Carlo De Benedetti (foto LaPresse)

"A tu per tu" – De Benedetti confidential

Nel soggiorno di Carlo De Benedetti. L'Ingegnere racconta se stesso (e molti altri)

Salvatore Merlo

La fusione tra Stampa e Repubblica? “Identità separate”. E sul referendum costituzionale “ho parecchi dubbi” – di Salvatore Merlo

E mentre parla gli occhi assumono un riflesso ironico. Come quando gli si chiede se quelle che indossa sono le scarpe di Della Valle, le Tod’s con i pallini di gomma, e allora lui se ne sfila una, e per un attimo rimane in silenzio, la tiene in mano, un po’ come Kruscev alle Nazioni Unite, consapevolmente lasciando che la sorpresa avviluppi l’ospite come un rampicante. “Non è Tod’s”, sentenzia. E ha bisogno di guardare la marca per sapere che scarpe indossa? “Non è una cosa di cui mi occupo”. Le comprano altri per lei? “No, ma non ci sto attento”.

 

Via Monserrato, un passo da Palazzo Farnese, ore 8 e 30 d’una mattina schiaffeggiata dal sole. Dentro l’ampio, antico e un po’ asmatico ascensore in noce risalta un fogliettino. E’ abbastanza incongruo. Dove ti aspetti una targa d’ottone, a Roma, anche nel Palazzo più signorile, figura sempre un pezzo di carta appiccicato con lo scotch: “In caso di blocco…”. E’ il carattere della metropoli paesana, l’unica capitale europea con qualcosa di eternamente sbracato, persino in casa dell’Ingegnere. All’ultimo piano compare un maggiordomo di colore e dall’aria perfetta, muto e un po’ inclinato nel suo black tie: fa scorrere la porta dell’ascensore, introduce l’ospite. Ed eccolo finalmente, Carlo De Benedetti, immerso in una poltrona e avvolto d’un atteggiamento autoritario e ottocentesco, che però subito si trasforma in un largo sorriso di benvenuto sotto i capelli argentati e tirati all’indietro, tra i quali si vedono i solchi esatti del pettine. “Ormai vado per gli ottantadue”, dice quando gli si ricorda che alla Fiat, quand’era amministratore delegato, lo chiamavano “la tigre”, perché era implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli. “Adesso sono al massimo un vecchio leone sdentato”, sorride, ma è chiaro che non ci crede nemmeno lui. Aveva quarantadue anni ai tempi del Lingotto. Cacciò Gian Mario Rossignolo, che lui chiamava “aria fritta”, e accantonò Vittorio Chiusano, che lui chiamava “aria di sacrestia”. Gli uomini Agnelli. “Rossignolo lo licenziai due giorni dopo il mio arrivo in Fiat”.


“Rosignolo era entrato nel mio ufficio esponendomi tutta una fumosa teoria secondo la quale in Europa non c’era più un futuro industriale per l’automobile. Gli dissi: ‘Se sei convinto che l’auto è finita, mi spieghi come diavolo puoi fare il capo delle strategie industriali di un’azienda che produce automobili?’. Lo liquidai. Era un cretino”. Ai tempi, per la verità, come riportano tutte le cronache, disse che era “un coglione”.

 

Ma forse un po’ De Benedetti lo recita questo ruolo, da personaggio goldoniano. In lui sembrano coesistere il timore e il godimento anarchico di sfidare l’universo intero (“certo che faccio parte dell’establishment, ma sono sempre rimasto ai bordi. Fuori dalle cordate e dalle grandi alleanze”), e chissà, forse anche una specie di ammirazione inconfessata per la propria spavalderia (“non sono mai stato iscritto a a un partito, rifiutai di fare il senatore con La Malfa”. E la tessera numero uno del Pd? “Cazzate”). Allora gli si ricorda la lite tra John Elkann e Diego Della Valle. E lui: “Sono fatti per non capirsi, per educazione e background. Uno è il nipote di un ciabattino, mentre l’altro è il nipote di un signore che si chiamava Gianni Agnelli”. E Marco Tronchetti Provera? “Il marito della figlia di Leopoldo Pirelli. Le dico solo che la Prysmian, l’azienda di cavi che lui vendette scorporandola dall’impero del suocero, oggi vale più della Pirelli stessa”.

