La carica dei vigili
Relazione complicata. Tra il corpo dei vigili e la città di Roma è una storia d’amore e odio che si rinnova con regolarità; ultimo capitolo in ordine di tempo, la “retata” della municipale a un comizio dei Cinquestelle; circola un video naturalmente virale su internet, mentre sta parlando il deputato Stefano Vignaroli, in appoggio alla candidata sindachessa Virginia Raggi, in località Piana del Sole, località esotica ai più, vicino a centri commerciali che si chiamano “Commercity” e uscite intitolate “Chiavichetta”. Mentre il deputato arringa la folla ecco tra la medesima folla un grido, strozzato: “Aho, ce stanno i viggili, stanno a fa ’e multe”. Alle auto in doppia fila. La candidata sorride, non dice una parola, forse briffata dagli staff, mentre il deputato, più disintermediatore, dopo un attimo di riflessione dichiara: “Cioè… a Piana del Sole non si vede un vigile nemmeno…”, e il sottotesto è che sarà naturalmente un complotto; forse non come quello ormai celebre denunciato dalla stessa Raggi mesi fa (“c’è un complotto per farci vincere!”) ma sempre di complotto si tratta. Il militante che ha avvistato le pattuglie si è premurato di precisare: “Aho, nun è peffà terorismo eh”, perché i vigili in arrivo sono sempre terrorizzanti, a Roma. E dunque terrorismo su commissione: come mai la municipale arriva proprio in questi giorni, proprio da noi? Visto dall’altra parte, a una settimana dalle elezioni il valoroso corpo dei vigili è ancora una volta strumentalizzato. “Se facciamo la contravvenzione al sindaco ci manda l’opposizione, se non la facciamo ci dicono che facciamo favoritismi”, dice al Foglio Stefano Giannini, giovane e agguerrito segretario del Sulpl, sindacato dei vigili romani, sindacato di minoranza e dialogante. Il fatto però è che “negli ultimi due anni il rapporto con la cittadinanza si è inasprito”; certo “a causa delle campagne di stampa sul malcostume dei vigili, malcostume che però ha sempre riguardato soprattutto i dirigenti più che la base”.
In effetti, l’ex comandante dei vigili romani, Angelo Giuliani, è stato appena rinviato a giudizio per una storia di presunte mazzette, trentamila euro che, siccome siamo a Roma e anche il reato, o l’ipotesi di reato, si trasfigura subito in un film dei Vanzina, ecco che la tangente vera o presunta serviva ad alimentare le casse del circolo ricreativo dei vigili. “Si me tocchi er circolo faccio parti’ un paio de siluri!”, minacciava Giuliani, intercettato in conversazioni degne di Gadda o Christian De Sica. “Stai attenta a come fai, perché io dopo non ti recupero, non ti recupera manco Cristo in croce!”, avrebbe minacciato a una collega già ribattezzata “vigilessa infedele” e invece assai fedele all’istituzione municipale. “Ricordati che io ci ho sempre un incaricuccio e tu c’hai sempre du figliole!”. L’indagine aveva origine enologica; “tutto questo casino è colpa dei bibitari!” si sentiva in altro vernacolo intercettato, dove i bibitari erano la famiglia Bernabei, storica dinastia di enoteche a Trastevere, che denunciarono presunti, sempre presunti, taglieggiamenti da parte dei vigili infedeli. Dal calice niente è mai venuto di positivo per il Corpo; racconta al Foglio Filippo Ceccarelli che ci fu un tempo in cui i vigili erano assai amati dalla popolazione – tempo in cui v’erano poche macchine, e addirittura godevano di una loro festa in calendario, come dei santi; festa collocata il giorno della Befana, e quel giorno la popolazione sotto-motorizzata era solita recare vettovaglie ai pizzardoni, e in particolare bottiglie di vino. Ma quando cominciarono a circolare troppe macchine, cominciò il boom e cominciarono gli ingorghi, ecco che i romani, famosi per rovesciare condottieri con la stessa velocità con cui li acclamavano, iniziarono una consuetudine breve e ferale, “pisciando nelle bottiglie di vino destinate ai vigili. Erano altri tempi, il vino si prendeva dai vinai, non c’era il vino imbottigliato di qualità come oggi”, dice Ceccarelli. In breve la Befana dei vigili fu soppressa.
