La grande isteria
Le parole che si rivelano trappole. Fu questa la più straordinaria intuizione di Allan Bloom, lo straordinario dandy interprete dei classici all’Università di Chicago. “The Closing of the American Mind”, il libro più noto di quest’intellettuale ebreo figlio di due assistenti sociali di Indianapolis, raggiunse quasi il milione di copie vendute. Nelle sue pagine Bloom accusava l’establishment accademico di aver snaturato gli studi superiori “con l’imperativo di promuovere l’eguaglianza, di eliminare il razzismo, il sessismo, le guerre, e di disconoscere l’autorità in nome di una verità morale superiore”. Con la “chiusura della mente americana” mostrò come la cultura statunitense stesse vivendo una crisi profonda dietro un’apparenza di liberazione e creatività. Fu il più poderoso atto d’accusa contro l’università americana. Adesso esce il seguito, “The Closing of the Liberal Mind”, a firma di Kim R. Holmes. A conferma di quanto raccontato nel libro, qualche giorno fa lo Springfield College nel Massachusetts ha cancellato un corso che per dieci anni aveva avuto un notevole successo: “Uomini in letteratura”. Le femministe del campus erano irritate e il docente di quel corso, Dennis Gouws, si era visto anche appendere manifesti antistupro sulla porta dell’ufficio. Gouws è stato convocato dal direttore delle risorse umane di Springfield e sottoposto a un’arringa da un gruppo di funzionari del college. Il corso è stato poi cancellato con l’accusa di “sessismo”. Perché non ha fatto la stessa fine il corso “Women and Literature”?
Laura Kipnis, docente alla Northwestern University, ha scritto un saggio per il Chronicle of Higher Education in cui parla di “una nuova politica della paranoia” che regna nei campus: è stata sottoposta per questo a una lunga indagine dopo che gli studenti si erano sentiti offesi da questo articolo. Un certo numero di comici di successo, tra cui Chris Rock, ha smesso di esibirsi nei campus, mentre Jerry Seinfeld e Bill Maher hanno pubblicamente condannato la santimonia, mista a isteria, che vi regna. Succede che il presidente dell’Università del Missouri, Tim Wolfe, si debba dimettere per le proteste degli studenti afroamericani, “colpevole” di non essersi schierato con i manifestanti all’interno del campus per l’omicidio di Michael Brown, il diciottenne afroamericano ucciso nella vicina Ferguson nell’estate del 2014 da un poliziotto bianco. Succede che il professore di Yale Stephen Davis chieda di non essere più chiamato “master” nonostante il titolo gli spetti di diritto, perché la parola evoca la schiavitù e lui non vuole finire arrostito in pubblico.
Lo scrive Jonathan Rauch nel suo nuovo libro “Kindly Inquisitors: The New Attacks on Free Thought”: “Si commercializzano i college come ‘piccoli paradisi’. Non c’è da stupirsi se alcuni studenti si aspettano dalle università di fornire riparo dalle tempeste intellettuali. Così cercano di rendere l’istruzione superiore emotivamente più sicura, rendendola meno intellettualmente pericolosa”. La risposta dei docenti è quasi sempre una resa all’autocensura.
All’Università di Wake Forest, in North Carolina, c’è un apposito modulo per denunciare vari tipi di discriminazione da indicare con una crocetta: razza, abilità fisiche, nazionalità, religione, età, situazione finanziaria, orientamento sessuale, gender. Due termini sono usciti dall’oscurità ed entrati nel comune gergo quotidiano dei campus imponendo paura e sospetto. “Microaggressioni”: piccole azioni o scelte di parole che sembrano non avere cattive intenzioni, ma che sono pensate come una sorta di violenza. E’ “microaggressione” chiedere a un asiatico o latinoamericano: “Dove sei nato?”, perché questo implica che lui o lei non è un vero americano. “Trigger warnings” sono invece gli avvisi che i professori sono tenuti a rilasciare, se qualcosa in un corso potrebbe causare una forte risposta emotiva negli studenti.
Il direttore della rivista della Duke University ha dovuto dimettersi per l’accusa di “razzismo” perché aveva ospitato un articolo umoristico sugli inservienti della mensa, che sono per lo più neri. A Harvard sono stati gli stessi dipendenti della mensa a subire l’accusa: volevano organizzare per gli studenti un party sul tema “Ritorno ai Cinquanta”, ma il rettore ha posto il veto, perché “la nostalgia per quel decennio di segregazione puzzerebbe di razzismo”. Docenti di legge si sono messi a costruire argomentazioni legali per giustificare la censura. Si è arrivati a stabilire due principi. Primo, la censura non sarebbe una limitazione alla libertà di parola: servirebbe a distinguere opinione da insulto. Secondo, la censura non vale per tutti: donne e neri possono dire liberamente quel che vogliono contro la società dei maschi bianchi. Così, bruciare la bandiera degli Stati Uniti in un campus è “diritto alla libertà di espressione”, mentre uno studente che espone una bandiera della Confederazione sudista è passibile di “incitamento all’odio”.