 


 

“Se la Stampa diventasse Repubblica o se Repubblica diventasse la Stampa, sarebbero entrambi giornali morti” (sopra, ancora Welles, regista e protagonista nel 1941 di “Quarto potere”)


 

Il soggiorno di casa De Benedetti, o meglio di questo appartamento romano – quante case possiede? “Una a Dogliani, una in Spagna, una in Svizzera…”. E a New York? “Non le pare abbastanza?” – è una specie d’altana, come la loggia d’una torre dall’altissimo soffitto intrecciato di travi antiche. Bisogna fare tre scalini per raggiungere i divani in ramage, circondati dalle due grandi librerie in legno e da una serie di vedute veneziane, settecentesche, che potrebbero anche essere del Canaletto, o di Francesco Guardi. In un angolo troneggia una gigantesca testa d’uomo, in marmo, greca o romana, sbeccata dai secoli. Sul tavolino da fumo ci sono il Financial Times, La Stampa, ovviamente Repubblica… il Corriere è nascosto, è stato gettato a terra, sul lato sinistro della poltrona, in ombra. Forse significa che l’ha letto per primo.

 

A proposito: Urbano Cairo forse diventerà l’editore del Corriere della Sera, la concorrenza. Lei che ne pensa di Cairo? “Noi a Torino li chiamiamo ‘Mandrogni’, quelli che vengono da Alessandria. E’ furbo, oculato, ci sa fare, è una persona perbene e anche indipendente. Ma il suo modello di riferimento dal punto di vista imprenditoriale, persino estetico, è Berlusconi: basti pensare che ha comprato una squadra di calcio, il Torino, cioè l’ultima cosa che un imprenditore assennato dovrebbe fare”. E perché? “Perché si perdono soldi”. E allora come mai i ricconi di mezzo mondo comprano le squadre di calcio? “Alcuni per desiderio di notorietà, altri per passione, per gioco. Garrone, per esempio, comprò la Sampdoria per passione”. E Berlusconi perché comprò il Milan? “Per imitare Agnelli”. E Agnelli? “Passione famigliare”. E lei? “Io manco morto. Negli anni Ottanta mi volevano sbolognare il Torino. Ma io prima di tutto sono della Juve, e poi sarebbe stata una follia economica… Guardi solo Giampaolo Pozzo ci guadagna con il calcio, con l’Udinese. Chapeau”. Berlusconi ora vende il Milan. “Ed è puro buon senso”. Il Cavaliere è il nemico della sua vita? “Ma no. E’ ‘uno’ dei miei nemici, non ‘il’ nemico”. Insisto: ma davvero non siete mai andati d’accordo con Berlusconi? “Ricordo un solo suo gesto di affettuosità, ovviamente pelosa. Fu quando comprai la Sme. Lui fu il primo a chiamarmi, ed era gentilissimo, un vulcano avvolgente. Ovviamente voleva soltanto vendermi degli spazi pubblicitari”. E qui la solida facciata del suo volto si sgretola in un sorriso. China la testa, come un atleta che prende lo slancio per il salto: “Questo episodio dimostra quanto Berlusconi fosse sul pezzo. Lui è sempre sul pezzo, non perde mai un’occasione, non si ferma mai. E in questo è straordinario”. E lo dice quasi con simpatia.

