Il nostro far west
Da circa trent’anni, il cinema e la fiction italiana sono diventati la prosecuzione dell’antimafia con altri mezzi. Niente a che fare con “Squadra antimafia” di Bruno Corbucci, film del 1978 con Tomas Milian col Borsalino, Bombolo che chiede il pizzo, gli inseguimenti a Trastevere, le musiche dei Goblin e parecchie tette in vista. Semmai ora c’è “Squadra antimafia - Palermo oggi”, serie crime di Valsecchi piena di zigomi, spari, giubbetti di pelle, con Fabrizio Corona ingaggiato per fare uno spietatissimo boss catanese chiamato “Il Catanese” (“ho improvvisato senza leggere il copione, è andata benissimo”, diceva in quei giorni con la t-shirt del “Padrino” addosso) e con gli altri attori della serie costretti a fare i testimonial nelle scuole durante “l’ora di legalità”. Perché la mafia uccide solo d’estate, ma l’antimafia si fa tutto l’anno. Con il “Godfather” di Coppola gli americani hanno inventato il moderno “mafia-movie”, dove il termine indica un sottogenere del filone gangster a base italo-americana, possibilmente con due famiglie che si fanno la guerra, l’epica della violenza e un diffuso, poderoso senso del tragico. Noi però abbiamo inventato l’antimafia-movie. Una serie interminabile di film e fiction a base istituzionale e finanziamento statale, con almeno un eroe morto ammazzato, la verità insabbiata, le infiltrazioni al nord, Tony Sperandeo e un’anteprima alla presenza del presidente del Senato, onorevole Pietro Grasso. Se c’è una madre coraggio, alla presenza dei presidenti di Camera e Senato. Una “alluvionata di retorica” diceva Sciascia a proposito della cultura dell’antimafia nel celeberrimo, contestato e incompreso articolo del 1987 sui professionisti dell’antimafia (indignò anzitutto il titolo, che ovviamente non era suo). Assai prima che l’antimafia diventasse un business attorno a cui girano parecchi finanziamenti europei, assai prima che si riempisse di fiaccolate, catene umane, agende rosse, tessere di Libera, parenti delle vittime candidati alle elezioni, lenzuola bianche ai balconi, Sauvignon fatti con uva mafiosa e “miele della legalità”. Specificava subito Sciascia che “l’alluvionata di retorica era preferibile all’effettuale indifferenza di prima”. Ma tant’è. L’antimafia è stata prima mezzo di battaglia politica, usata per lo più a sinistra in funzione anti Dc, poi questione istituzionale, eventuale mezzo di carriera politica e calpestamento del garantismo (quel che più insospettiva Sciascia); infine forma culturale, ovvero pensiero unico e inattaccabile dell’antimafia che accompagna il cittadino dall’asilo all’università, incitandolo a ribellarsi contro tutte le mafie e le ecomafie, le mafie capitali, regionali, provinciali, trovando nel cinema e nella fiction uno dei luoghi di elaborazione prediletti.
Da dove viene e come funziona la retorica dell’antimafia-movie? Non era poi così alluvionata di retorica “La piovra”, arrivata su Rai Uno l’11 marzo del 1984, all’alba della concorrenza delle tv private, quando le serie televisive si chiamavano sceneggiati. All’inizio doveva essere una specie di dramma intimista, pirandelliano. Si intitolava “Il romanzo di Loris” e raccontava la malinconica solitudine di un poliziotto che non riesce a compiere le sue indagini e allora ci scrive sopra un diario che diventa un romanzo autoriflessivo, con l’impossibilità del giallo, la mise en abyme e quella roba lì. Forse sarebbe piaciuto a Sciascia. Difficilmente però avrebbe fatto otto milioni di spettatori al debutto, raddoppiandoli poi in occasione dell’ultima puntata. Nella “Piovra” funzionò tutto. Ricorda lo sceneggiatore Ennio De Concini: “Ci occorreva un titolo secco, in grado di evocare qualcosa di misterioso, pensammo all’Ovra, la polizia segreta di Mussolini”. Una parola che apriva un mondo. Per quelli che non sapevano cosa fosse l’Ovra, c’era l’eco di “Octopussy - Operazione Piovra”, tredicesimo film di James Bond con Roger Moore, uscito al cinema pochi mesi prima. C’erano i rimandi cinematografici che nobilitavano lo sceneggiato in chiave artistica e impegnata: il copione di De Concini, la regia di Damiano Damiano che aveva fatto “Il giorno della civetta”, la musica di Riz Ortolani. Una precoce operazione di “quality tv” con cui la Rai si difendeva dalle insidie di Canale 5; “portare sui teleschermi storie italiane di oggi serve a sottrarci per qualche ora alla colonizzazione culturale di Dallas”, scriveva Repubblica annunciando l’arrivo della “Piovra”. La vicenda poi si muoveva abilmente sul doppio registro dell’impegno e dei sentimenti, intrecciando lotta alla mafia e vicende famigliari del commissario Cattani, con il pubblico femminile catturato per la prima volta dentro un genere tipicamente maschile. Cattani era bello, malinconico, solitario. Tutte le telespettatrici erano innamorate di lui e scrivevano lettere infuocate ai giornali. Nella prima scena, dopo le immagini della cronaca di un delitto di mafia, ce lo presentano mentre litiga con la moglie, poi una telefonata, l’offerta di prendere servizio in Sicilia, la riappacificazione, lei che dice: “Non ci sono mai stata in Sicilia, chissà forse un’esperienza così nuova, diversa, potrebbe aiutarci a riaccendere tutto tra di noi”, ed è subito scene da un matrimonio. E poi tradimenti, vendette, ferocia, ricatti, complotti più il sempiterno fascino degli italiani per le trame occulte, gli insabbiamenti, le segrete stanze. “Con ‘La piovra’ – ha scritto Enrico Deaglio – gli italiani hanno imparato che la mafia è feroce, che manovra bilanci incredibili e che esistono nello stato molti pavidi e collusi e alcuni, pochi coraggiosi idealisti”. Lo imparavano in parallelo con le rivelazioni di Tommaso Buscetta, estradato dal Brasile in Italia nell’anno della “Piovra” per i primi colloqui con Falcone.