Ma la storia, bibitari a parte, è sempre la stessa: acclamati e odiati, richiesti di severità sempre con gli altri, poi ripudiati appena l’efficienza si traduce in contravvenzione. Come Cola di Rienzo, il tribuno che nel Medioevo sgangherato romano tentò di ripristinare il comune a Roma, e nella lotta tra i baroni e il papato fu prima innalzato e poi pugnalato in Campidoglio, anche i vigili ebbero il loro tribuno. Si chiamava Ignazio Melone – racconta sempre Ceccarelli al Foglio. La storia poi ispirò “Il vigile” con Alberto Sordi. Il Melone, vigile integerrimo che nella Roma del 1959 aveva osato multare, sulla via Cristoforo Colombo, il questore della Capitale, dottor Carmelo Marzano, famoso anticomunista, reo di aver superato a destra in prossimità di un incrocio. Il vigile aveva osato chiedere i documenti al questore, per identificarlo, e quello aveva rivolto al Melone epiteti per l’epoca irriferibili, nello specifico “imbecille” e “ignorante”, e immediatamente era stato sanzionato, il povero vigile. Divenne immediatamente idolo delle sinistre, per pochi giorni. Paese Sera, il quotidiano vicino al Pci, lo portò in palmo di mano, mentre lo Specchio, foglio conservatore, lo condannava. Finì tutto in un processo che fece come si vuole epoca. A differenza del film di Luigi Zampa con Sordi protagonista, la sorella del Melone non faceva la prostituta, e la macchina del fango passò per alcune vere meretrici che il Melone era solito frequentare, in particolare tale Bertilla Zonta, “una donna sui trent’anni, smunta, che reca ancora sul volto le tracce di una bellezza ormai sfiorita”, si leggeva in un articolo sull’Unità del 16 febbraio 1960. Alla fine, una volta uscito il film nelle sale, il Melone fece causa alla produzione, mentre il questore Marzano venne trasferito a Napoli.
Da Melone a Meloni, l’uso e abuso di potere alla faccia del pizzardone rimane un classico romano; un’altra candidata alle prossime comunali, Giorgia Meloni, appunto, con la sua Mini muscolare con doppio tubo di scarico, fu fotografata parcheggiare in doppia fila davanti a un cassonetto, e di fronte alla prova documentale ribatteva “faccio mea culpa ma io quando sbaglio – o come migliaia di romani in cerca di parcheggi introvabili, sono costretta a sbagliare – preferisco pagare la multa piuttosto che rassegnarmi a girare con scorta e auto blu, che non ho mai usato nemmeno da ministro, non voglio usare e non uso”. Ma la doppia fila rimane un grande classico romano: il 19 ottobre 2013 i cronisti del Fatto Quotidiano segnalavano e filmavano la presenza del ministro dell’Interno Angelino Alfano e soprattutto delle sue due macchine di scorta, posteggiate rigorosamente in doppia fila, davanti a un palazzo di via Cicerone, deep quartiere Prati, zona ad altissimo tasso di doppia fila – nel caso specifico, era di fronte al palazzo che ospita anche lo studio Previti, dove fece pratica la candidata Raggi. Casi sporadici, insufficienti a fare statistica; eppure la doppia fila è stata a lungo considerata categoria antropologica, politica: Romano Prodi la indicava come simbolo del berlusconismo: intervistato da Furio Colombo nel volume “Ci sarà un’Italia” dichiarava: “Il parcheggio in doppia fila è il vero simbolo di Berlusconi”. Mentre Edmondo Berselli in “Sinistrati” registrava una severa riflessione di Pier Luigi Bersani sui nuovi ceti affluenti italiani, tendenzialmente conservatori ma che stavano guardando finalmente al Pd: un nuovo centro che “ha un’idea ordinata e gentile dell’Italia, che insomma vuole che la si pianti con le macchine in doppia fila, l’arte di arrangiarsi, lo stellone e l’intero armamentario dell’arcaismo civico nazionale”. Bersani aveva poi ottenuto la sua nemesi, parlando nel 2014 alla Festa dell’Unità di Bologna intervistato da Massimo Giannini, essendo interrotto più volte dall’annuncio all’altoparlante “c’è da spostare una macchina in doppia fila”, cui seguiva lettura delle cifre, al che il segretario si arrendeva chiamando tra la folla “un capogruppo, un capogruppo vada a spostare questa macchina”.
