Il grande Panama
Quando la paratoia inizia a muoversi, per sigillare la chiusa, sembra di riscoprire istantaneamente la concretezza dell’ingegno umano dopo un’overdose di innovazioni digitali, di connessioni eteree e virtualità inafferrabili. Quattromila tonnellate d’acciaio che scivolano in silenzio, come fosse una porta scorrevole a misura di gigante ben oliata, agganciandosi a pareti di cemento alte oltre trenta metri, sono testimonianza inequivocabile della solidità della materia, della tridimensionale durezza della realtà. Passeggiando per il cantiere del nuovo canale di Panama, dove gli operai fanno test sulla funzionalità e danno gli ultimi ritocchi, si apprezzano da vicino le proporzioni di un mastodonte da 5 milioni di metri cubi di calcestruzzo, 290 mila tonnellate d’acciaio, realizzato scavando 53 milioni di metri cubi di terra e con un costo attorno ai 5 miliardi di dollari. Il nuovo canale di Panama non è un’infrastruttura, è la grande opera fra le grandi opere, il Sacro Graal dell’ingegneria, un progetto imparagonabile a qualunque altro per dimensioni e complessità. Perché, come dice il proverbio, a fare il canale di Suez sono capaci tutti. Forse il proverbio non dice proprio così, ma resta il fatto che il canale di Panama non è uno scavo autostradale inondato d’acqua, c’è un dislivello di 27 metri da colmare in ingresso e in uscita, le navi devono inerpicarsi fino al lago Gatun, attraversarlo, e poi discendere fino all’oceano Atlantico oppure Pacifico, a seconda del senso di marcia, comunque dall’altra parte del mondo. Ci sono tre gradini d’acqua da una parte del canale e tre all’estremità opposta, ciascuno di nove metri. La paratoia si apre, la nave entra nella prima vasca, la chiusa si riempie e innalza l’imbarcazione fino al livello della vasca adiacente, il cancello si apre e si passa al livello successivo, come in un videogioco, finché a un certo punto il vascello sbuca in un altro oceano.
Questa incisione nel punto dove il continente americano si stringe fino a diventare una striscia di una settantina di chilometri è la soglia dove estremo oriente ed estremo occidente si congiungono, snodo commerciale da cui passa ogni anno il 3 per cento delle merci del globo, per un valore di 270 miliardi di dollari, ed è poco rispetto a quanto si potrebbe fare, ché il canale di Panama esistente è stato costruito più di un secolo fa dagli americani e porta navi non più lunghe più di 294 metri, la misura Panamax. Gli armatori di navi ancora più grandi devono prendere la via di Magellano, quella che a sud aggira Capo Horn, per passare dall’Atlantico al Pacifico, oppure scaricare le merci in qualche porto attrezzato, magari Savannah o Charleston, e portare il carico su rotaia o su gomma fino alla California, dove un’altra nave carica i container e salpa verso l’Asia. O viceversa. Il nuovo canale, che con le sue chiuse lunghe 427 metri e larghe 58 può accogliere navi post-panamax, promette di triplicare nel giro di qualche anno il volume dei commerci, oltre a portare nelle casse di Panama un incasso stimato in cinque miliardi di dollari l’anno. Più o meno il costo del progetto stesso. Salini Impregilo è il motore italiano di un consorzio di costruttori che comprende una società spagnola e una belga. Alla gara si è imposta con un progetto innovativo e i costi più contenuti dei concorrenti (gli americani offrivano il canale a un miliardo di dollari in più), e nell’agosto del 2009 ha iniziato i lavori di un’opera di cui è difficile afferrare proporzioni e complessità finché non la si vede, preferibilmente da un elicottero che fende la bruma della foresta pluviale. Il pilota è un giovane panameño sorridente di nome Alvin, vola basso sul lago per farci sudare un po’ (“così vediamo qualche coccodrillo”, dice) e poi risale in quota per ammirare nella sua possanza la creazione dell’homo faber nel mezzo dell’opera del “mio alto fattore”, una geometrica serie di vasche che interrompe la disordinata giungla cresciuta in mezzo all’acqua quando gli americani hanno costruito le dighe, e il fiume Chagres ha inondato un bacino irregolare con fusti altissimi che affiorano in superficie. Alcuni hanno formato isole, altri si sono “pietrificati” e spuntano come vecchi pali di Venezia, ma sono migliaia e migliaia. Alvin punta il dito verso una gigantesca gru galleggiante, e se si potesse zoomare fino alla base di quell’animale meccanico da sollevamento si vedrebbe un traversino nero con una svastica impressa. La costruzione della “Titan” era stata ordinata da Hitler in persona, poi, alla fine del conflitto, gli americani hanno preso la gru come indennità di guerra, mettendola all’opera in California fino a quando, negli anni Novanta, è stata comprata dall’autorità del canale di Panama. L’inquietante capolavoro di ingegneria tedesca ancora presta servizio nel canale.