Michele Placido nella serie televisiva "La piovra".
La ricostruzione di questa struttura coesa, ad alveare, composta di uomini d’onore, famiglie, mandanti, commissioni, livelli intermedi (oggi “mondo di mezzo”), capi e capo dei capi lasciava intravedere agli italiani una organizzazione perfetta quanto implacabile, cresciuta spontaneamente dentro uno stato in cui non funziona mai nulla. Nei film di mafia, soprattutto dal “Padrino” in avanti, un certo fascino per il mondo del crimine si esercita a tutte le latitudini. Però, come notato dagli osservatori stranieri, gli italiani ci mettono in più una sotterranea ammirazione per una forma associativa che, a differenza di tutte le altre con cui hanno a che fare, funziona benissimo. A noi bambini degli anni Ottanta, la mafia della “Piovra” ci sembrava peggio della Spectre. Era il Male con tutti i suoi corollari: politica corrotta, alta finanza, violenza spietata. La puntata in cui morì Cattani (20 marzo 1989, quarta stagione) fu una specie di rito collettivo, una catarsi nazionale. I giornali si bloccarono per settimane. La Eri lanciò un concorso per indovinare la fine dell’eroe (muore? Molla tutto e va in Venezuela? Si fa prete?). Cattani muore. Pochi anni dopo però gli cresce la barba e diventa Giovanni Falcone nell’omonimo film di Giuseppe Ferrara, uscito a ridosso della strage di Capaci. Siamo già in pieno antimafia-movie (Ferrara è un professionista dell’antimafia-movie, autore di “Il sasso in bocca”, “Cento giorni a Palermo”, “Segreti di stato”, “Donne di mafia”, creatore di prove schiaccianti presentate con inserti in bianco e nero, ovvero “momenti di verità”, dialoghi a forma di sentenze e spiegazioni à la “Report” del circuito mafia-politica-finanza già in aria di “trattativa”). Cinema per smuovere le coscienze, sensibilizzare, denunciare. “Il Padrino” non andava mica bene. Un film “elusivo, insignificante, di grana grossa, senza stile”, come scriveva “L’Unità” insieme a parecchi giornali italiani dell’epoca che lo stroncarono. Già, che ne facciamo di tutto quel senso del tragico, dell’epica dei “bravi ragazzi”, dei morti seppelliti nei deserti di “Casinò” con la Messa in si minore di Bach? A noi servono denunce, trame occulte, lacrime e funerali con la fascia tricolore. Gli eroi delle fiction di mafia diventano tutti Perlasca. Un racconto dei giusti sempre uguale a se stesso, col bene di qua e il male di là. Uno schema replicabile all’infinito sotto l’arcobaleno dell’antimafia in un girotondo civile che intreccia “I cento passi” e “La meglio gioventù”. Peppino Impastato diventa una canzone dei Modena City Ramblers da infliggersi almeno una volta all’anno al concertone del primo maggio insieme a “Bella Ciao”.