Una studentessa nera della Tufts University ha accusato di discriminazione sul giornale dell’università un professore di Antropologia che aveva consigliato la lettura di un libro (un classico della materia) da lei ritenuto “razzista e offensivo”. Alcune azioni nei campus sfiorano il surreale. Alla Brandeis University, l’associazione asiatico-americana voleva sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti delle microaggressioni attraverso una installazione sui gradini di una sala accademica, in cui si elencavano le “frasi offensive”. Ma alcuni studenti hanno ritenuto che la mostra fosse in sé una microaggressione. Così è stata rimossa. L’Oberlin College ha attirato l’attenzione dei media quando ha pubblicato una guida di consulenza ai professori per evitare di innescare polemiche attorno al razzismo, al colonialismo e al sessismo. Il memo suggerisce l’introduzione di una frase di rito entrata nel vocabolario anglosassone per avvertire su un contenuto potenzialmente offensivo: “Stiamo leggendo questo lavoro, nonostante il razzismo dell’autore perché il suo lavoro è stato fondamentale per stabilire il campo dell’antropologia e perché crediamo che insieme possiamo sfidare, decostruire, e imparare dai suoi errori”.
Le biblioteche nei campus mettono “trigger warning” anche sulle opere di narrativa: gli studenti sono avvisati che Ovidio con le “Metamorfosi” rappresenta lo stupro, che Shakespeare nel “Mercante di Venezia” strizza l’occhio all’antisemitismo o che Harper Lee nel “Buio oltre la siepe” disvela non pochi pregiudizi. Quando uscì il libro di Allan Bloom si ebbe un primo caso simile, quando l’Università di Stanford pensò persino di escludere dai programmi Dante, Omero, Platone, Aristotele, Shakespeare e gli altri grandi protagonisti della cultura occidentale. Il motivo: secondo il comitato di professori e studenti che stabiliva i piani di studio, tutti questi classici sono “razzisti, sessisti, reazionari, repressivi”, e nei progranimi del primo corso verranno sostituiti da esponenti della cultura del Terzo Mondo, delle minoranze americane di colore, delle donne e della contestazione, anche se molto meno noti. Il “processo” ai classici venne proposto dallo storico Paul Seaver, secondo il quale “non si possono difendere scrittori divenuti simbolo negativo di esclusività culturale”.
La Fondazione per i diritti individuali nell’istruzione, che combatte la censura nei campus, ha compilato un “database degli inviti cancellati”, risalendo indietro dal 2000 fino a oggi e stilando una lista di trecento incidenti. Una conferenza sulla prevenzione del crimine dell’ex capo della polizia di New York Ray Kelly è stata di recente annullata dopo che gli studenti della Brown University lo hanno fischiato tutto il tempo. Lo Scripps College in California ha impedito di parlare al giornalista veterano del Washington Post George Will, reo di aver criticato le definizioni in continua espansione di aggressione criminale. Nel 2014 studenti e docenti presso la Rutgers University hanno protestato contro un intervento di Condoleezza Rice. Nella mente collettiva del campus di sinistra, la signora Rice era, nel migliore dei casi, “la collaborazionista di un guerrafondaio seriale”. Studenti e professori allo Scripps College, una scuola tutta al femminile di arti liberal a Claremont, in California, hanno poi protestato contro la segretaria di stato Madeleine Albright, una icona femminista liberal, ma secondo i manifestanti prima di tutto una “criminale di guerra”. Trenta professori hanno firmato una lettera dicendo che non avrebbero preso parte alla cerimonia. La somala Ayaan Hirsi Ali, dissidente e apostata dell’islam, avrebbe dovuto ricevere la laurea honoris causa dalla Brandeis University. Ma le proteste hanno fatto cancellare l’evento. Stessa fine per Charles Murray, critico del welfare, che doveva parlare alla Azusa University. Gli “studenti e docenti di colore” si erano risentiti. Una maledizione segna le parole in nome del Titolo IX, quello che proibisce la discriminazione su base sessuale. Sul Wall Street Journal si racconta come questo Title IX sia diventato “uno strumento per sopprimere la libertà di parola nei campus universitari”, con argomenti che avrebbero fatto arrossire Stalin.
