scientismo e il democraticismo che stanno sovvertendo il vecchio, alto ordine della nostra civiltà e della nostra umana dignità”. E, in quegli stessi anni, Frederick von Hayek, già stabilmente presente negli Stati Uniti, pubblicava un libro fondamentale dal titolo che non aveva e non ha bisogno di alcun commento: “The Counter-Revolution of Science: Studies on the Abuse of Reason” (1952). Benché in un altro suo breve libro, “Why I Am not a Conservative”, Hayek prendesse le distanze dal pensiero strettamente conservatore del tempo, tuttavia non si può negare che conservatori e liberali (non liberal) erano, per molti versi, sulla stessa lunghezza d’onda.
Per molti versi, ma non in tutto. Weaver era contro il dominio del denaro, che aveva pervaso tutto l’occidente e la sua cultura e tradizione, contro il secolarismo liberale che aveva cancellato molti valori della società organica del passato e creduto che “la semplice diffusione della ricchezza [fosse] la risposta alle sfide della vita”. Sia chiaro: non era contro il capitalismo, esito magnifico del lavoro e dell’ingegno individuali, ma contro la devalorizzazione della tradizione portata dal capitalismo per mezzo del culto dell’efficientismo. Insomma, anche una società moderna, liberale, capitalista non deve prescindere da “alcune cose che non esistono soltanto in un determinato momento e [da] certe virtù che dovrebbero essere coltivate a prescindere dal tempo in cui uno si trova a nascere. Il peggiore presentismo afferma che una filosofia non può essere praticata perché quella filosofia si colloca nel passato e il passato ormai non c’è più”. Lo scriveva in un saggio del 1952, poi posto all’interno di “The Southern Essays of Richard M. Weaver” (1987). Ma, in fondo, che cosa distingueva il tradizionalismo di Weaver da ciò che diceva Hayek circa il valore dell’individuo, eredità del mondo greco e romano, cioè “il rispetto dell’uomo singolo in quanto uomo, (…) il riconoscimento che le sue opinioni e i suoi gusti sono al di sopra di tutto nella propria sfera, per quanto ristretti possano esserne i limiti, e il credere desiderabile che l’uomo possa sviluppare i propri doni e le proprie inclinazioni individuali”. Lo scriveva, Hayek, in quel formidabile, intramontabile libro che è “The Road to Serfdom” (1944). Insomma, le virtù di cui parlava Weaver non sono le virtù di cui parlava Hayek? La centralità dell’individuo.
Profondamento ancorato agli ideali del sud, Weaver sosteneva che l’idea della stasi non inorridiva i sudisti, perché forniva il terreno ideale per identificare le cose. L’industrialismo era la base di un forsennato mutamento che squilibrava gli assetti individuali. Qui l’individualismo weaveriano si dissociava in modo chiaro dall’individualismo liberale di Hayek. Eppure, qualcosa li univa. Non solo la contrapposizione al New Deal e al comunismo, ma qualcosa di positivo, di profondamente legato alle origini della nazione americana e al suo background di libertà. In un dibattito all’Università di Chicago, nel 1955, Weaver aveva definito con estrema chiarezza il suo pensiero. Egli riteneva che il conservatorismo dovesse configurarsi come un movimento di idee a favore di una concezione della società costituita da molti centri di autorità e di influenza, che “[…] nascono più o meno naturalmente, spontaneamente, in risposta a ciò che alla gente piace fare; e, sebbene essi non siano generati dallo stato, sono da esso protetti come legittime espressioni e legittime attività. Penso che questo conservatore che descrivo sia profondamente convinto della necessità di rispettare la personalità umana. Egli considera la personalità umana come un’entità etica, e pensa che qualsiasi limitazione a essa da parte di qualcosa come il controllo o l’interferenza dello Stato sia un atto ingiustificato”. Lo scriveva in un articolo del 1955, poi inserito in “In Defense of Tradition” (2000).
Non solo Weaver riteneva che conservatorismo e liberalismo facessero parte della stessa famiglia americana delle libertà; “sia l’uno che l’altro – affermava Weaver – credono nell’inviolabilità dei diritti individuali, soprattutto da parte dello stato. (…) Ambedue credono che vi sia un ordine delle cose che si prende largamente cura di se stesso se lasciato solo. Vi sono leggi che funzionano in natura e nell’uomo con le quali è cosa buona non interferire”. Altrimenti, subentra la disorganizzazione, la confusione, lo scontro. Weaver, per questo motivo, giudicava i liberals “liberali totalitari”, “primi cugini” dei comunisti, proprio per la loro volontà di modificare il libero corso delle attività umane attraverso l’intervento dello Stato onnipotente. In “Conservatism and Libertarianism”, pubblicato nel 1960, Weaver concordava con Ludwig von Mises sul concetto di prasseologia, termine che indicava il funzionamento delle cose in virtù della loro intrinseca natura. Qui conservatorismo e liberalismo si caratterizzavano per una solidissima base comune. La reazione liberal all’emergere di questo movimento di idee conservatrici e liberali contro il New Deal fu di ironica sottovalutazione, ma alcuni si impegnarono (il solito Arthur M. Schlesinger Jr.) a considerare il conservatorismo come estraneo alla stessa filosofia americana, al “nuovo individualismo” sociale, cioè innescato e rivitalizzato dalla presenza dello stato (Dewey), di cui si faceva portavoce il movimento liberal newdealista. Tuttavia Weaver fu tetragono nel ribadire il suo pensiero: “Il liberalismo del Diciannovesimo secolo era sinonimo di individualismo e libertà. Esso insegnava la minima interferenza da parte dello stato e la massima opportunità per l’individuo di fare ciò che fosse possibile per se stesso. (…) L’individuo è più felice e la società più creativa quando l’individuo è più libero nel condurre i propri affari”.
Invece il liberalismo, secondo Weaver, con il suo totale permissivismo imbottito di diritti e privo di doveri, ha introdotto una visione cosmologica (è il termine usato da Weaver) che deifica l’uomo, i cui desideri, perciò, sono irrinunciabili, perché convalidati dallo stato come bisogni assoluti. Per Weaver, invece, l’individuo è “una forza che si oppone ai governi, alle istituzioni e alle circostanze che vorrebbero distorcere la sua intrinseca natura. La nostra vera etica e politica si fondano sull’idea della sacralità della persona. Non è qualcosa per la manipolazione ingegneristica. Ma in tutta la letteratura del liberalism, del socialismo e del comunismo si leggono attacchi contro la persona, contro l’essenza stessa dell’individuo”, scriveva sempre in “Conservatism and Liberalism”. La battaglia dei conservatori e dei liberali andò avanti per tutti gli anni 50, in profondo disaccordo anche con il repubblicano Eisenhower, le cui politiche non si differenziarono nella sostanza dall’impostazione newdealista, che così profondamente si era radicata nel comune sentire degli americani. Solo con la candidatura alle presidenziali di Barry Goldwater nel 1964, il fronte conservatore e liberale ebbe finalmente un esponente che incarnasse le idee per le quali esso si era battuto per quasi tre decenni: il “fusionismo”, sempre invocato da Meyer, aveva funzionato, almeno in parte.
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