Seul, capitale di un paese in pieno boom economico, che però non è ancora riuscito a sedersi al tavolo dei grandi

Appunti di viaggio in Corea del sud

Le mille luci di Seul abbagliano le sue tradizioni

Giulia Pompili
I grattacieli di Gwanghwamun, la movida e il karaoke di Gangnam. L’estraneità con il passato, le donne che si stanno conquistando la libertà. E una protesta silenziosa in piazza, notte e giorno da quasi due anni.
 

Non faceva così caldo da trentacinque anni, a Seul. Perfino la sera si sentono i trenta gradi: inusuale in questa stagione, perché “il monsone non è ancora arrivato”, dicono i più vecchi, e di solito a giugno dopo il tramonto la temperatura scende fino ai dieci gradi. Ma con questo caldo, di notte Seul sembra New York. Un fiume di gente attraversa incroci chilometrici, le piazze sono tanto grandi da sembrare viali, i grattacieli sono illuminati a giorno dalle pubblicità sui maxischermi. Gwanghwamun è il cuore della Seul tradizionale, quello che nel corso degli ultimi dieci anni ha ricevuto più attenzioni sia dal governo centrale sia da quello metropolitano – lo dimostra il costosissimo lavoro di ristrutturazione che nel 2009 ha trasformato l’area di Gwanghwamun in circa ventimila metri quadrati di gigantesco viale, distribuiti su seicento metri di lunghezza che tagliano a metà la città. Il progetto aveva un motivo ambizioso e dignitoso, com’è dei coreani: far tornare i cittadini a vivere la strada, a incontrarsi per passeggiare, ed essere orgogliosi della capitale di un paese in pieno boom economico, che però non è ancora riuscito a sedersi al tavolo dei grandi. Il problema, per i coreani, è appunto da sempre quello di conciliare la tradizione con un diffuso sentimento di estraneità: hanno combattuto una guerra (civile) che non era la loro, hanno combattuto per l’indipendenza, ma i soldati americani sono ancora ovunque, anche adesso. Oltre il confine più militarizzato del mondo ci sono altri coreani. “Di fronte a loro!” (al nemico, s’intende) è lo slogan della Joint Security Area, la zona demilitarizzata gestita dalle Forze speciali coreane e dagli americani delle Nazioni Unite. “Siamo un unico popolo”, dicono al ministero dell’Unificazione, che si trova – guarda il caso – proprio a Gwanghwamun.

 

Del resto camminando lungo Gwanghwamun Plaza si incontra per prima cosa l’enorme statua dell’ammiraglio Yi Sun-sin – eroe nazionale per aver fermato la prima invasione giapponese nel 1592 – e poi la statua di Sejon il Grande (1418-1450), il sovrano illuminato noto per aver inventato l’alfabeto coreano, l’hangul. Nel mezzo, la fontana “12.23” che ricorda le dodici navi da guerra con le quali Yu Sun-sin ha combattuto le ventitré battaglie contro i giapponesi. Il colpo d’occhio, dall’incrocio di Saemunan-ro, è impressionante: Gwanghwamun Plaza è il luminoso corridoio in marmo dal quale si apre la porta principale del Palazzo di Gyeongbokgung. Dietro, la montagna Bukaksan, di cui gli abitanti di Seul vanno orgogliosi, nonostante sia alta poco più di ottocento metri. Secondo la tradizione, il luogo più protetto della città si trova proprio tra il Palazzo di Gyeongbokgung e la montagna. E’ lì che hanno costruito la Casa Blu, il palazzo presidenziale della Repubblica di Corea. Nonostante il paese sia tra i pochi a maggioranza cattolica dell’estremo oriente, e nel 2014 sia stato una delle mete del viaggio pastorale di Papa Francesco, a Gwanghwamun ogni anno tra maggio e giugno sfilano centomila lanterne per il compleanno di Budda. Una marea umana accorre per attaccare il bigliettino con il proprio desiderio sulla lanterna, prima di lasciarla andare sul fiume. Faceva molto caldo, quest’anno, mentre scivolavano sull’acqua anche alcune lanterne a forma di loto arrivate dalla Corea del nord. Per arrivare alla Casa Blu a piedi, si passano almeno tre check point. Il vialone che costeggia il Palazzo di Gyeongbokgung è piuttosto anonimo, ma lungo la strada le taegeukgi, le bandiere della Repubblica, sventolano alte. I check point non si attraversano con facilità: gli unici che passano senza controlli sono i gruppi di turisti cinesi. “E’ un’invasione”, dice il proprietario di un camioncino che vende per strada gli odeng, i tortini di pesce, lo street food più popolare in Corea. “E’ un’invasione di cinesi. Sono talmente tanti che i negozi ormai rinunciano a scrivere le insegne in inglese, lo fanno direttamente in mandarino”. E’ vero: perfino al supermercato, gli annunci dagli altoparlanti sulle offerte sono fatti in lingua coreana e cinese. Secondo il ministero del Turismo di Seul, il 70 per cento dei turisti cinesi in Corea ci viene per fare shopping, con una spesa media di 2.200 dollari a persona. Nel 2015 sono stati circa sei milioni i cinesi che hanno visitato la Corea del sud. Solo con il turismo, Pechino contribuisce per l’1,6 per cento al pil del paese.

