Cristiani in segreto
Un crescente numero di rifugiati musulmani in Europa si sta convertendo al cristianesimo, scriveva la scorsa settimana il quotidiano inglese Guardian in un’inchiesta che travalicava i confini dell’isola britannica. I numeri sono eloquenti, “stando a quanto riferiscono le chiese impegnate in battesimi di massa un po’ ovunque”, si sottolineava. La chiesa cattolica austriaca ha registrato trecento domande per il battesimo di adulti nei primi tre mesi del 2016 e l’Isitituto per la pastorale del paese stima che il settanta per cento di queste richieste sia stato inoltrato da rifugiati pronti alla conversione. La congregazione della chiesa della Trinità nel sobborgo di Steglitz, a Berlino, è passata dai centocinquanta membri di due anni fa ai settecento di oggi, e l’aumento è dovuto ai musulmani convertiti, ha detto il pastore Gottfried Martens. A Liverpool, tra le cento e le centoquaranta persone partecipano alla messa settimanale in lingua farsi e la maggiorparte di esse sono immigrate dall’Iran e dall’Afghanistan. Uno su quattro, stando all’indagine compiuta dal vescovo di Bradford, Toby Howarth, è un convertito dall’islam. Per lo più si tratta di richiedenti asilo.
Il tema della conversione è questione delicata, di quelle che le alte gerarchie manovrano con estrema attenzione. Pubblicamente se ne parla poco, perché il rischio di alimentare tensioni con il mondo musulmano è assai elevato, soprattutto nell’attuale fase storica che vede il fondamentalismo di stampo islamico in rapida ascesa nel vicino e medio oriente nonché in Africa, dove la religione è strumentalizzata al punto da essere considerate il perno attorno cui ruotano i conflitti in corso. Ogni parola sul tema è centellinata, a regnare è l’estremo equilibro e ciò non solo perché ormai il dialogo è la strada maestra tracciata da decenni. “La chiesa cresce, ma non è per fare proselitismo: non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, l’attrazione della testimonianza che ognuno di noi dà al popolo di Dio”, diceva Francesco chiarendo i termini della discussione.
La prospettiva deve essere diversa, e ha al centro l’evangelizzazione, che è “essenzialmente connessa con la proclamazione del Vangelo a coloro che non conoscono Gesù Cristo o lo hanno sempre rifiutato”, scriveva il Papa nella Evangelii gaudium, il documento programmatico del pontificato. Cifre ufficiali non esistono, stime anche statistiche non sono disponibili, ma è indubbio – e sono ancora le prudenti parole di Bergoglio a constatarlo – che molti di quanti non conoscono Gesù o lo hanno rifiutato “cercano Dio segretamente, mossi dalla nostalgia del suo volto, anche in paesi di antica tradizione cristiana”. E “tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo”. Non si tratta di imporre “un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile”. Un paio di settimane fa era stato il cardinale svizzero Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la Promozione dell’unità dei cristiani, ad affrontare l’argomento, intervenendo a un convegno interreligioso ospitato al Woolf Institute dell’Università di Cambridge: “Noi abbiamo la missione di convertire tutti quanti appartengono a religioni non cristiane”, diceva il porporato, aggiungendo però “che è importante farlo con una testimonianza credibile e senza alcun proselitismo”. E’ bastato usare il verbo “convertire” per scatenare l’atteso putiferio, con addirittura l’intervento del direttore della Sala stampa vaticana a rettificare le parole di Koch, precisando che quanto riportato dai giornali non corrispondeva a ciò che in realtà il cardinale aveva detto. Ma quest’ultimo aveva chiarito subito che il proselitismo non può essere la ricetta per ripopolare una chiesa che a determinate latitudini (le nostre) soffre per un generale intorpidimento che va ben al di là delle chiese vuote la domenica per la messa. Koch portava a esempio proprio i musulmani, benché il suo riferimento principale fossero i jihadisti, che sotto le insegne del credo religioso perseguono fini politici: “Dobbiamo soprattutto convertire loro che usano la violenza perché quando una religione usa la violenza per convertire gli altri questo è un abuso della religione”.