L’ambientazione è umida ed equatoriale, lussureggiante, sembra che da un momento all’altro possa sbucare fuori dalla giungla impenetrabile il Michael Douglas di “All’inseguimento della pietra verde”, il favoloso film d’avventura senza pretese in cui alla fine – spoiler alert per i giovani e i cinefili – il cacciatore di smeraldi sventra il coccodrillo per recuperare l’agognata pietra. Per penetrare gli strati di vegetazione e scavare il canale la foresta è stata aggredita innanzitutto a colpi di machete, a mano. A mano? Sì, perché nei libri di Philip K. Dick ci sono macchine che fanno qualunque cosa in qualunque dimensione con un solo comando del pensiero, nella realtà molte cose sono ancora legate alla manualità dell’uomo. Gli operai hanno fatto la prima “rasatura” della giungla, permettendo alle macchine di arrivare e sradicare, con la risoluta grazia che si confà a questi tempi eco-compatibili. Oggi assieme agli ingegneri arrivano squadre di biologi per classificare e salvaguardare. Un secolo fa gli americani hanno riempito le paludi di kerosene per sterilizzare e scacciare la malaria, alla faccia della biodiversità, e prima ancora i francesi avevano cercato di farsi largo nella giungla con gli esplosivi, ché le esigenze della grandeur non prevedono sconti. Volevano fare un canale dritto, senza chiuse per colmare il dislivello, e nell’incaponirsi in un’impresa impossibile hanno scoperchiato un inferno di patologie e animali che ha fatto venticinquemila morti, numeri da bollettino di guerra che sono ancora più impressionanti se paragonati alle otto vittime del cantiere del nuovo canale, impresa durata quasi otto anni e che ha coinvolto, nel picco occupazionale, 30 mila persone, al 90 per cento manodopera locale, come previsto dal contratto con il cliente, la Autoritad del Canal de Panama. E’ però grazie alla stolida perseveranza dei francesi che il canale di Panama non è in Nicaragua.
Gli americani hanno comprato le attrezzature già sul campo, e il resto lo ha fatto quell’avventuriero spregiudicato e illuminato di Teddy Roosevelt, presidente ossessionato dalla flotta in un periodo storico – l’ultimo – in cui la potenza militare coincideva, in buona sostanza, con quella navale. Roosevelt considerava il canale di Panama “di gran lunga la mia più importante decisione di politica estera”: “Ho fatto molte altre cose soltanto perché era arrivato il momento di farle, e chiunque fosse stato al potere le avrebbe iniziate. Ma il canale di Panama non sarebbe iniziato se non lo avessi preso in mano io. Per fortuna è arrivato in un momento in cui potevo agire indisturbato. Perciò ho preso possesso dell’istmo, ho iniziato il canale e ho lasciato che il Congresso discutesse non del canale, ma di me”. L’hanno chiamato un “sordido atto di conquista”, hanno detto che il presidente era un predone mercenario e imperialista, ma intanto ha cambiato l’America e il mondo con una singola opera realizzata più o meno d’imperio. E’ uno dei santi patroni della globalizzazione. Dicevano anche che per farlo aveva sobillato una rivolta golpista, così da togliere di mezzo l’ostacolo del governo, e lui ha risposto con la più rooseveltiana delle sintesi: “Quand’ero presidente ho tenuto il piede su questo tipo di rivolte. In questo caso, non ho dovuto fomentare nulla, ho semplicemente sollevato il piede”. All’inaugurazione, nel 1914, s’è presentato con in testa un Panama, copricapo iconico che, com’è ovvio, viene dall’Ecuador.