 


La sala del trono nel Palazzo di Gyeongbokgung. Non lontano è stata costruita la Casa Blu, il palazzo presidenziale della Repubblica di Corea (foto di Giulia Pompili)


 

Per arrivare da Gwanghwamun a Gangnam ci vogliono circa quaranta minuti di metropolitana (e un biglietto che costa l’equivalente di 1,50 euro in won coreani). Gangnam è un’area diametralmente opposta rispetto a Gwanghwamun: è giovane, costruita di recente. “Prima tutti volevano vivere qui in centro, e Gangnam era considerata periferia. Adesso le case costano tantissimo pure lì”, ci dice un anziano artigiano che vive nel villaggio di Buckchon Hanok, non lontano dal Palazzo di Gyeongbokgung. L’hanok è la casa tradizionale coreana, e tra gli anni Novanta e i Duemila erano state in gran parte demolite per far spazio a nuove costruzioni. Ormai resistono pochi, caratteristici villaggi. Il Buckchon è il più centrale e il più famoso, perché già seicento anni fa era il villaggio degli alti ufficiali della dinastia Joseon. Le case sono tutte abitate. Recentemente, infatti, il governo ha predisposto degli incentivi per chi voglia acquistare un hanok, e per chi voglia ristrutturarne uno. Ma Gangnam è tutta un’altra storia. “Conosci Gangnam? Quello di Gangnam style”. E’ la frase che i coreani dicono più spesso all’occidentale che desidera andare dall’altra parte della città. Il fenomeno Psy, esploso nel 2012, ha effettivamente cambiato la percezione di un intero quartiere. Ma prima della canzone di Psy, e del video con il famoso gesto del cavalcare riproposto da tutte le celebrità del globo, Gangnam era il quartiere residenziale del business. Oggi è diventato il luogo della vita notturna, dove gli aspiranti cantanti e i ballerini di K-pop, il pop coreano, si esibiscono lungo le strade in attesa che qualcuno li noti e li scritturi.

 

La sera, a Gangnam, i ragazzi vanno pure al karaoke. E’ una passione che condividono con gran parte dei loro coetanei del Giappone, perfino dell’Indonesia. Si tratta di sale insonorizzate, dove si beve, si mangia, e si canta a turno per qualche ora. E’ il 17 maggio. E’ un martedì, e un gruppo di loro si trova a passare la serata in uno dei karaoke di Gangnam. Intorno all’una di notte una ragazza di ventitré anni lascia il tavolo per qualche minuto per andare alla toilette, scende fino all’ingresso numero 10 della stazione della metropolitana, dove si trovano i bagni pubblici. Non vedendola tornare, il fidanzato va a cercarla. La trova in fondo alle scale, uccisa. La polizia riconosce subito l’aggressore grazie alle telecamere di sorveglianza. E’ un trentacinquenne che soffre di schizofrenia, che ha aspettato per almeno un’ora davanti all’ingresso dei bagni femminili e non aveva mai conosciuto prima la vittima. Lo vanno a prendere nel fast food dove lavora, poco lontano dal karaoke. In tasca ha ancora il coltello con il quale ha finito la ragazza, dopo averla colpita più volte. Viene interrogato, e dalla polizia vengono fuori le prime indiscrezioni sul movente: stavo aspettando una donna, avrebbe detto, troppe volte sono stato ignorato da loro. Il giorno dopo, a Gangnam, inizia il pellegrinaggio. L’ingresso numero 10 della metropolitana viene ricoperto di bigliettini e fiori. Gangnam si trasforma nel luogo della lotta contro quello che dalle nostre parti chiameremmo “femminicidio”, se solo la parola avesse qualche significato anche in Corea. Decine di persone lasciano messaggi di cordoglio, crisantemi, le ragazze attaccano post-it con un hashtag, #sonosopravvissuta. Come a dire: avrei potuto esserci io, in quel bagno pubblico. Il quotidiano JoongAng Ilbo pubblica un editoriale dal titolo “Le donne sono a rischio”. Le manifestazioni di solidarietà con la donna uccisa incredibilmente si diffondono anche in altre città coreane. Tre giorni dopo l’omicidio, il ministro per le Pari opportunità, Kang Eun-hee, fa visita al memoriale spontaneo. L’omicidio è ormai un affare pubblico. Ma con la solidarietà, a Gangnam arrivano anche le critiche e lo scherno. Ilbe, una comunità online nota per essere estremista e xenofoba, manda una corona di fiori con un messaggio per i soldati rimasti uccisi nel 2010 nell’affondamento da parte della Corea del nord della nave da guerra Cheonan: “Ricordiamo i nostri soldati che sono stati uccisi perché erano maschi”. E pure la polizia nega: non è un crimine contro tutte le donne, la misoginia non c’entra, quella ragazza è stata uccisa solo perché l’aggressore è gravemente malato.