Adesso, in vista delle elezioni romane, contro la doppia fila forse di destra o forse nazarena c’è stata una vera dichiarazione di guerra da parte del nuovo comandante dei vigili romani, Raffaele Clemente, che ha appena annunciato il raddoppio delle pattuglie dotate di “street control”, cioè sofisticato occhio elettronico capace di multare a distanza, dunque con equidistanza, e se “nun è peffà terorismo”, come diceva il simpatizzante grillino, sarà un caso se il poliziotto scelto per guidare il Corpo è un comandante che è stato tra i massimi dirigenti della Digos a Roma, ed esperto proprio di antiterrorismo. Poliziotto d’eccellenza, riuscirà Clemente (che non vuole assolutissimamente parlare coi cronisti, “a pochi giorni delle elezioni”, dice al telefono) a sconfiggere la doppia fila, che entro il Grande raccordo è considerata un diritto non negoziabile? Per i vigili, date le condizioni attuali, pare difficile. “E’ un problema strutturale, siamo solo in 5.900 mentre per legge dovremmo essere 9.000” dice Giannini del Sulpl. E poi sono le stesse strade di Roma che dovrebbero essere cambiate: “Vanno allargati i marciapiedi, messe le corsie ciclabili, creando una sola corsia di transito, in modo che parcheggiare in doppia fila sia materialmente impossibile”, dice il rappresentante dei vigili. Esperimenti sono già stati tentati di fronte alla stazione Termini, con corsie uniche difese da alti cordoli e zone per darsi bacini e abbraccioni, denominate “Kiss and ride”: col risultato che l’intasamento si è spostato di pochi metri, e tanti bacioni.
Ma chi avrà il coraggio di mettere i romani uno contro l’altro posteggiati? Non si può chiederlo ai poveri vigili, che dopo anni sono visti in questi giorni particolarmente attivi in centro, e dunque vituperati (però quando non si vedevano, tutti a protestare contro l’assenza di pizzardoni). “In realtà si tratta di illusione ottica”, spiega sempre Giannini; “il fatto è che negli ultimi anni sono stati spostati in massa dalla periferia al centro”. Il vigile, deportato e offeso, si sente vittima della politica, e chissà con che animo il Corpo osserva le strampalate proposte urbanistico-trasportistiche dei candidati al Palazzo Senatorio: da quella minimalista-tranviaria di Giachetti, candidato Pd, di portare l’8, inteso come tram, fino alla stazione Termini, a quella sciistica della Raggi, di creare cioè una funivia dall’Aurelia a Casalotti-Boccea, località mitica (e qui, subito viene in mente Corrado Guzzanti-Venditti: “All’uscita dell’Aurelia c’è Casalotti Boccea / fai la conversione e c’è il tabacchino intorno / se è chiuso giù al controviale c’è il distributore che te frega er resto”). Serviranno allora, forse, vigili sciatori, e del resto il corpo, inteso proprio come corpo del vigile romano, rimane tutto da inventare, partendo da quello di un animale anfibio; mezzo poliziotto mezzo dipendente comunale, un po’ moderno con street control un po’ arcaico con la sua Befana e il suo santo (san Sebastiano martire, non a caso); armato o disarmato – la pistola venne reintrodotta dopo trent’anni dal sindaco Alemanno nel 2009, ma la metà dei vigili fa obiezione di coscienza, e non ce l’ha. Il corpo del vigile è creta su cui fantasiosi sindaci spesso hanno infierito, golosi di pretoriani sfavillanti: ecco dunque i formidabili polpacci della innocua e fotogenica force de frappe che usava accompagnare il sindaco ciclista Ignazio Marino, con camicia a maniche corte e walkie-talkie, tipo agenti losangelini, ma con facce squisitamente tiburtine. Ecco la banda dei vigili urbani, a suonare il vasto repertorio nelle occasioni più importanti tra cui il Natale di Roma (ma si è esibita anche sulla piazza Rossa); ecco l’alta uniforme, con in testa la pizzarda candida, a deporre targhe e corone d’alloro, particolarmente cara a Nicola Signorello, antico sindaco democristiano molto attento ai segni del potere, e detto per questo “pennacchione”.
Il Potere e il Pizzardone insomma non si sono mai amati. Con cortocircuiti storici: molto sobrio, “come tutti i parenti Andreotti”, racconta Ceccarelli, fu un indimenticabile comandante, cioè Stefano Andreotti, una “vaghissima somiglianza” con il fratello, eterno Divo italiano, con cui esibiva rapporti molto distaccati, quasi facendo finta di non conoscersi, come in una rappresentazione parentale di potere civile e potere pizzardonico. Tanto che l’Andreotti premier raccontava volentieri di essere molto ligio sui sensi di marcia tra via Veneto, via Barberini e via del Tritone, a scendere giù da un suo barbiere verso Montecitorio e Palazzo Chigi. Altrimenti “mio fratello mi fa la contravvenzione”.
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