Senza vernici e senza colori: uno scorcio di “Triumphs and Laments”, 550 metri sui muraglioni del Tevere con le gigantografie di Romolo e Remo, della Lupa, dell’estasi di santa Caterina, fino a Gariba

L'epopea della polvere

Giuseppe Fantasia
Ombre gigantesche, ottanta figure emergono grazie a una tecnica di pulitura dello sporco accumulato negli anni. E’ l’imponente opera di William Kentridge sull’argine del Tevere.

Nella sua fine, il suo principio. Le sponde del Tevere sono sporche e percorse solo da coraggiosi ciclisti e atleti dell’ultima ora che corrono fra rifiuti e pantegane? Le pareti lungo il fiume sono scure e rovinate e l’idea di una possibile Paris plage (come fanno da anni i francesi sulla Senna) è impensabile, figuriamoci se realizzabile? A dare uno scossone a Roma, a questa città consolata dalla sua bellezza, ma martoriata ogni giorno dai continui problemi e dagli scandali, dagli eccessi e dalle troppe cose che non funzionano, ci ha pensato il sudafricano William Kentridge. Classe 1955, questo artista originario di Johannesburg e noto principalmente per i suoi disegni e incisioni, oltre che per i suoi film di animazione creati da disegni a carboncino, ha immaginato, pensato e realizzato “Triumphs and Laments”, “un progetto per Roma”, come recita il claim, voluto per dare un tocco contemporaneo all’arte moderna e antica della Città eterna. Si tratta di un’imponente opera sui muraglioni del Tevere con un fregio lungo mezzo chilometro (cinquecentocinquanta metri, per l’esattezza) tra ponte Sisto e ponte Mazzini, una zona già ribattezzata “Piazza Tevere” scelta per raccontare la grande storia di Roma con ottanta figure alte tra i dieci e i tredici metri che emergono come grandi ombre danzanti, senza colori né vernici, ma solo grazie a una tecnica di pulitura dello sporco accumulato negli anni sul travertino bianco.

 

“Le pareti del Tevere sono molto scure e il travertino è grigio a causa dell’inquinamento e dei microrganismi che ne colonizzano la pietra”, ha spiegato l’artista al Foglio nei giorni del suo tour de force romano, tra decine e decine di appuntamenti, sopralluoghi, incontri con il pubblico e conferenze nei principali spazi museali della città. “Abbiamo ritagliato una sagoma in plastica raffigurante il disegno e posizionata sulla parete per poi ripulire il tutto con un forte getto d’acqua a pressione su tutti gli spazi liberi. Togliendo la plastica, è restato il muro pulito attorno alla sagoma con al centro soltanto una silhouette scura con la forma precisa. E’ stato come cancellare un disegno per realizzarlo”. Si deve poi all’americana Kristin Jones l’idea di aver scelto un posto come questo nel cuore della città per realizzare, come ha detto lei “un’opera a Roma su Roma per la creatività contemporanea”, un’opera di street art di proporzioni gigantesche per far rinascere quella parte del fiume e per farla tornare a essere una zona attiva non solo d’estate, quando viene selvaggiamente invasa da antiestetici gazebo in plastica bianchi, illuminati da luci al neon che solo a guardarle fanno venire il mal di testa, pochi metri quadrati dove c’è spazio soltanto per la vendita di alcolici, crêpes e salsicce non proprio in quest’ordine, condite da musica pop a tutto volume. Spazio all’arte lungo il Tevere, dunque, e non solo a set milionari (ogni riferimento all’ultimo James Bond, “007 Spectre”, e alla corsa in macchina di Daniel Craig lungo quelle banchine non è puramente casuale).

 


William Kentridge. Nato nel 1955 a Johannesburg, è noto principalmente per disegni e incisioni


 

“L’idea di trionfo si presta bene alla città di Roma e alla sua storia, ma c’è anche il suo opposto, la sconfitta, perché a ogni trionfo ne corrisponde una”, ha aggiunto Kentridge, protetto dal suo inseparabile Panama bianco che finisce col dare quel tocco di eleganza in più alla sua persona. “Visivamente e storicamente, sono sempre stato molto interessato a questa sovrapposizione, ma in questo caso, più che mai, ho voluto mettere insieme la storia”. “La mia speranza – ha più volte ribadito – è che le persone , mentre si troveranno a camminare lungo questi cinquecento metri, possano riconoscere immagini di una storia familiare ma anche reinterpretata. Tutto questo rifletterà la maniera complessa nella quale la città si rappresenta, perché cercando il senso della storia a partire dai suoi frammenti, possiamo trovare un trionfo in una sconfitta e una sconfitta in un trionfo”.

