Il voto indigesto
La vera e sola storia è il giorno del giudizio”, si diceva nella Nuoro dell’omonimo romanzo di Salvatore Satta, ambientato in una Sardegna lugubre, di “demoniaca tristezza” e in una città di notai, malevolenza, “nidi di corvi”, “donne ricche e pallide” in clausura, vagabondi, preti, pastori e banditi. Ma oggi il giorno del giudizio è allegro quasi solo in Sardegna, a voler guardare il panorama pre-ballottaggi con la lente del centrosinistra, che soltanto nella Cagliari presa al primo giro dal quarantenne sindaco uscente Massimo Zedda può gioire e dire cose come “uniti si vince”, ormai pericolose a udirsi oltre che a farsi (perché altrove non riescono, e se riescono si sfaldano). E se i Cinque stelle si sentono già sindaci di Roma e quasi quasi pure di Torino (anche se in molti altri luoghi arrivano terzi, il giudizio che “pesa” ora per il M5s è quello), e se i dem Roberto Giachetti e Piero Fassino, nelle stesse Roma e Torino, tentano l’uno con le buone (“confronto sui programmi”) e l’altro con le cattive (“ora sarà attacco frontale”) di ottenere o tenere la propria città, il centrodestra cerca di non parlare troppo: è in piedi nonostante le vicissitudini ex-post-neo berlusconiane (e le scissioni), ma è comunque lì a faticare sulla via dei ballottaggi (con il pensiero a B. ricoverato). Intanto però il giudizio, per alcuni, è già qui, chiaro e inappellabile. Ecco una piccola mappa discrezionale dei tonfi (più due vittorie, una morale, una reale).
Stefano Fassina & Giorgio Airaudo, gemelli del gol (mancato). Erano la speranza della debuttante Sinistra italiana, la creatura nata dai cantieri infiniti postvendoliani, mimimetallurgici, intellettuali e anzirenziani (ma non grillini). Solo che la Sinistra italiana, troppo pericolosamente simile alla Sinistra Arcobaleno, caduta dall’Olimpo (con Fausto Bertinotti) e rimasta fuori dal Parlamento nel 2008, non ha volato, non ha colpito, non ha conquistato. Anzi. Succede infatti che Stefano Fassina, deputato ed ex viceministro delle Finanze poi transfuga dal Pd, a Roma si fermi a un 4,4 per cento di voti, e che soltanto un 3,7 per cento di consensi arrivi nelle tasche di Giorgio Airaudo, già stella della Fiom torinese nonché, un tempo, alter ego televisivo di Maurizio Landini, il leader Fiom che doveva buttarsi nell’agone con la sua “Coalizione sociale”, ibrido tra movimento e think tank non partitico, ma che per ora ha preferito, come ha detto quest’inverno al Fatto, smettere addirittura di fare “bau bau” nei talk show. E la delusione pesa, ché a Roma Fassina era partito con una gran carica di buona volontà (anche messa alla prova dalla vicissitudine della lista esclusa e riammessa dalla gara per questioni tecnico-burocratiche), con l’idea di rivoluzionare i trasporti (piani quinquennali per gli autobus) e con un lessico sospeso tra due mondi, quello della sinistra-sinistra e quello bocconiano in cui ha studiato. Solo che, al netto di una campagna elettorale anche agguerrita, e dopo mesi di discussioni e articoli e mobilitazioni (dall’area MicroMega all’area “costituzionalisti in allarme democratico” all’area Rodotà-tà-tà, dal nome del prof. che scaldava i cuori delle piazze e del web), Fassina si ritrova al palo, per giunta con una lite scoppiata dentro e fuori da Sel, azionista della Sinistra italiana ma desiderosa di restare distinta, tanto distinta da dividersi al suo interno, anche post voto, tra favorevoli a un qualche accordo con Matteo Renzi e contrari a qualsiasi accordo con Matteo Renzi.
