La cattiva strada
La toponomastica è il rifugio dei senza patria o delle canaglie in disarmo. Spiace dirlo ma le strade di Roma andrebbero bonificate da crateri e smottamenti, non intitolate o rititolate a questo e quello. Chissenefrega di Giorgio Almirante, che forse non era nemmeno tra i peggiori razzisti del Ventennio – ma di sicuro era razzista biologico come nemmeno Julius Evola – e che in ogni caso non può difendersi dai buoni propositi di Giorgia Meloni nei suoi confronti e dalle comprensibili proteste della comunità ebraica. La Meloni, tuttavia, gode di attenuanti invalicabili: è giovanissima rispetto all’armamentario politico corrente, è anagraficamente estranea al fascismo e al neofascismo, in più ha il mito di Alessandro Magno. Le piace ripetere, citando un Giulio Cesare quarantenne, che a 23 anni il principe macedone aveva già conquistato mezza Asia… e Alessandro in fatto di celebrazioni toponomastiche era così ambizioso da aver fondato nientemeno che Alessandria d’Egitto. Ma dov’è, oggi, Alèxandros? E sopra tutto, perché l’Italia si mostra ancora acerba e cisposa nelle sue piccole ossessioni stradali? Roma fa scuola in tutta la nazione, ovvio, fin dai tempi antichi in cui dedicò una stradina laterale del Foro alla potente e ambigua minoranza etnica etrusca, il Vicus Tuscus. Da allora a oggi, consoli e imperatori e re, papi e duci e governatori e sindaci hanno via via cercato di modellare la Capitale secondo le fattezze della propria autorappresentazione: i primi hanno scolpito marmi e cesellato bronzi incidendovi a futura memoria la sequenza dei rispettivi nomi, estremo omaggio alla scommessa dell’eponimia, la credibile illusione di poter scandire per sempre un brandello temporale attraverso la propria identità; gli ultimi si sono ritrovati fra le mani lacerti e detriti, microcosmi resi angusti dalle avventure e disavventure del passato. Dalle mie parti qualcuno ancora chiama Foro Mussolini quello che per la Repubblica nata dall’antifascismo oggi è il Foro Italico. Idem per via dell’Impero (i Fori imperiali mal pedonalizzati da Ignazio Marino). Perché il fascismo a quanto pare è l’ultimo terminus a quo della nostra guerricciola civile, anzi civica, che oppone tetragoni e nostalgici, furbi e ingenui. Obiettivo: occupare purchessia lo spazio della memoria.
A partire dagli anni Trenta, in modo speciale dopo la conquista dell’Impero (1936), Mussolini stabilì che i tempi erano maturi per passare dall’edilizia popolare ai fasti di un grande disegno architettonico che avrebbe fatto sognare perfino il nazi Albert Speer. Era il momento in cui il duce stava marmorizzandosi, forse ruminando in cuor suo il celebre exemplum augusteo, il capolavoro del principe che aveva ereditato un’Urbe di mattoni e cocciopesto e si predispose a lasciarla ricoperta di marmi abbacinanti. Del resto un incoraggiamento assai prossimo arrivava dai padri del Risorgimento che avevano appena sbancato il Campidoglio – fino al terreno vergine: trovarono i resti di un elefante preistorico – e poi demolito casupole medievali per edificare l’Altare della Patria. L’acme di quella feconda tracotanza urbanistica sarebbe giunto con l’Eur, a modo suo un monumentale capo d’opera incompiuto, frainteso, vilipeso e riscoperto a cadenza ciclica e con pandemica indifferenza.
Tutto fa sangue, a Roma. Salvo il fatto che dal secondo Dopoguerra in giù il massimo consentito è stata la manutenzione del disordine, l’auscultazione del borborigmo periferico, la dilatazione incongrua di falansterii sovietizzanti spacciati per periferie pretenziose che hanno progressivamente interrotto ogni soluzione di continuità tra l’Urbe e il mare, i colli, la campagna sabina. Allucinazione per balordi seguaci dei termitai russi, immemori del fatto che almeno Stalin era stato capace di rivestire con tratti neoclassici e punteggiare d’ariosi verdeggianti cortili la sua Pietroburgo di cemento armato: i casermoni sarebbero sopraggiunti in seguito.