 

Fedele Confalonieri lo conosce? “Lui è il Cavaliere sono la stessa cosa, sono la stessa persona”. Due cuori e un biscione. “Non sai mai dove finisca l’uno e cominci l’altro. Solo che Confalonieri è più saggio, ha sempre avuto la capacità di costruire ponti con la società, specie quando Berlusconi incendiava e basta”. Ma di Berlusconi davvero va buttato tutto via, non c’è niente di buono nel berlusconismo, non sta esagerando? “Se lei prende il programma del 1994 vedrà che conteneva elementi di disgelo per una politica ormai da troppo tempo rinchiusa nel suo iceberg. Si preannunciava una vera rivoluzione liberale. Poi però Berlusconi si è fatto solo gli affari suoi”. E Tremonti? “Tremonti è un uomo molto intelligente e molto… come dire, ‘squilibrato’, nel senso tecnico, cioè con equilibri instabili. Straordinario conoscitore della materia fiscale, desiderava far veleggiare la sua intelligenza in un campo diverso, quello della politica. Ma si è dissipato”.

 

Gianni Letta, invece? “Ricordo che una volta ci incontrammo io e Berlusconi a casa di Letta. E c’era Berlusconi che manifestava con grande capacità espressiva tutta la sua noia per gli affari correnti di Palazzo Chigi, per tutti gli impicci che gli toccavano con gli alleati di governo. ‘Meno male che c’è Letta, perché senza di lui non saprei come fare’, diceva Berlusconi. Ed è vero. Senza Letta lui non sarebbe sopravvissuto a Roma”. Lei lo stima Letta. “Anche nei momenti più tesi ha cercato la pace”. Quando Repubblica attaccava. “Letta ha sempre capito che il giornale va per i fatti suoi, e che io non intervengo in nessun modo. La pace la cercava per la vicenda Mondadori. Sovente Letta cercò di trovare una via di conciliazione che tuttavia risultò sempre impossibile”. E perché? “Basta rileggere le interviste che Marina Berlusconi rilasciava in quel periodo al Corriere della Sera, a Daniele Manca. Tutta una vicenda che si è conclusa con l’atto, per loro doloroso, di staccare un assegno”. Di circa cinquecento milioni di euro. “Euro che sono andati tutti alla Cir”, la holding di famiglia. “Io non ho incassato niente. E la Cir l’ho regalata ai miei figli. Ho già sistemato la successione patrimoniale, da vivo e da sveglio. Per evitare problemi in futuro. Così si fa”.

 

Anche il Cavaliere sta sistemando un po’ di cose: ha venduto per esempio Mediaset Premium a Vincent Bolloré. I francesi mettono un piede nel sistema italiano. “La mia convinzione è che Mediaset diventerà proprietà di Vivendi, e Telecom sarà venduta a Orange”. E i capitali stranieri sono un male o un bene? “La nazionalità dell’azionista di maggioranza non conta, dal punto di vista dell’azienda. Ma dal punto di vista più generale, del paese, sì, conta moltissimo”. E cioè? “Mettiamo che il più grande produttore di acciaio francese acquisti l’Ilva di Taranto. E mettiamo che a un certo punto i francesi, per ragioni di mercato, strategiche, per un motivo qualsiasi, siano costretti a ridurre la produzione. Avrebbero più riguardo per l’Ilva o per le installazioni francesi?”. Un tempo c’era il salotto buono. “E non era meglio. Anche quello era un sintomo di debolezza”. Comandava Enrico Cuccia. “Un grande cinico dominato da una visione pessimista del capitalismo italiano, che lui ha sempre cercato di sostenere con scelte discrezionali. Una volta mi disse che ero un pazzo, quando volevo fare la telefonia cellulare. Mi negò i finanziamento per lanciare la Omnitel. Io trovai i quattrini in America. E fu un successo strepitoso”. Era il secolo dell’Avvocato Agnelli. “L’uomo più affascinante, complesso che abbia conosciuto”. E Umberto? “Gran lavoratore, infelice e sottovalutato. Era anagraficamente condannato a subire l’ombra gigantesca dell’Avvocato”. Litigaste, quando lei uscì dalla Fiat. “Non ci siamo mai più parlati”. E con l’Avvocato? “Ci vedevamo a Sankt Moritz, dove eravamo vicini di casa. Ogni tanto mi chiamava a telefono. Credo lo facesse soprattutto per fare un dispetto a Romiti. Si divertiva a osservare le impercettibili contrazioni sulla faccia di Romiti mentre gli diceva: ‘Ho appena parlato con l’Ingegner De Benedetti’”.