Stefano Fassina (foto LaPresse)
E c’è chi accusa Fassina e chi lo rincuora, ma il problema è che la sinistra-sinistra è spaccata ancora prima di cominciare, e la “scheda bianca” annunciata non ha aiutato a rasserenare gli animi (c’è chi vorrebbe votare per Giachetti in chiave antipopulista e chi per Raggi in chiave antirenziana: motivo per cui un Fassina-Pilato non convince). E non va meglio ad Airaudo, in quel di Torino. Il sindacalista ha detto, sì, che l’avversaria grillina Chiara Appendino “è la Renzi dei poveri” e che l’avversario pd Piero Fassino è uno che “ha scoperto alle tre di notte, a urne chiuse, che Torino soffre socialmente dopo aver detto per mesi che Torino aveva retto la crisi meglio di altre città”. E ha fatto, sì, Airaudo, come il collega romano Fassina: non sta con questi e non sta con quelli, lasciando “libertà di voto”, ma il dato principale è che neppure al nord l’unione volonterosa delle sinistre procede verso il Paradiso. Airaudo ha spiegato il mancato sostegno al sindaco uscente con la frase “Fassino si è occupato più di fondazioni bancarie che di politiche sociali”, e ha criticato così la candidata a cinque stelle: “Quando dice che affronterà i problemi del lavoro con gli incentivi dei risparmi della politica, mi viene da sorridere…”. E però, delle due l’una: o la sinistra-sinistra non riesce a farsi capire o si fa capire fin troppo bene. In entrambi i casi, l’intendenza non segue.
Roberto Maroni e Irene Pivetti. Il titolo molto inclemente del Corriere della Sera locale parla chiaro: “Flop di Maroni a Varese. Per il governatore lombardo sorpasso al veleno”. Sottotitolo: “Marco Reguzzoni, storico rivale interno: ‘Mia sorella Paola è la più votata a Busto Arsizio e ha preso ben 200 preferenze in più del presidente della regione, che era capolista a Varese. La cosa mi fa sorridere di cuore’”. Perché nelle lande del Nord è accaduto l’incredibile (fino a qualche tempo fa): e cioè che a Varese il centrodestra, pur avendo vinto il primo turno delle comunali con 1.600 voti di vantaggio sul centrosinistra, si è reso protagonista, nel ramo Lega, di un “caso preferenze”: Roberto Maroni, infatti, nel bel mezzo delle terre un tempo regno dei “barbari sognanti” in camicia verde, ha preso soltanto 328 voti (e sono subito partite le riflessioni sulle elezioni regionali lombarde 2018). E a Roma, dove Matteo Salvini si faceva vedere con frequenza durante tutta la campagna elettorale, la lista “Lega - Noi con Salvini” si è arenata al 2,72 per cento, quel che è peggio nonostante la presenza di una rediviva e agguerrita Irene Pivetti, politicamente in azione nella capitale dopo la lunga parentesi non-politica – e già il buongiorno era stato accidentato, con Salvini che a un certo punto sembrava poco convinto della scelta e lei, Pivetti, che doveva consolarsi con i fan della comunità cinese (esistono leghisti cinesi?, ci si era domandati allora).
Irene Pivetti (foto LaPresse)
Ma aveva deciso di non arretrare, Pivetti, e nella conferenza stampa di presentazione si era detta “orgogliosa” della candidatura, sfoggiando una vis automotivazionale degna dei tempi migliori. “Io sono un romano medio, sono nata a Milano”, diceva, parlando sempre di sé al maschile, per sottolineare il proprio spirito guerriero: “Con Roma ci si scontra ma si viene anche accolti. Si porta il proprio contributo in un calderone che accoglie tutti… Vent’anni fa facevo politica, sono partita da qui. Sono quindici anni che vivo nella società civile, faccio l’imprenditore. Sono contenta che ripartiamo dai marciapiedi e che forse non li lasciamo neanche, perché solo lì si possono trovare le soluzioni giuste, e mi onora tornare in un contesto che ha fatto parte della mia vita. Sembra la reunion dei Pooh”. Figurarsi quando, a deprimere tanto entusiasmo, è arrivato il responso delle urne: 634 preferenze, nonostante il primo posto nelle cosiddette “gazebarie” leghiste che quest’inverno l’avevano incoronata capolista ideale. E a questo punto c’è forse da consolarsi pensando al passato, ai giorni terribili del 1996, quando Pivetti, espulsa dalla Lega, dovette “guadagnarsi da vivere”, come ha detto lei stessa qualche mese fa a Repubblica, raccontando il dramma della perdita del potere. Stavolta (per fortuna? purtroppo?) il potere, seppure non di prima linea, è sfumato ancora prima di tornare.
I beautiful. Niente: il beautiful in lista non convince più. Che sia perché ormai si è abituati a sceglierlo o archiviarlo al televoto (reality o talent show)? Che sia perché, via social network, tutti sono famosi e nessuno è famoso? Non allegrissima sorte elettorale è toccata comunque a Giobbe Covatta, capolista dei Verdi a Roma (227 preferenze) e allo scrittore Marco Lodoli (capolista della lista civica per Giachetti: 291 voti) e persino alla campionessa di nuoto Alessia Filippi (per Giachetti, con meno di duecento voti). Vanno male anche i beautiful prettamente televisivi: l’ex concorrente del “Grande Fratello” Roberta Beta prende soltanto 2 voti a Roma, candidata con Marchini, e l’ex soubrette Simona Tagli, candidata a Milano per Fratelli d’Italia, totalizza 31 voti. Non va bene neanche Daniela Martani, ex hostess Alitalia ed ex concorrente del “Grande Fratello”, candidata vegana con i Verdi sotto lo slogan “un cuore verde per Roma”. Fanno fatica pure i “parenti di illustri”, come, nel Pd, Piera Levi Montalcini, nipote del premio Nobel Rita Levi e (nella Lista Democratici e Popolari) Maria Fida Moro, figlia di Aldo Moro.