 


La frontiera tra Corea del nord e Corea del sud (foto di Giulia Pompili)


 

Ma perché, allora, l’omicidio di una donna è diventato un simbolo? In un lungo articolo pubblicato il 26 maggio scorso, l’Economist ha tentato di rimettere a posto i pezzi. La Corea del sud ha uno dei tassi di omicidi più bassi al mondo (0,8 per cento ogni centomila persone). Statisticamente, è un paese più sicuro dell’Australia e della Norvegia: “Qualunque sia il movente del sospettato, le donne non hanno fatto fatica a identificarsi con la vittima”. Il settimanale britannico cita il posizionamento della Corea nella classifica di parità di genere del World Economic Forum (115 su 145), dice che “dal gennaio all’agosto dello scorso anno, l’87 per cento delle vittime che hanno subìto violenze sono donne”. Ma le statistiche e i numeri non possono spiegare il cambiamento che sta affrontando una democrazia giovane come quella coreana. Le donne stanno cambiando. E in una società estremamente patriarcale, che non ha mai vissuto nemmeno l’ombra di un movimento femminista, la questione non lascia indifferenti. In questo, Corea del sud e Giappone si somigliano molto, con la differenza che nella famiglia tradizionale giapponese la donna conta, eccome. In quelle proteste all’ingresso 10 della stazione di Gangnam, nelle accuse di misoginia e nel desiderio di contare di più, c’è anche tutto il senso di colpa per non essere più “kimchinyeo”, donne buone a fare il kimchi – il piatto tradizionale coreano. Fino a dieci anni fa era difficile riconoscere nelle donne coreane il modello di emancipazione, di istruzione e di indipendenza che hanno oggi. Sarebbe stato impensabile vedere nelle librerie il romanzo della quarantenne sudocreana Han Kang, “The Vegetarian” – che a fine maggio ha vinto il Man Booker International Prize, ma per molto tempo era stato ignorato dalle case editrici coreane. “The Vegetarian” affronta il rapporto delle donne coreane con l’omologazione, con la pressione che viene dalle regole imposte dall’esterno, dai legami familiari, dalla società. E non si tratta di alimentazione, o del desiderio di non mangiare più carne. Così come quello di Gangnam non è stato un “femminicidio”. Si tratta di rompere le regole, farlo alla luce del sole, e stabilire l’effetto che fa.

 