L’attrazione di cui parlava il Papa è chiara nella testimonianza di Johannes, un iraniano che sempre al Guardian ha raccontato come è nata (e perché) la sua conversione. Nato in una famiglia musulmana, si chiamava Sadegh. All’università ha iniziato a farsi qualche domanda sulle radici dell’islam e “ho riscontrato che la storia dell’islam era completamente diversa da come l’avevamo imparata a scuola. Forse, ho pensato, era una religione che si era affermata con la violenza”. Ma – sono sempre le parole di Johannes, che ora vive a Vienna – “una religione che muove i primi passi con la violenza non può condurre le persone alla libertà e all’amore. Gesù Cristo ha detto che chi di spada ferisce, di spada perisce. Questo ha cambiato davvero il mio modo di pensare”. Johannes iniziò il suo percorso di conversione in Iran, ma ben presto fu costretto a lasciare il paese.
Certo, il rischio di chi cerca il battesimo sperando d’avere più possibilità di ottenere l’asilo c’è. Proprio per questo, lo scorso anno la Conferenza episcopale austriaca pubblicò le nuove linee guida per i sacerdoti, avvertendo che molti rifugiati avrebbero potuto tentare l’ingresso attraverso la conversione. “Ammettere al battesimo persone che durante le procedure sono state classificate come ‘non credibili’ comporta una perdita della credibilità della chiesa stessa”. Ecco, quindi, che dal 2014 è previsto un periodo di preparazione in cui si verifica la volontà di compiere il passo. “Non siamo interessati ad avere cristiani pro forma”, spiega Friederike Dostal, che coordina i corsi ad hoc dell’arcidiocesi viennese. E’ ancora il pastore Martens, però, ad allontanare i dubbi – anche sulla sua congregazione, che battezza i musulmani dopo solo tre mesi di catechesi: “Molti sono attirati dal messaggio cristiano, che cambia loro la vita”. A non mettere più piede in chiesa dopo la conversione è più o meno il dieci per cento, dice.
Di casi come quello di Johannes ne esistono altri, anche in realtà dove l’attrazione parrebbe essere impossibile. E’ il caso dell’Arabia Saudita, ad esempio, dove il numero dei cristiani è in crescita nonostante non siano ammessi altri culti al di fuori di quello di stato, l’islam. Stime, anche qui, non ci sono. Ci si basa sui segnali, sui pochi dati a disposizione. Secondo questi, i cristiani nel paese wahaabita sarebbero poco più d’un milione, la maggior parte lavoratori stranieri. L’organizzazione Open Doors, che da sempre lavora per i cristiani perseguitati ovunque nel mondo, ha di recente rilevato che anche tra i sauditi le conversioni – naturalmente segrete – sono in aumento. L’esempio citato è quello di Mohammed (nome di fantasia), che si è convertito al cristianesimo dopo aver iniziato a spulciare qualcosa su internet. Ha incontrato qualche cristiano al di fuori dei confini del regno saudita ed è entrato per la prima volta, e sempre in un paese del medio oriente, in una chiesa, iniziando a studiare la Bibbia. Dopo pochi giorni, gli è stato domandato chi fosse Gesù. “E’ il mio salvatore, il mio Dio”, ha risposto. Da lì, il battesimo prima di tornare in patria, senza che nessuno lo sappia.