Come hanno fatto i liberal a diventare così irrimediabilmente illiberali? Lo spiega Kim R. Holmes nel libro, suggerendo che la tradizione liberal, da comunitaria, pluralista, razionale e universale, abbia finito per abbracciare “l’uso di metodi coercitivi, come i rituali di pubblico disonore e la negazione dei diritti di alcune persone…”. Anche se l’epicentro di questo neo illiberalismo è il campus, “effetti sismici possono essere sentiti in tutte le istituzioni, dai tribunali ai media”. E’ la dittatura degli studenti. In un sondaggio del 2014 della American College Health Association, il 54 per cento degli studenti universitari intervistati ha dichiarato di provare “un’ansia opprimente”. Poi c’è il cosiddetto “safe space”. Un gruppo di studenti della Columbia University ha fatto scivolare un volantino “contro l’omofobia” sotto la porta di ogni stanza del campus. Il titolo del volantino dichiarava: “Voglio che questo spazio sia uno spazio più sicuro”. Un gruppo di studenti dell’Hampshire College è riuscito invece a far annullare il concerto di una band perché aveva “troppi musicisti bianchi” e non li faceva sentire “al sicuro”. Il presidente dello Smith College, Kathleen McCartney, ha dovuto chiedere scusa agli studenti soltanto perché un docente, Wendy Kaminer, aveva difeso l’uso della parola “negro” nel capolavoro “Le avventure di Huckleberry Finn”. Nel tumulto seguito, l’associazione degli studenti ha scritto una lettera al rettore dichiarando che “se lo Smith è pericoloso per uno studente, non è sicuro per tutti gli studenti”. Invece la City University di New York ha deciso di mettere al bando i già neutri “Mr.” e “Mrs.”.
Gli atenei, che hanno fatto ricorso agli “speech codes” nell’intento di disciplinare il comportamento verbale tra i componenti del campus, sottopongono a sanzioni amministrative tutti coloro che si abbandonano a un linguaggio irrispettoso del politicamente corretto. Il primo codice verbale fu redatto nel 1988 dall’Università del Michigan di Ann Arbor. Oggi il 65 per cento dei college hanno politiche che violano il diritto alla libertà di parola.
A Harvard le matricole hanno subito pressioni da parte di funzionari del campus perché firmassero un giuramento promettendo di agire con “civiltà” e “inclusività” e affermando che “la gentilezza occupa un posto alla pari con la realizzazione intellettuale”. Harry R. Lewis, ex preside di Harvard, ha detto che “è la premessa per controllare i pensieri”. Yale ha vietato agli studenti di indossare una maglietta con una citazione di Francis Scott Fitzgerald: “Penso a tutti gli uomini di Harvard come a delle femminucce”. La t-shirt è stata bloccata dopo che alcuni studenti gay e lesbiche hanno sostenuto che “femminucce” è pari a un “insulto omofobo”. La Troy University dell’Alabama vieta “qualsiasi commento o comportamento che consiste in parole o azioni che sono sgradite o offensive per una persona in relazione a sesso, razza, età, religione, origine nazionale, il colore, lo stato civile, la gravidanza, la disabilità o lo status di veterano”. La Colorado Mesa University limita la libertà di parola al “patio di cemento adiacente la porta ovest del Centro universitario”. L’Università delle Hawaii ha cercato di impedire agli studenti di distribuire copie della Costituzione degli Stati Uniti al di fuori della “zona di libero discorso del campus”. Il Bergen Community College del New Jersey ha posto un professore in aspettativa per la pubblicazione di una foto della figlia che fa yoga con una T-shirt e la scritta “Io prenderò quello che è mio con il fuoco e sangue”, una citazione di uno show televisivo. “Immagine sessista”. Alla McNeese State University in Louisiana, gli studenti possono essere puniti per il bullismo se fanno “osservazioni che potrebbero essere viste da altri come offensive”, indipendentemente dal fatto che questo sia o no il loro intento. Il Dartmouth College ha abolito la parola “fiesta” perché offensiva verso gli studenti ispanici, mentre a Yale è scoppiata una polemica surreale sulla censura dei costumi di Halloween “potenzialmente offensivi”.
A Berkeley, dove è nato il Free Speech Movement nel 1964, funzionari del campus hanno chiesto a docenti e studenti di eliminare “espressioni e parole potenzialmente offensive” dal loro vocabolario. Vietato allora persino dire che “l’America è un melting pot”, perché l’espressione venne usata per la prima volta dallo scrittore ebreo Israel Zangwill in un romanzo del 1892, “I figli del ghetto”, in odore di “assimilazione etnica”. Errore rosso per l’espressione “non sono razzista, ho molti amici neri” e persino “l’America è la terra delle opportunità”, che implica che uno studente delle minoranze deve lavorare più duramente per raggiungere il successo.
In alcuni campus è ststa abolita persino la parola “stupro”, perché ridurrebbe le donne a vittime che hanno bisogno di protezione. Così, il nuovo codice etico di Princeton oggi non cita più la parola “stupro”. Lo si chiama, in ossequio al sessualmente corretto, “penetrazione non consensuale”, espressione oggi adottata da settecento sugli ottocento campus d’America.
Da qualche mese Twitter, uno dei veicoli di questa nuova intolleranza accademica, ha persino un “Consiglio per la fiducia e la sicurezza”. Ricorda tanto il “Consiglio per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” dell’Arabia Saudita. Potrebbe essere di ispirazione per i mullah liberal dei campus?
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