Quando arriviamo davanti al cancello della Casa Blu, e il viale patriottico si apre in un’ampia piazza, notiamo una donna, da sola, sotto il sole delle due del pomeriggio di un mese particolarmente caldo. Un gruppo di turisti cinesi le passa accanto, come fosse invisibile. Lei resta immobile, accenna un sorriso, e ci mostra il cartello che tiene in mano. Sopra ci sono le facce di quattro studenti, di due insegnanti e di altre tre persone. Sono i volti dei nove dispersi nelle acque tra il porto di Incheon e l’isola di Jeju. Il 16 aprile del 2014 il traghetto Sewol, partito dal porto vicino alla capitale, affondò prima di arrivare a destinazione. Trecento persone persero la vita nell’incidente, e la maggior parte di loro erano studenti di liceo. La verità sulla tragedia del Sewol non è mai stata trovata, probabilmente non è mai stata cercata. La donna ci dice di andare a Gwanghwamun Plaza dai suoi colleghi “che parlano meglio inglese” e così, subito dopo la statua dell’ammiraglio Yi Sun-sin, raggiungiamo alcuni gazebo gialli. Dentro c’è Jung eun, una donna gracile, che con un filo di voce ci accompagna sotto uno dei sei tendoni: “Che cosa vuoi sapere del Sewol?”. “Voglio sapere perché siete qui. Cos’è questo posto?”. “E’ un memoriale. Siamo qui per ricordare le vittime della tragedia e per chiedere al governo di non smettere di cercare i corpi dei nove ancora dispersi, e di dirci la verità”. “E siete sempre qui?”. “Sempre, giorno e notte, dal settembre del 2014”. Jung eun è una dei settanta volontari che con un sofisticato sistema di turnazione gestiscono quest’area pubblica: “Ma io non sono un familiare delle vittime, non ho avuto parenti rimasti uccisi nell’incidente. Però ho due figli che hanno l’età degli studenti che erano sul Sewol, e non potevo starmene con le mani in mano”. Jung eun è qui dall’inizio, cinque mesi dopo il naufragio. Durante quei cinque mesi, il governo coreano è stato messo sotto accusa più volte: la presidente Park Geun-hye è stata criticata per aver gestito male l’emergenza, e soprattutto per non essere intervenuta subito pubblicamente. Secondo le indiscrezioni – che sono costate un lungo processo a Tatsuya Kato, quarantottenne capo della redazione di Seul del quotidiano giapponese Sankei Shimbun – la Park il giorno del naufragio sarebbe stata “irreperibile” per ben sette ore. Non solo. Sotto accusa è stata messa anche la guardia costiera, incapace di provvedere tempestivamente a mettere in salvo le vite dei passeggeri.

 


Turisti cinesi sulla Seul Tower (foto di Giulia Pompili)


 

Lee Jun-seok, il comandante del Sewol, è stato condannato al carcere a vita dalla Corte suprema coreana nel novembre del 2015 – dopo un processo straziante, perché il comandante Lee fu uno dei primi ad abbandonare la nave ormai irrimediabilmente inclinata, e fu lui a ordinare agli studenti di restare nelle cabine, invece di dare il via al piano d’emergenza e d’evacuazione. A oggi, quella del Sewol è stata una delle tragedie più grandi della storia della Corea. Ma, a parte l’ergastolo comminato al comandante del traghetto, “il governo non è mai riuscito a dirci chi è stato il responsabile dell’affondamento”, dice Jung eun. Poche settimane dopo il naufragio, in Corea è iniziata una caccia all’uomo nei confronti di Yoo Byung-eun, chiamato “il milionario senza volto” per il suo aspetto mutevole e per l’inesistenza di fotografie recenti. La nave, lunga 146 metri, dopo una manovra inusuale di viraggio, ci ha messo solo due ore ad affondare completamente e secondo le autorità a causare il rapido affondamento è stato un carico eccessivo della nave. Yoo, 73 anni, era stato individuato come proprietario della Chonghaejin Marine Corporation, l’operatore che gestiva il traghetto Sewol all’epoca dell’affondamento e responsabile dell’ampliamento della capacità di trasporto della nave. Ma Yoo era già noto alle forze dell’ordine coreane per una serie di società legate al mondo degli affari non proprio puliti, e soprattutto per essere uno dei fondatori della Guwon, la “Setta della Salvezza”. Dopo un dispiegamento di militari e polizia mai visto nella storia recente della Corea, Yoo è stato trovato il 21 luglio, però morto, in un campo. Il suo corpo era già in stato di decomposizione. Nel frattempo, il primo ministro di Seul era stato costretto alle dimissioni e la presidente Park alle scuse ufficiali in diretta tv. “Noi vogliamo la verità, e vogliamo che il governo ricominci le ricerche dei corpi dei dispersi”, dice Jung eun mentre ci accompagna in uno dei gazebo dedicato alla preghiera, dove sono esposte le fotografie di tutte le vittime, e molta gente mentre passeggia si ferma a guardare, e magari si toglie le scarpe ed entra per un minuto di raccoglimento.