Fatto sta che a Roma la malintesa grandeur democratica, in mancanza di meglio, ha trovato il proprio sfogo nella toponomastica. E così la ricerca inane d’imprimere un’orma architettonica è stata compensata con la pratica d’intitolare strade e piazze ai propri feticci clanici, culturali e politici, ai morti buoni e a quelli quasi buoni, alle date totemiche, alle stragi. Una disciplina in cui fu maestro Walter Veltroni, sindaco dal 2001 al 2008, il quale però ha saputo mostrare una rara sensibilità verso mondi e tragedie a lui estranei. Non soltanto ha intitolato una strada a Fabrizio Quattrocchi, il bodyguard morto ammazzato in Iraq dopo aver ricordato al mondo “come muore un italiano”, ha pure consacrato una targa a Paolo Di Nella, militante missino ucciso dai rossi nel 1983, e un giardino a Vincenzo Paparelli, il tifoso della Lazio ucciso da un razzo romanista nel derby funesto del 28 ottobre 1979. Ricorda suo fratello Angelo: “Ero in contatto con Veltroni. Gli chiesi: perché non intitola una strada a mio fratello? Il sindaco mi rispose: Angelo, dammi tempo, vedrò cosa posso fare… Poi mi chiamò dicendomi: faremo il Giardino Vincenzo Paparelli” (Maurizio Martucci, “Cuore tifoso” Sovera Multimedia 2009). Prima di Veltroni era stato Francesco Rutelli a segnalarsi per un sovrappiù di spericolatezza. Nel 1995 meditò di omaggiare addirittura il gerarca fascista Giuseppe Bottai per “meriti culturali” nei confronti di Roma, con una strada, anzi un “Largo” dalle parti di Villa Borghese, a poca distanza dalla Galleria d’Arte moderna di Valle Giulia, il sacrario laico del 1968. Anche allora, come oggi, la comunità ebraica si oppose con successo. Nel fronte del no si distinse il Pigmalione di Rutelli, Marco Pannella: “Invece di inserire nella toponomastica Bottai, Rutelli dovrebbe ‘epurare’ i nomi partitocratici imposti a diverse piazze e strade romane. Ma certamente il coraggio gli mancherà. Rutelli – piuttosto – s’ingegni a far intitolare al romanissimo Claudio Villa, suo compagno di partito e di lotte libertarie (fin quando le ha fatte), qualche bella piazza o strada della città. Ne capirà l’interesse, se non altro?”.
Più recentemente, sempre dalle parti del centrosinistra, Ignazio Marino ha fatto valutare alla Commissione toponomastica del Campidoglio la possibilità di cancellare via Lenin (idiozia pura), e poi ha intitolato una strada a Rosario Bentivegna, comandante partigiano autore dell’attentato di via Rasella. Idee confuse. Il sindaco post fascista Gianni Alemanno verrà invece ricordato per aver immaginato strade dedicate a Enrico Berlinguer (un successo di Marino), Bettino Craxi, Amintore Fanfani e – ahilui, pure lui – Giorgio Almirante, nonché ai “Martiri di Acca Larentia”. Eppure molti ricorderanno più che altro il viale Alberto Sordi davanti alla Casa del cinema e la biblioteca di Corviale intitolata all’ex assessore Renato Nicolini, a 10 anni dalla sua apertura. Eccezione: largo Giuseppe Tucci, all’interno del Bioparco, malgrado i moniti contro il grande orientalista che non si dissociò dalle leggi razziali fasciste. Sempre a proposito di razza, a proposito dello storico segretario missino, i cultori della materia ricordano che una mozione per una via ad Almirante venne già presentata (e bocciata) in Consiglio comunale nell’aprile del 2015, da Dario Rossin (Forza Italia) e Fabrizio Ghera (Fratelli d’Italia). Ai perversi della materia, invece, ricordiamo noi che nel 2009 l’allora Pdl presentò (invano) una mozione per “intitolare una strada o una piazza romana alla signora Rosa Berlusconi”, nata a Milano epperò “madre del presidente del Consiglio dei ministri”. Motivo: “Un riconoscimento non tanto alla mamma di Silvio Berlusconi ma a una persona semplice che grazie alla sua dedizione ha concorso a scrivere una pagina della nostra storia recente contribuendo alla decisione del figlio di scendere in campo. Una scelta, questa, condivisa in 16 anni da milioni di cittadini”. Anche volendo – ma i più non vollero –, la cosa sarebbe stata impossibile, essendo appunto la materia disciplinata da tre leggi – “Norme per il mutamento del nome delle vecchie strade e piazze comunali”; “Toponomastica stradale e monumenti a personaggi contemporanei”; “Nuovo regolamento anagrafico della popolazione residente” – che, fra varii e cavillosi caveat, vietano anche “la denominazione a persone che siano decedute da meno di dieci anni, salvo che non si tratti di caduti in guerra”. Tant’è.
Dice: ma dove vuoi arrivare con la tua galleria tragicomica, con questo inventario della toponomastica più o meno immaginaria? Da nessuna parte, restiamo anzi sul pezzo: la destra, quel che ne rimane e quel che vorrebbe sopravviverne, dovrebbe ascoltare la conclusione lapidaria di un intellettuale rispettato anche a sinistra, il quale ha condotto logomachie decennali, sfinenti e infeconde, nel tentativo di strappare un po’ di memoria incisa sul marmo. Sto citando Gianfranco De Turris: “… ancora oggi è impossibile intitolare una strada a Gentile o Evola e si vogliono abbattere, dopo 70 anni, i simboli del regime!”. E allora? La memoria è selettiva, dobbiamo ripetercelo sempre. A volte, certo, si fa largo nelle commessure allentate del potere: per esempio a Pomezia, città di fondazione fascista, dove via Giorgio Almirante è la base più lunga di un triangolo stradale isoscele i cui lati corti sono via Martiri delle Foibe e via Augusto Imperatore. Il triangolo isoscele diventa perfino uno stendardo se si considera come asta la perpendicolare via Pino Romualdi, altro gerarca missino evidentemente caro a Pomezia. Ma sono davvero soddisfazioni?