Così teniamo insieme tutto, l’Anpi, Falcone, la Cgil, Placido Rizzotto, Portella della Ginestra, Montalbano e Borsellino. “Se tutto è mafia, niente è mafia”, scriveva Sciascia recensendo “Mafioso”, film di Lattuada del 1962 con Alberto Sordi con la coppola spedito a New York per fare un “piacerino” agli amici che però, come quasi tutti i film di mafia, non gli era piaciuto. Una frase che funziona ancora meglio con l’antimafia. “Quando parliamo di lotta alla mafia”, scrive Giacomo Di Girolamo in “Contro l’antimafia”, “non sappiamo neanche più di cosa parliamo, ci agganciamo a tutto quello che passa, basta che sia in grado di suscitare emozioni”. Ma c’è emozione e emozione. “Il capo dei capi”, fiction Mediaset sulla carriera di Totò Riina fa arrabbiare un po’ tutti. Antonio Ingroia parlerà di “operazione dannosa e pericolosa iconografia positiva della mafia”, Mastella prova a bloccarla, Camilleri scrive che “l’unica letteratura autorizzata a parlare di mafia dovrebbe essere quella dei verbali di polizia e carabinieri”, in una specie di rilettura siciliana dell’interdizione di Adorno sulla rappresentabilità di Auschwitz, Antonietta Bagarella, moglie di Riina, s’indigna e minaccia querele. Infine, Pietro Grasso: “Serie come ‘Il capo dei capi’ presentano due grandi problemi: trasmettono il messaggio che il poliziotto antimafia sia un super eroe e non una persona comune, e soprattutto mitizzano il mafioso”. Niente super eroi dunque. Giustissimo. Poi un mese fa, ospite all’anteprima dell’ennesima fiction Rai sulla mafia, l’ultima su Boris Giuliano, dichiara che “Boris Giuliano è un mito perché non si era mai visto un poliziotto così forte e impavido con il potere”. La prossima la facciamo con Jeeg Robot.
Cultura dell’antimafia Rai e Mediaset si sfidano dai tempi del Commissario Cattani. Nel 1989, Canale 5 produce “Il Ricatto” che presenta così: “Un kolossal sulla camorra in cinque puntate con Massimo Ranieri che, ne siamo certi, riuscirà a far dimenticare al pubblico della tv il commissario Cattani”. Il “kolossal” va così così e oggi se lo ricordano in pochi. All’epoca, la piovra batteva ancora la camorra, ma eravamo solo al primo round. Alla fine degli anni Novanta, prendono forma due fenomeni che si comprendono ancora meglio se intrecciati tra loro. Da un lato, la trasformazione della geografia del crimine con l’ascesa di camorra e ’ndrangheta. Dall’altro, la smitizzazione dell’universo mafioso con i “Soprano”. Mafiosi dallo psicanalista, mafiosi che cantano nel musical-parodia di Roberta Torre, “Tano da morire”, fino a Pif e “La mafia uccide solo d’estate”. Un meta-antimafia movie tra Forrest Gump e i Soprano, la sintesi tra impegno dei giusti, dovere della memoria e ironia catartica o “il più bel film sulla mafia che abbia mai visto”, come dirà Pietro Grasso. Però la smitizzazione dell’universo mafioso era iniziata almeno con “I due mafiosi” di Franco e Ciccio, che per gli spettatori dell’epoca era la parodia del “Mafioso” di Lattuada con Sordi (e il paio di baffetti siculi di Sordi erano la risposta a quelli di Mastroianni nei panni del Barone Cefalù di “Divorzio all’italiana”). Con buona pace di Sciascia, rivisto oggi “Mafioso” ci sembra uno dei migliori film sul tema. Un meccanismo perfetto. Implacabile nel delineare i processi mentali che annullano le barriere tra uomo comune, piccolo borghese, buon padre di famiglia integrato al nord e comportamenti mafiosi. Con una parte americana che ha un ritmo incredibile e già dentro tutte le facce degli Scorsese e dei Soprano a venire. Poi venne il cinema civile. Venne la sensibilizzazione della coscienze, la cultura della legalità, il film-denuncia, Beppe Fiorello, la Trattativa, le madri coraggio.
L’antimafia si prese tutto lo spazio del mafia-movie. Il successo di “Gomorra la serie” cresce lì dove il film di mafia è diventato film di antimafia. Intrappolato nella retorica, nel messaggio, nella proiezione per le scuole. Invece “Gomorra”, coperto dal paravento della denuncia garantita dal brand Saviano, incarnazione suprema e approdo ultimo della cultura dell’antimafia, può strizzare l’occhio ai gangster di Scorsese e ai padrini di Coppola senza passare da don Puglisi. C’è il male senza il bene, come dice Saviano prendendola un po’ troppo sul serio, ma va bene.
I film di mafia continuiamo a farli, e a un ritmo impressionante. Però all’immaginario della piovra si è sostituita Scampia, o la Mafia Capitale di “Romanzo criminale”, o la ’ndrangheta di “Anima nere” che dopo il cinema potrebbe aprire un nuovo ciclo anche in tv. “Non so più che faccia fare davanti ai morti ammazzati”, diceva Michele Placido arrivato alla quarta stagione della “Piovra” prima di mollare. Già, che altro facciamo? Ora è tornato di moda il cinema di genere anni Settanta. Si potrebbe prendere spunto dalla licantropia clinica di Nitto Santapaola, boss catanese affetto forse da una grave forma di epilessia notturna, forse lupo mannaro per davvero, tant’è che l’operazione in cui lo arrestarono si chiamava “Luna piena”. Beppe Fiorello che fa Santapaola, lupo mannaro a capo di un esercito di zombie mafiosi che escono di notte dai terreni confiscati. Non sarà adatto per le scuole, ma qualche spettatore a “Gomorra” forse lo ruba.
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