 

Poco più avanti, in un altro gazebo, tre persone sono sedute per terra, e lavorano su un tavolo basso, di quelli asiatici: stanno piegando qualche migliaio di pezzetti di gomma per farne il simbolo della “Verità per il Sewol”, un fiocco giallo da distribuire alle persone che si fermano a pregare. Domandiamo a Jung eun se pagano un affitto per mantenere il loro presidio, ma la risposta è inaspettata: “Non paghiamo niente. Il sindaco di Seul ci ha dato questo spazio, e ci permette di stare qui. E’ convinto, come noi, che non bisogna mollare”. E’ inusuale in Corea del sud una protesta così lunga, che ancora non sia stata silenziata dal governo, che evidentemente ha grosse responsabilità nella vicenda: “E’ la prima volta che succede, è la prima volta che non ci arrendiamo”. Qualche passo più avanti, lungo Saemunan-ro, una decina di ragazzi sono sistemati in riga, in piedi, immobili, e ognuno di loro tiene in mano un cartello. Sono circondati dalla polizia. Sono militari, e protestano per i salari troppo bassi. “Ormai tutti si fanno riformare, oppure chiedono di prestare servizio in polizia o nei pompieri”, dice un anziano signore che si è fermato a guardare i ragazzi: “Non c’è più nessuno che voglia entrare nell’esercito”. Il servizio militare in Corea del sud è obbligatorio per gli uomini, e dura ventidue mesi. Non è facile sfuggire, e generalmente i riformati sono considerati buoni a nulla. Perfino le star della musica pop coreana, gli attori più famosi dei K-Drama, quando arriva il momento sospendono ogni attività, concerto, tour, e si arruolano (con relativa copertura mediatica della disperazione delle ammiratrici). Ma se non lo facessero, se volessero evitare l’esperienza militare, sarebbe la violazione di qualunque convenzione sociale, la fine di una carriera. “To serve and not to be served”, servire e non essere serviti, che andrebbe bene anche per i giovani maschi ma in realtà è lo slogan della campagna occupazionale per gli anziani in pensione promossa da qualche anno dall’esecutivo di Seul. In pratica il governo fornisce una piccola integrazione alla pensione in cambio di lavori di pubblica utilità.

 


La statua di Sejong il Grande a Gwanghwamun (foto di Giulia Pompili)


 

Così non è difficile incontrare gruppi di anziani in giro a pulire le strade, e poi anziani in pettorina che controllano l’ordine pubblico, che nessuno fumi per strada (a Seul vige da circa cinque anni una rigidissima legge antifumo) e anziani che gestiscono le biblioteche e fanno le guide turistiche nei musei. Una sorta di servizio civile della terza età, una “vecchiaia produttiva”, come l’ha definita l’ex ministro della Salute e del Welfare di Seul, Chemin Rim. E se si parla di Welfare, il governo sudcoreano non può non fare i conti con quella che nei Palazzi del potere chiamano la “preparazione all’unificazione”. Il problema del nord, tra la gente, non è mai avvertito come un problema bellico o di aggressione militare. Piuttosto riguarda le persone, la capacità del Sud di accogliere di nuovo tutti i nordcoreani. “Un unico popolo”, appunto. Quasi il 70 per cento dei rifugiati nordcoreani che scappano al sud sono donne. Perché le madri di famiglia spesso si occupano esclusivamente della casa, mentre gli uomini, quando si assentano per più di due giorni dal posto di lavoro, vengono segnalati. Qualcuno andrà a cercarli. Per le donne è diverso. Aeran Lee, presidente del Centro per la libertà e la Riunificazione di Seul, ha detto quest’anno durante l’annuale simposio sulla Corea del nord organizzato dalla National Human Rights Commission of Korea: “La figura femminile in Corea del nord è molto influenzata dalla società sovietica. Kim Il Sung fece molto bene a far credere alle donne quanto la loro figura fosse indispensabile, che dovevano sacrificarsi perché loro erano la ‘forza della Rivoluzione’”. Secondo Lee, oggi le donne in Corea del nord sono discriminate in base al lavoro del marito, sono costrette a viaggiare a lungo – viaggi estenuanti, in treno – per raggiungere i luoghi di distribuzione del cibo. E poi la stessa Lee fa una constatazione: “Parliamo continuamente delle comfort women (le donne usate come prostitute dalle armate imperiali giapponesi durante la guerra, ndr), ed è stata una tragedia, certo, ma chi si preoccupa delle donne nordcoreane oggi?”. Per capirlo, basta ascoltare il Mulmangcho, un coro di trenta elementi composto da donne nordcoreane che sono scappate dalla propria terra, quando cantano la loro storia. Ma sono sopravvissute.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.