Le generalizzazioni non funzionano con la storia, figurarsi con l'attualità
Fu temerario o visionario il giovane Vladimir Nabokov, già patologicamente controcorrente, quando predisse, nel 1926, che “l’esageratamente noioso Mr. Ulianov” nel 2016 avrebbe dovuto essere inserito a forza, in qualche nota a piè di pagina, inteso come Lenin? All’epoca, dall’al di là (inteso tanto come concetto geografico quanto spirituale), Vladimir Ilich Ulianov detto Lenin, sebbene imbalsamato ed esposto sulla Piazza Rossa dal 1924, esercitava ancora un’influenza senza rivali su quasi un milione di espatriati russi costretti alla diaspora dalla Rivoluzione d’Ottobre e dalla successiva guerra civile. “Delle generalizzazioni” è una conferenza serale del 1926, tenuta da Nabokov a una riunione del Circolo Tatarinov-Aikhenvald (ora pubblicata per la prima volta in inglese). Nabokov si rivolgeva ai suoi compagni émigrés su un tema tra quelli loro più dolorosamente cari: che cosa significava il fatto che la loro Russia era irredimibile e come avrebbero potuto dare un senso al loro esilio?
Nabokov rigetta l’idea di rotture assolute nella storia, e questo in un tempo in cui, a seguito della Prima guerra mondiale, interi imperi come quello russo avevano cambiato governo, nome e forma di stato. In contrasto con le leggi di bronzo definite dalla Repubblica dei Soviet e con il Declino dell’Occidente di Oswald Spengler, per Nabokov la lezione della storia europea è il carattere ciclico del tempo e delle tendenze, e sopra tutto la fondamentale incapacità del presente a comprendersi storicamente. Nabokov indirettamente sostiene che dietro la visione storica pessimista, con i suoi lamenti sulla nuova ondata di barbarie, agisce solo un umore da musoni, forse impastato di una inciprignita mentalità reazionaria, che disconosce di proposito le ultime mode (nello sport nelle arti nel modo di vestire) come ricettacoli di decadenza invece che come semplici segni superficiali, capricciosi, effimeri. Lo scrittore era risentito contro la dominanza del passato sul presente: la sua prospettiva, se ce ne sia una, è orientata al futuro, guarda al futuro lettore, allo storico futuro e perfino al futuro biografo.
Il balcone dell'hotel Palace di Montreux dove Nabokov scriveva e giocava a scacchi
Questo modo di vedere le cose, che potremmo definire “poetica del futuro anteriore”, tratta il presente come fosse ricordato o memorializzato. Nel racconto Guida di Berlino (1925) il narratore di Nabokov immagina “un eccentrico scrittore berlinese, negli anni Venti del Ventunesimo secolo, afferrato dal desiderio di ritrarre il nostro tempo”: per lui “ogni cosa, ogni dettaglio sarà ricco di valore e di significato”. Per i russi émigrés degli anni Venti, gettati da Trotzkij nella pattumiera della storia, l’idea di essere un giorno finalmente vendicati era di conforto. Dopo tutto, una redenzione critica postuma era stata a lungo il porto di salvezza immaginato da artisti poco apprezzati, disponessero o no di talento. Ma “Delle generalizzazioni” non era tanto un manuale di self-help per esiliati quanto un manifesto della poetica di Nabokov. La sua apologia degli anni Venti – bisogna ricordare che era nato nel 1899, quelli erano in ogni senso i suoi anni Venti – evita i miti compiacenti degli Anni Ruggenti e della Berlino della Repubblica di Weimar. Piuttosto, Nabokov fa della fortuna e delle combinazioni casuali la caratteristica capace di definire la sua produzione dei primi tempi. Sebbene da un aristocratico senza Patria ci si possa aspettare che faccia dell’indipendenza una virtù, la perorazione di Nabokov in favore di un ottimismo senza confini era una scelta consapevole per contrastare l’effetto paralizzante e disperante del dolore e del senso di una perdita, della sua stessa eredità perduta, del suo futuro abortito, di suo padre assassinato. Un personaggio di Nabokov, proprio di questi anni, scrive a una sua ex amante in Russia che in esilio è “perfettamente felice”: “I secoli passeranno e gli scolari sbadiglieranno sui tormenti della nostra epoca; tutto passerà, ma… resterà la mia felicità, nel tepore di un riflesso di lampione… nei sorrisi di una coppia che balla, in tutto ciò di cui Dio tanto generosamente circonda la nostra solitudine”.
Con tutto il suo risentimento antisovietico e il suo odio per il filisteismo, non si può immaginare Nabokov che si trascina nei dintorni dell’eremo di Croisset, chiuso nelle sue torri d’avorio, circondato dalla famosa marea di merda che saliva verso Flaubert. Lo si penserà invece con una pala in mano (è la merda che sta rimuovendo o la torre?). Dovunque possibile Nabokov combatteva il cattivo umore dell’esiliato. Nella Guida di Berlino un espatriato dice a un altro: “Penso che il senso della creazione letteraria sia in questo, che gli oggetti più ordinari sono ritratti come saranno riflessi nello specchio gentile dei tempi futuri; per trovare negli oggetti che ci circondano la fragrante tenerezza che solo la posterità saprà distinguere e apprezzare in quel tempo molto lontano in cui ogni dettaglio della nostra vita quotidiana diventerà squisito ed eccitante per sua sola virtù. Quel tempo in cui un uomo che potrebbe indossare la più ordinaria giacca dei nostri giorni sarà pronto e agghindato per un elegante ballo in maschera”.
© Luke Parker / The Times Literary
Supplement / News Syndication
(traduzione di Giuliano Ferrara)
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