 

[E qui De Benedetti apre una parentesi, rievoca un’immagine dell’Agnelli più cinico, ma anche sorprendente, meno superficiale di quanto non possa apparire nell’analisi dei caratteri e del destino umano. “Quando morì Raul Gardini chiamai a casa dell’Avvocato, per avvertirlo. Avevo incontrato Gardini il giorno prima, a colazione, e non mi sembrava affatto uno che stava per suicidarsi. Erano le otto del mattino. ‘Avvocato, Gardini si è sparato’. E lui, che forse la notizia l’aveva già digerita: ‘Una cosa tipica da giocatore di poker’”. Per Agnelli era come se Gardini, coraggioso e spregiudicato, amante del rischio, avesse sempre avuto addosso il marchio dell’avventuriero da grande albergo]

 

Con l’Avvocato pare condividessero un archivio di sott’intesi, d’allusioni segretamente umoristiche. “Nella mia vita è prevalsa l’immagine di uno che è molto rigoroso nel lavoro. Forse di una persona un po’ brutale. Ma guardi, le cose che mi piacciono di più sono quelle spiritose… In particolare le barzellette sugli ebrei. E tenga conto che mio padre era ebreo, il nostro cognome ebraico è Ben Baruch, e io stesso mi sento assolutamente ebreo”. E allora tira fuori dal telefonino la fotografia di un necrologio, tratto da un giornale americano, il Michigan Tribune, gliel’ha inviata un amico. E’ una singolare spiritosata. “Legga”. C’è scritto all’incirca questo, in inglese, sotto la foto di una signora morta quel giorno: “Di fronte alla prospettiva di dover votare per Donald Trump o Hillary Clinton, Mary Anne Noland di Richmond, ha preferito consegnarsi all’eterno amore di Dio nella domenica del 15 maggio 2016”. De Benedetti se ne sta fermo, in una immobilità di Budda, gli occhi che mandano brevi scintille di divertimento. “Un necrologio così? Fantastico!”.

 

E lei invece chi voterebbe in America? “Trovo la Clinton algida. Ma nemmeno voterei mai per Trump”. Le piace invece il nuovo sindaco di Londra, Sadiq Khan. Il sindaco islamico. “E’ una grande prova di integrazione e civismo che Londra non abbia problemi a farsi governare da un musulmano”. E per provare il civismo bisogna farsi governare dai musulmani? “Ma non l’hanno eletto perché era musulmano! Semplicemente non hanno considerato che la sua religione fosse ostativa. Mi piace anche molto l’idea che Khan non venga dalle grandi scuole private e dalle università della classe elevata britannica”. La risorsa della marginalità? “E’ ciò che ha fatto grande l’America: l’ascensore sociale”. E però l’Inghilterra potrebbe uscire dall’Unione europea. “La Brexit non ci sarà. Gli inglesi non sono pazzi. Sono un eccellenza diplomatica, tutelano sempre i loro interessi, contrattano. E Cameron ha già ottenuto condizioni di favore”.

 


E l’Avvocato? “Ci vedevamo a Sankt Moritz, dove eravamo vicini di casa. Ogni tanto mi chiamava a telefono. Credo lo facesse soprattutto per fare un dispetto a Romiti” (nella foto Orson Welles in “Quarto potere”)


 