 

Nell’iniziare questa suggestiva passeggiata storica, dunque, circondati a destra e a sinistra dalla bellezza degli alberi, degli edifici e dei monumenti del Lungotevere, vi imbatterete nella gigantografia di Remo ucciso per mano di suo fratello Romolo e, subito dopo, nella forza di Ercole che vince su Caco. La Vittoria alata che si spezza e l’effigie di Garibaldi che ha unito l’Italia sono lì che vi fissano con una certa insistenza e la bandiera della Croce Rossa segue all’immagine di Pasolini riverso a terra, alla Lupa con i gemelli e all’estasi di santa Caterina del Bernini. Una delle immagini simbolo preferite da Kentridge è quella in cui Marcello Mastroianni bacia Anita Ekberg nella “Dolce vita” di Fellini, che lì è reinterpretata a suo modo perché i due personaggi non sono immersi nella Fontana di Trevi (“impossibile da realizzare su quelle superfici”), ma in una vasca da bagno trainata da un centurione. Quell’iconografia dell’arte antica romana, o dedotta dalla storia della chiesa, e quelle immagini che risalgono alla prima èra classica e che arrivano fino ai nostri giorni, si susseguono una dopo l’altra e a volte si ha come l’impressione che esse non siano altro che lo “srotolamento” che Kentridge ha fatto al tanto amato fregio della colonna Traiana, poi ricollocato lungo la sponda del Tevere.

 

Uno spettacolo suggestivo, non c’è che dire, promosso dall’Associazione Tevereterno e realizzato interamente con fondi privati, che ha avuto il suo culmine nella serata inaugurale, iniziata con una performance ideata proprio da Kentridge con musiche originali del compositore sudafricano Philip Miller e Thuthuka Sibisi, alla quale hanno partecipato più di cento tra musicisti e comparse. Emozionanti sono state le danze di ombre e le due processioni musicali – una come espressione dei trionfi, l’altra delle sconfitte – che convergendo sullo sfondo del fregio hanno diffuso voci e strumenti, oltre a una musica di esodo, di tragedia e di speranza ispirata a melodie liturgiche del compositore italiano tardo-rinascimentale Salomone Rossi che ha incorporato suoni tradizionali del sud Italia con le parole del poeta Rainer Maria Rilke e con canzoni e canti provenienti da confini extraeuropei.

 

In occasione poi di questo grande evento, al museo Macro di via Nizza è stata inaugurata un’esposizione (visitabile fino al 2 ottobre prossimo) dedicata proprio all’artista sudafricano e curata da Federica Pirani e Claudio Crescentini. A essere esposti su un allestimento ideato ad hoc per il museo, troverete più di ottanta suoi lavori, fra cui spicca un grande fregio su carta, inedito, lungo oltre sei metri, che riproduce proprio l’intera sequenza delle monumentali figure realizzate sull’argine del Tevere. Non mancano, poi, i capolavori presentati alla Biennale di Venezia e i bozzetti preparatori di “Triumphs and Laments”, ideati a Johannesburg e a Roma, riuniti per la prima volta in una sorta di unica e nuova opera. Tra le tante iniziative artistiche e culturali che lo hanno visto coinvolto nei giorni romani, degno di nota il focus ospitato al museo Maxxi che ha coinvolto un pubblico molto numeroso nella visita guidata e gratuita per approfondire il suo lavoro, in particolare le sue sei opere che fanno parte della Collezione permanente del museo: dal grande arazzo di “North Pole Map” – in cui grandi personaggi in cammino evocano il viaggio della vita ma anche le migrazioni dei popoli – a “Preparing the flute” – che ripropone in scala la scenografia del “Flauto Magico” di Mozart diretto da Kentridge e già presentato al Teatro dell’opera di Bruxelles – dalla video installazione “Zeno Writing” che si ispira al famoso personaggio di Italo Svevo ai carboncini “Flagellant” e “Untitled” dedicati a una riflessione sul corpo fino a “Cemetery with Cypresses”, un carboncino ispirato al “Ritorno di Ulisse in patria” di Claudio Monteverdi, in cui il ritorno dell’eroe acheo è ambientato in un ospedale di Johannesburg.

 

“Il vero progetto mastodontico è stato quello di ottenere i permessi”, ha precisato giustamente Kentridge in quelle sale luminose progettate da Zaha Hadid e “dirette” da una Giovanna Melandri più in forma che mai. “E’ stato un progetto lungo e complesso, multidisciplinare e non-profit, che ha richiesto un anno di lavoro dopo dodici anni di studio”, ha aggiunto. Il sogno di Kentridge è divenuto realtà: è riuscito a confrontarsi con Roma come mai nessuno prima di lui, in maniera multidisciplinare e multimediale, in un dialogo in cui la sua arte e la sua cultura si sono confrontati con la grande storia millenaria di questa città, con le sue iconografie, con i suoi protagonisti e con l’ambiente, per l’occasione rivissuto e riletto con una grande forza creativa e intellettuale. La sua è stata una pittura per svelamento, volta a liberare quegli eroi, quei fasti e nefasti che solo oggi ci rendiamo conto che, a ben vedere, sono sempre stati lì a osservare e a combattere nei secoli. Purtroppo però, come scriveva Henry James, “a Roma il tempo si disintegra”, e anche questo progetto di Kentridge, probabilmente il più ambizioso della sua carriera, avrà vita breve. Alla base di esso, infatti, c’è il concetto dell’effimero: “Dopo cinque, al massimo otto anni, i microrganismi ricresceranno e l’inquinamento cancellerà i segni”, ci ha spiegato l’artista. “La parete tornerà ancora una volta scura come una lavagna, pronta per essere riscritta e riutilizzata nuovamente”. Cosa succederà dopo? Non osiamo immaginarlo, ma lui, per ora, ci ha offerto come conforto, una frase di Rilke: “Vivere nella piena e non avere patria dentro al tempo. Questa è la nostalgia”. 

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