Francesco Storace e Mario Adinolfi. Sono gli sconfitti meno mainstream della contesa. L’uno di ultradestra, l’altro di ultracentro, portavano avanti battaglie di identità mediamente indigeribili per l’elettore in genere: le loro liste (Lista Storace e il Popolo della Famiglia) hanno totalizzato rispettivamente lo 0,63 e lo 0,62. Adinolfi può però consolarsi: sta diventando un cult della satira su Facebook, dove è stato creato il gruppo “Pizzata con i 7.791 che hanno votato Mario Adinolfi”. Poi ci sono i vincitori. Non quelli probabili (si vedrà dopo il 19 giugno), ma quelli che hanno ottenuto adesso, subito, rivincite dal dietro le quinte o il palmares.
Vincitori campani nell’ombra (Antonio Bassolino & Vincenzo De Luca). A Napoli la situazione volge a favore di “Giggetto”, il Luigi De Magistris ex pm e sindaco “arancione” uscente, ora risorto dalle proprie ceneri (durante il mandato ha attraversato fasi cupe, compresa una sospensione e riammissione dall’incarico). Andrà lui al ballottaggio con il centrodestra, ma intanto, vista la parallela crisi del Pd locale sulla soglia del commissariamento, la Nemesi sembra premiare il Grande Escluso Antonio Bassolino, l’uomo che (da ex sindaco) si era presentato alle primarie, ma con il partito contro. Solo che poi la vincitrice delle primarie, Valeria Valente, non è stata vincente nell’urna amministrativa. E così, nell’incubo del giorno dopo, con Valente che ammetteva e “si assumeva la responsabilità” del tonfo, parlava proprio lui, l’Escluso (vendicatore?): “Non immaginavo tanto degrado”, diceva Bassolino”, “si è perso senza nemmeno combattere… qui non c’è il Pd, c’è un aggregato di correnti e sub correnti disastroso…”. Non se la prende con Matteo Renzi, Bassolino, ma con chi dall’entourage di Renzi “ha trascinato Renzi in un’avventura su una strada che si sapeva avrebbe portato in un vicolo cieco”. E quindi va bene il commissario, va bene l’azzeramento tessere, va bene qualsiasi cosa possa far rimangiare agli antibassoliniani la convinzione che Bassolino non dovesse ripresentarsi. Amara è la vittoria morale (il Pd comunque a Napoli è fuori dai giochi), ma che soddisfazione (questo almeno trasmette il volto di Bassolino, uno che oggi, come i padri inascoltati davanti al figliol prodigo nel day after della sbornia, può ben dire “ve l’avevo detto”).
Antonio Bassolino (foto LaPresse)
E non è solo, Bassolino, nella terra d’ombra dei vincitori per interposta persona o per altrui intoppo, ché a Salerno, una delle città dove il M5s non si è presentato (dissidi interni), la vittoria è andata, al primo turno e con percentuali “landslide” del settanta per cento, al candidato del centrosinistra Vincenzo Napoli, uomo voluto dal presidente della regione Campania Vincenzo De Luca, ex sindaco sceriffo e uomo a lungo schifato da Roberto Saviano e da tutto un parterre (anche extra Campania ma intra-Pd) di orripilati dai suoi modi e dalle sue vicissitudini in tribunale – per lo più per concussione o abuso d’ufficio, ogni volta affrontate da De Luca al grido di “l’ho fatto per i cittadini”. E ora De Luca, guardando la situazione nel capoluogo vesuviano, come Bassolino può sferrare il colpo di grazia, parlando di “anni di assoluta inesistenza politica del Pd a Napoli”. L’unico vincitore effettivo, Massimo Zedda. Ha fatto il colpaccio a Cagliari, da sindaco uscente e ora ri-vincente col suddetto “centrosinistra unito”. Stavano per gongolare anche gli (altrove) sconfitti della sinistra-sinistra. Ma c’è un dato che li ha fermati sulla via del tripudio: Zedda viene da Sel, e la sua coalizione su Sel faceva perno. E per Sinistra italiana questo è in qualche modo un grattacapo.
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