Premesso che la sede del revisionismo, se proprio uno voglia revisionare alcunché, non sono le strade ma i libri di storia, i convegni universitari, gli esercizi di eristica culturale, quand’anche la destra trovasse campo libero per le sue scorribande toponomastiche rischierebbe di epigrafare sì e no un isolato, se non soltanto un rione, a meno di voler ricorrere ai nomi meno raccomandabili per la politica dominante. Un tempo le avremmo definite battaglie di retroguardia, propaganda minore, occhieggiamenti residuali per racimolare consensi buoni a riempire un manipolo di schede elettorali, insomma perdite di tempo. E in fondo anche oggi è così. Oltretutto, nelle catacombe nere, quello di Almirante è un nome ancora divisivo: la sola cosa buona che i più centrati gli riconoscono è d’aver disincentivato l’uso delle croci celtico-teutoniche. Un po’ poco, nicht wahr? Almirante ha scritto un libro autentico quanto reticente e bellissimo, “Autobiografia di un fucilatore” (Edizioni del Borghese, 1973), che per molti di noi ha rappresentato il primo furto nella libreria paterna e l’accompagnamento al macello dell’illusione giovanile. E infatti scriveva: “Vorrei che questo libro andasse tra i giovani, perché nel nome di tutta una generazione di anziani l’ho scritto per loro. Noi siamo profondamente mortificati, giovani, perché verso il declinare dei nostri anni ci accade talora di veder declinare anche le nostre personali speranze; e ci accade comunque di temere di consegnarvi una Italia ben diversa… Sono stato educato nel quadro di un sistema che ho visto crollare, sono stato proiettato in una guerra che ho visto perdere e che ho perduto fino in fondo, ho preso parte ad una guerra civile dalla quale sono uscito sconfitto… (e, ormai, da quasi un trentennio, partecipo alla vicenda politica della democrazia parlamentare italiana)… ebbene, giovani, io scelgo vicino a me, scelgo nel tempo nostro, e scelgo proprio tra voi, tra quelli di voi che mi sono stati accanto in questi ultimi anni. Se io in questi anni avessi potuto darvi soltanto lacrime, sudore e sangue, e tanti tra voi si fossero ugualmente accostati alla Destra nazionale, come in verità è accaduto, dovrei esservi comunque riconoscente. Ma io, e la mia generazione con me, non abbiamo dato a voi soltanto ardue prove e dure lotte e pesanti sacrifici; vi abbiamo dato mortificazioni continue, nello spirito e nella carne, abbiamo predicato il verbo più sgradito alla giovinezza, che è quello dell’attesa e della continuata pazienza”…
E via così. In realtà Almirante, il segretario che voleva la “doppia pena di morte”, in fatto di mortificazioni ci ha lasciato anche Gianfranco Fini. E’ stato lui il creatore e impos(i)tore – in ogni senso possibile – di Fini, tanto convinto da regalargli una corona perduta nella competizione con Marco Tarchi, cacciato all’uopo dall’allora Fronte della Gioventù con il benestare di Pino Rauti e – dicunt – del rautiano Gianni Alemanno, che adesso guardacaso è tornato in società con Fini. E dunque, almirantiani o anti almirantiani di tutti i tempi e luoghi, vogliamo chiuderlo oppure no, ’sto pollaio della micromemoria? Roma, Capitale d’Italia e del mondo, non ha bisogno di un nuovo, vecchio Tuttocittà: è una metropoli stracciona abbandonata a se stessa da almeno un decennio. I cittadini romani – prima arrabbiati, poi rassegnati e infine anche indolenti, ma sempre molto tassati – hanno dovuto improvvisare una specie di autogestione, fra cumuli di sporcizia e servizi scadenti. La politica dei partiti ne è la principale responsabile, ma anche la società civile e i così detti corpi intermedi non sono riusciti nel lavoro di supplenza. L’inventario delle colpe e il catalogo dei colpevoli è fin troppo noto per essere riepilogato. E in ogni caso non è più il punto essenziale. Fosse per noi, piuttosto che Almirante nelle promesse pre-elettorali, rievocherei Pol Pot sui cartelloni quelli alti e larghi larghi, così, giusto per spaventarci un po’ tutti; ma con il retropensiero che anche lui fallirebbe la prova. Dopodiché, visto che “c’è amore un po’ per tutti / e tutti quanti hanno un amore, / sulla cattiva strada”, come cantava l’anarchico Fabrizio De André, è chiaro che Giorgia Meloni diventerà sindaco di Roma e intitolerà subito una strada a J. R. R. Tolkien. Ma noi saremo già svenuti.
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