Anche in Italia, a ottobre, ci sarà un referendum: quello sulla riforma della Costituzione. Lei come voterà? “Non ho ancora deciso. La Costituzione non è intoccabile, e penso vada rivista. Ci si è già provato tante volte. Ma ci sono dei ma”. E a questo punto l’Ingegnere si appoggia allo schienale della poltroncina, assume un tono didascalico: “Intanto trovo bizzarro il nuovo Senato. Io l’avrei eliminato. E’ ridicolo dire che ridurre il numero dei senatori crea un risparmio, quando i costi sono tutti nella struttura. Secondariamente ho dei dubbi sugli effetti che potrebbe avere l’accoppiata tra questa riforma e la nuova legge elettorale. Vede, Renzi è un democratico, non c’è dubbio. Ma gli altri, i populisti? Che succede, e non è certo escluso, se vincono quelli?”. Cioè lei teme Grillo. “Grillo è un attore comico”, risponde De Benedetti, recuperando il tono spavaldo e l’intensità scontrosa dello sguardo. “Io temo l’incognito. Temo il buio. Credo che la Costituzione vada riformata, sì, ma in modo tale che possa essere adatta a funzionare a lungo, a durare nel tempo, e sempre a garanzia della dialettica democratica”. Mi guardo bene dall’aprire il dibattito.

 

Ma se la pensa così, forse, l’Ingegnere ha già deciso, anche se non lo confessa nemmeno a sé stesso: è per il no. Come Eugenio Scalfari. Come Massimo D’Alema. Però mormora questo: “Siamo un paese di vecchi che per fortuna non accetta più d’essere governato dai vecchi, e lo dice uno che va per gli ottantadue. Quelli come me devono mettere a disposizione le proprie esperienze, e non necessariamente le proprie idee”.

 

Sull’editoria le idee sembrano chiare, però. “Se la Stampa diventasse Repubblica o se Repubblica diventasse la Stampa, sarebbero entrambi giornali morti”, sentenzia. E allora non ci sarà mai una vera fusione, nessun giornale unico, non ci sarà un’identità a prevalere: il rigore (della Stampa) che sostituisce la battaglia (di Repubblica), o viceversa. “La Stampa è il giornale regionale con apertura e respiro internazionale, un’identità confermata dalla scelta di Maurizio Molinari alla direzione. La Stampa è ‘la bisarda’, la bugiarda, come la chiamano affettuosamente i torinesi, per i quali non comprarla è un’eccezione”. E Repubblica cos’è? “Il severo e talvolta impietoso ‘watch dog’ del potere. Ricordiamoci che Repubblica è stata contro un certo modo d’essere democristiani, poi è stata contro Craxi, in fine è stata contro Berlusconi. E’ il giornale che ha denunciato, in tutte le sue forme, il disprezzo di Berlusconi per ogni regola istituzionale. Guardi, Repubblica è sinonimo di battaglia politica e civile”. Anche con Matteo Renzi a Palazzo Chigi? “E’ l’unico giornale capace di dirgli quando sbaglia, e con autorevolezza, senza sembrare capzioso”. E’ stato scritto che avete chiamato Mario Calabresi a dirigere Repubblica, dalla Stampa, proprio perché già pensavate di portare il giornale di Torino nel gruppo Espresso. “Capisco che la consecutio degli eventi possa averlo fatto pensare, ma è una stupidaggine. Calabresi è nato a Repubblica e torna a Repubblica, casa sua.  E’ stato il primo e l’unico nome per la direzione. Quando Mauro ci disse che accusava una certa stanchezza, che voleva dedicarsi a scrivere, per noi la scelta del successore è stata immediata: Calabresi”. A proposito: da ieri si polemizza sull’assunzione di Michele Ainis a Repubblica. Un consigliere d’amministrazione della Cir, la vostra Cir, parla di un teorico conflitto d’interessi perché Ainis fa parte dell’Antitrust, il garante che deve giudicare la fusione tra Stampa e Repubblica. “E’ strano come persone che per professione dovrebbero essere preparate su questi argomenti caschino in imbecillità così clamorose dimostrando che contrariamente alle aspettative sono ignoranti. Che conflitto vuole che ci sia? Quella dell’Antitrust è una prassi obbligata: la legge è rigida e dice che nessun editore può avere più del 20 per cento delle copie. Noi dobbiamo ridurre la tiratura. E lo faremo. Bisogna semplicemente rientrare nei limiti di legge. E’ tutto già deciso”.