Dall’alto si vede ancora il canale rooseveltiano, che continuerà a funzionare anche dopo il 26 giugno, giorno della cerimonia d’apertura del nuovo canale, che gli scorre accanto come fosse un fratello maggiore. Per l’occasione il presidente, Juan Carlos Varela, ha imposto a tutti gli uomini la Guayabera bianca, la tradizionale camicia con le quattro tasche frontali che, com’è ovvio, viene da Cuba. In realtà, la prima nave post-panamax è già transitata nel nuovo canale. La “Baroque”, un bulk carrier da 64 mila tonnellate, è entrata dal versante atlantico, dove è stata presa in carico da un “piloto”, uno degli addestratissimi comandanti locali che per regolamento prendono il comando di tutte le navi in transito, comprese quelle della marina militare americana, cosa che talvolta ha generato qualche tensione a bordo. Ma a dirla proprio tutta, un’altra nave appena più umile e dal nome suggestivo, la “Pica-Pica”, s’era avventurata anche prima della “Baroque” nel condotto che introduce alla soglie delle chiuse, nel vano tentativo di transitare oltre la fatidica cancellata. La lancia, lunga nemmeno quattro metri ma fieramente equipaggiata con un motore Bentley che aveva i suoi giorni migliori alle spalle, portava un manipolo di giornalisti curiosi più che arditi, scortati da una guida intraprendente e da un coccodrillo che si muoveva placido sul pelo dell’acqua, come nei documentari. Una spedizione in senso stretto fallimentare ma assai istruttiva per apprezzare dal basso l’imponenza titanica dell’opera.
A lato delle chiuse ci sono bacini che sembrano campi coltivati a rotazione triennale, una delle parti del progetto di cui gli ingegneri parlano con più orgoglio. Giuseppe Quarta, project manager di Salini Impregilo, spiega che un particolare meccanismo di circolazione idraulica permette di “salvare” il sessanta per cento dell’acqua dolce impiegata in ogni transito; nel vecchio canale l’intera quantità d’acqua dolce che riempie le vasche finisce per disperdersi nell’oceano. Quarta racconta di altre opere quasi fantascientifiche di Salini Impregilo, come quella di Lake Meade, fra lo Utah e il Nevada, dove hanno costruito un impianto per portare acqua a Las Vegas (“Immaginati di fare un buco sul fondo di un lavandino pieno d’acqua, ma senza svuotarlo”), ma nulla compete, per complessità tecnologica e proporzioni, con il nuovo canale di Panama. La questione più complicata, come si è detto, sono le sedici paratoie (soltanto otto sono in funzione, ma per ragioni di sicurezza imposte dal cliente tutto è raddoppiato: doppie paratoie, doppi sistemi di controllo del traffico e così via) costruite in Italia e portate via mare da grandi chiatte in un viaggio epico di tre settimane da Trieste a Panama. Queste gigantesche porte non scorrono sul terreno, ma galleggiano, sono parti “viventi” che partecipano al meccanismo perfetto dei vasi comunicanti, sono a loro volta navi che scaricano soltanto il dieci per cento del loro peso sul terreno.
Per inserirle negli alloggi, quando il canale era prosciugato, gli ingegneri si sono dovuti esercitare nella più italiana delle arti, quella del parcheggio. Immaginate di dover posteggiare un’auto in un box che la contiene perfettamente, facendo una curva di novanta gradi; l’auto, però, ha lo svantaggio di essere larga esattamente quanto il garage, e dunque lo spazio di manovra è ridottissimo. “All’inizio erano venti centimetri da una parte e venti dall’altra”, spiega Andrea Garbuio, ingegnere di 38 anni che parla un inglese ingentilito dall’accento veneto e ha seguito in particolare l’installazione delle paratoie. Venti centimetri sono pochi per un’auto, figurarsi se “l’auto” in questione è lunga 58 metri, alta 33, larga dieci e pesa varie migliaia di tonnellate. Con un joystick che comandava le ruote, tanta abilità manuale – ancora una volta: certe cose nessuna macchina può farle –, infinita pazienza e qualche preghiera le paratoie sono entrate negli alloggi, un centimetro alla volta. Per inserire la prima c’è voluta mezza giornata, poi i parcheggiatori si sono impratichiti e il processo è andato sveltendosi. Occorre scendere nelle viscere del canale per vedere i dettagli, che sono di dimensioni enormi anche se si perdono nell’enormità ancora più vasta e colossale dell’opera, e quando l’elicottero di Alvin prende di nuovo quota, sullo sfondo sonnecchiano i grattacieli di Panama City, la più immateriale delle città, con i suoi riciclaggi, i suoi conti neri, gli avvocati che creano scatole cinesi, i mediatori della finanza offshore che danno qualche brivido ai giornalisti in cerca di malefatte estero su estero quando trapelano faldoni dei “Panama Papers”.
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