Una chiesa in Siria (foto LaPresse)
Una storia non troppo disimile da quella dello scrittore Nabeel Qureshi, autore del libro “Cercare Allah, trovare Gesù”. Qureshi ha raccontato più volte, anche pubblicamente, la sua esperienza di giovane musulmano in occidente che veniva ammonito in continuazione sui rischi di “contaminazione” con i coetanei cristiani. “I primi versetti del Corano che io e gli altri ragazzi memorizzammo nella nsotra moschea proclamavano che Dio non è padre né figlio. Lo recitavo già all’età di sei anni. Imparammo anche che Maometto era il più grande messaggero di Dio, e nessun uomo più perfetto di lui era vissuto su questo pianeta. Non è difficile capire come feci a diventare uno strenuo oppositore della Trinità”, ride oggi. Anche qui, decisivo è stato un incontro: un amico, David, capace di reggere il confronto su base quasi teologica. E alla fine, pur tra mille dispute, liti e confronti serrati perfino sull’attendibilità dei vangeli e della crocifissione di Cristo, la svolta, che potrebbe riguardare anche molti giovani contemporanei: “Capirebbero che la visione cristiana di Gesù è molto più coerente rispetto a quella che del nazareno hanno i musulmani. Potrebbero accorgersi che l’islam è costruito su fondamenta molto più deboli del cristianesimo. E potrebbero smettere di allontanare le persone da Gesù, proclamando il Vangelo. E’ successo a me, può capitare anche a loro”.
Che il tema sia delicato lo dimostra il Sinodo sull’evangelizzazione del 2012, che di conversioni dall’islam al cristianesimo ne discusse, seppur senza riscuotere troppo clamore all’esterno dell’Aula nuova ove erano riuniti i padri. A fotografare la situazione ci pensò Béchara Boutros Raï, Patriarca di Antiochia dei maroniti, creato cardinale l’anno successivo da Benedetto XVI nel suo ultimo concistoro: “L’evangelizzazione nei paesi arabi è messa in atto in modo indiretto, all’interno delle scuole cattoliche, delle università, degli ospedali e degli istituti appartenenti alle diocesi e agli ordini religiosi aperti sia ai cristiani che ai musulmani. L’evangelizzazione indiretta è praticata soprattutto tramite i mezzi di comunicazione sociale, in particolare quelli cattolici che trasmettono le celebrazioni liturgiche e vari programmi religiosi. Constatiamo tra i musulmani conversioni segrete al cristianesimo”. Raï, nel pieno dello sconvolgimento politico e sociale che infiammava il Maghreb e il vicino oriente, parlò dell’avvento d’una “primavera cristiana che condurrà, per grazia di Dio e grazie a una nuova evangelizzazione illuminata, a una vera primavera araba della democrazia, della libertà, della giustizia, della pace e della difesa della dignità di ogni uomo, contro tutte le forme di violenza e di violazione dei diritti”. Si pensi solo al Marocco, dove in quindici anni la presenza cristiana è triplicata e i neofiti appartengono soprattutto alle classi medio-alte, che vedono nel cristianesimo “una religione della tolleranza e dell’amore”, rispetto a un islam troppo restrittivo. Abd al Halim, medico e coordinatore della locale chiesa anglicana, spiegava l’anno scorso che “la religione può essere praticata solo in segreto”, essendo il credo musulmano religione di stato. “Siamo costretti a pregare come fossimo un’associazione segreta, al punto che siamo stati costretti a dividerci in due gruppi distinti per evitare di attirare l’attenzione”.
Una prova della crescita delle conversioni anche nelle aree a forte predominanza islamica la offrì il Patriarcato latino di Gerusalemme, che raccontò la storia delle conversioni al cristianesimo in Egitto, il paese arabo con più cristiani tra i suoi residenti. Numeri esatti non ce ne sono, anche perché “coloro che si convertono rischiano procedimenti giudiziari o addirittura la morte se la loro conversione diventa pubblica”. E’ una “chiesa delle catacombe”, così definita – proseguiva la nota del Patriarcato – “non tanto per il confronto col governo, come può accadere in Cina o in altri paesi asiatici, ma per proteggersi dalle vendette della comunità di origine dei nuovi cristiani”. Il fattore che innesca il processo è quello più terribile: “Nelle persecuzioni, cioè nel momento in cui una conversione sembrerebbe più improbabile, più pericolosa, il messaggio di Cristo si fa strada. E’ proprio questo che pensano i cristiani: essi sono colpiti e più ancora incoraggiati a far conoscere la loro chiesa che cade, ma per rialzarsi ogni volta”.
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