 

Curiosità. Dicono che suo figlio Rodolfo non ami l’editoria. “Non direi che sia vero. E’ vero che io vivo l’editoria con passione, e lui con razionalità. Guardi, è una questione d’indole, di carattere. Ognuno ha il suo. Lui è molto serio, ha un’intelligenza analitica che può essere scambiata per freddezza dai superficiali, mentre io mi faccio sempre spingere da un’entusiastica follia. Tutto qua”.

 

L’entusiasmo riguarda anche la politica. “Certo”. Domenica si vota, a Roma chi le piace? “Roberto Giachetti. E’ un uomo onestissimo, è romano, conosce la città, è stato capo di gabinetto del primo Rutelli, che è stato secondo me il miglior sindaco, e in più ha pure una formazione radicale. Giachetti potrebbe diventare una figura sorprendente in Campidoglio”. E Alfio Marchini? “Sono amico di Marchini, ma l’ho detto anche a lui: ‘Potevi avere delle chance come outsider, però sei diventato la seconda scelta di Berlusconi e ti sei suicidato’”. Eppure Marchini ha charme, quello che manca alla Roma sporca e degradata, che perde prestigio. “Guardi, con lo charme non risolvi il problema della monnezza e dei trasporti pubblici”. Così chiedo a De Benedetti se a lui capita mai di salire su un autobus. “Mai”. E sa quanto costa un litro di latte? “Non ne ho idea”. Gli uomini molto ricchi sono esposti al rischio severo di perdere il contatto con la realtà. Questo non le fa paura? “Un po’”, dice. “Però mi difendo con la curiosità, m’informo, leggo, sono attivo con la testa. E poi, appena posso, a Dogliani giro a piedi, il sabato mi siedo al tavolino del bar sulla piazza, ascolto, parlo con gli avventori”. E a questo punto, ammiccando, l’Ingegnere racconta forse la cosa più normale che gli è capitata nella vita: il servizio militare negli Alpini. “C’era un tipo che mi pisciava addosso tutte le notti, dormiva nella branda sopra la mia. Diceva d’essere incontinente. Andai da un ufficiale a lamentarmi. E quello: ‘Comprati una plastica’. Così per mesi ho dormito con la cerata sulla testa. Poi un giorno il commilitone che pisciava mi raccontò la verità: ‘Meno male che sei andato a lamentarti. Non ci speravo più. Pisciarti addosso è l’unico modo che ho per farmi riformare’”.

 

[E così dicendo, mentre batte con la mano sinistra sul bracciolo della poltrona, scopre appena il polso: s’intravede allora come una macchia scura, semi nascosta, sotto l’orologio d’oro (“colleziono vecchi Rolex e Patek Philippe”). Ma lei ha un tatuaggio! “Una domenica, a Honk Kong, non sapevo che fare, mi annoiavo, e allora mi sono fatto tatuare una farfalla”, dice, con un mezzo sorrisetto offuscato. “Avrò avuto quarantacinque anni… Però, vede, è discreto, nascosto… torinese”. Nel ventunesimo secolo il tatuaggio è diventato una banalità conformista, ma nel 1979, e per un membro dell’establishment, era evidentemente un dettaglio libertino]

 

Qual è il suo più grande successo imprenditoriale? “Quello da cui tutto è cominciato, la trasformazione dell’azienda di mio padre, che aveva una cinquantina di dipendenti, in un’azienda come la Gilardini: con più di 1500 dipendenti e quotata in Borsa. Il 60 per cento della Gilardini poi la vendetti alla Fiat, quando mi chiamarono a fare l’amministratore delegato, in cambio del 5 per cento delle azioni del Lingotto. Avevo quarant’anni”. Eppure esiste anche un’ampia, gonfia letteratura sui suoi fallimenti… la Olivetti. E Sorgenia. “Di Sorgenia non mi sono mai occupato”. E’ l’azienda di Rodolfo. “E’ un’azienda che è andata male come sono andate male tutte le aziende di energia nell’era delle rinnovabili. Quanto alla Olivetti: ma che fallimento? Se lei entra in un’azienda di macchine per scrivere e calcolatrici meccaniche tecnicamente fallita, che sarebbe un po’ come entrare nella Coca cola in un mondo in cui più nessuno beve le bevande marroni zuccherate, e la trasforma in un’azienda di personal computer capace di vendere più della Ibm, questo lo considererebbe un fallimento?”. Ma adesso non c’è più la Olivetti. “E’ l’unica azienda di computer al mondo che si è riconvertita in un’azienda di telefonini. Feci la Omnitel. E se questo non è un successo vuol dire che uno è ignorante, o ce l’ha con me. Io poi non avrei venduto, ma Colaninno decise diversamente. Con quei soldi Colaninno ci scalò la Telecom. Per logica storica oggi Telecom si dovrebbe chiamare Olivetti”.

 

Ai tempi della Olivetti Cdb fu coinvolto in Tangentopoli. Ammise di aver pagato tangenti per dieci miliardi di lire ai partiti di governo al fine di ottenere una commessa dalle Poste. Nel 2003, dopo un lunghissimo processo, è stato assolto da alcune accuse e prescritto per altre. Che ricorda di Mani pulite? “Che fui arrestato su mandato di cattura firmato da Augusta Iannini, la moglie di Bruno Vespa. Quella mattina dovevano essere arrestate tre persone: io, Gianni Letta e Adriano Galliani. Ma la dottoressa Iannini disse che non poteva firmare gli arresti di Letta e Galliani, perché li conosceva ed era influenzata dalle frequentazioni del marito. Il mio arresto invece lo firmò. Forse quello che valeva per Letta e Galliani poteva valere anche per me. Viaggiai da Milano a Roma su un’auto civetta dei carabinieri che mi depositarono a Regina Coeli. Fui spogliato, sottoposto a perquisizione, anche quella più intima”. E questo stato di coercizione, in realtà indescrivibile, durò sei ore, quattro sillabe: sei ore. Sembra poco. “E invece è tantissimo. Nessuno è forse in grado di descrivere, di misurare, né ad altri né a se stesso, quanto può essere lungo il tempo della coercizione, un tempo fuori dal tempo. Venne anche lo psicologo. Alle 21 dissi al mio avvocato: ‘Guardi, io la notte in cella non la passo. Non ci sono ragioni per trattenermi’. E lui: ‘Sì, la devono scarcerare, ma adesso è impossibile. La Iannini non è in ufficio e non può firmare’. E io: ‘E allora lei vada a casa della Iannini!’. Che alle 22 finalmente firmò”.

 

C’erano arresti, suicidi e grandi speranze. “E’ stata una delusione, Mani Pulite. Non ha risolto niente, ma ha distrutto i partiti. Se lo scopo era quello di combattere la corruzione, è stato un insuccesso. Se lo scopo era quello di dare maggiore prestigio alla magistratura, la discesa in politica di Di Pietro ha offerto l’idea di un protagonismo interessato in partenza”. E lei non è mai stato tentato dalla discesa in politica? “Me lo chiesero e rifiutai. Però ha compensato mio fratello Franco, che è stato senatore con la sinistra per due legislature…”. Il tono si fa ironico. “Desiderava fare una terza legislatura, ma i Ds gli avevano risposto picche. Allora mi chiamò. ‘Potresti chiedere tu a Fassino, che siete amici da anni?’. E io: ‘Certo’. Allora chiamo Fassino, ma non faccio in tempo a dirgli di mio fratello che lui sbotta, in piemontese: ‘Ah, no! Navuma basta’, ne abbiamo abbastanza!”. E qui l’Ingegnere sorride, come illuminato da fiamme sotterranee.

 

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015), Marco Carrai (13 febbraio 2015), Ettore Bernabei (17 marzo 2015), Umberto Bossi (5 aprile 2015), Paolo Del Debbio (8 settembre 2015), Simona Ercolani (2 ottobre 2015), Raffaele Cantone (1 febbraio) e Milo Manara (18 febbraio), Francesco Paolo Tronca (26 febbraio 2016), Raffaele La Capria (11 marzo 2016)

 

 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.