La cura di stato
“L’unica cosa che Franklin [Roosevelt] non può sottrarmi sono i miei ricordi”
(Albert J. Nock)
Eravamo il popolo del futuro, e in tutto il mondo non avevamo avversari. Il Tiranno e il Despota della logora Europa sobbalzavano per la grande paura di fronte alla superiorità dell’America per virtù e valore; (…) e proprio per tutto ciò, noi occupavamo il nostro posto, saldamente e impavidamente”. Così scriveva Albert J. Nock (1870-1945) in un articolo del 1932, quando ancora non si profilava la piovra statalista del New Deal, ma i suoi tentacoli si muovevano già dietro le quinte. Diversi anni più tardi egli si definì un “remnant”, un sopravvissuto di quei tempi d’oro, quando la libera iniziativa privata aveva dato sfogo a un profluvio di impegno individualistico americano che non avrà poi un seguito in qualche modo comparabile con quei decenni finali dell’Ottocento. In quel tempo, il collettivismo, l’ingerenza dello stato erano definiti semplicemente “socialismo” e il suo contrario era il liberalismo della tradizione americana delle origini. Senza altri arzigogoli e mezzi termini. E il liberalismo significava – puramente e semplicemente – antistatalismo, perché lo stato, scrive Nock in modo mirabile, “non è un’istituzione sociale amministrata in modo antisociale. E’ un’istituzione antisociale, amministrata nell’unico modo in cui un’istituzione antisociale può essere amministrata, e dal tipo di persone che, nella natura delle cose sono più adatte a tale servizio.”
Nato in Pennsylvania, Nock fu pastore della Chiesa Episcopale, ebbe una famiglia che abbandonò per trasferirsi a New York, dove scrisse ininterrottamente centinaia di articoli, il cui contenuto ricalcava i concetti fondamentali della sua lotta ideale: la difesa a oltranza della tradizione liberale americana delle origini, con tutto ciò che essa aveva regalato al mondo: la sovranità dell’individuo, la libera iniziativa personale, la spontaneità dell’agire sociale, l’antistatalismo, in quanto statalismo significava socialismo, cioè il contrario della libertà umana. Perché, scriverà Nock in un articolo del 1935, “la cosa peggiore di questo crescente cancro dello statalismo sono i suoi effetti morali”, cioè la progressiva perdita della consapevolezza da parte di ogni cittadino di essere un individuo indipendente e sovrano su se stesso.
Tutto l’Ottocento americano fu costellato di personaggi che in vario modo si richiamavano ad una sorta di libertarismo o addirittura di anarco-capitalismo ante litteram e che comunque avevano avuto come stella polare il liberalismo americano delle origini, che contrapponevano ostinatamente a ciò che essi percepivano come la deriva verso una forma di vita sociale lontana dai valori del passato e sempre più vicina ad una sorta di esistenza “regolata” non da se stessi, ma da qualcosa di esterno alla propria individualità: Henry D. Thoreau, Josiah Warren, Lysander Spooner, Stephen P. Andrews, William B. Greene e, proprio durante gli anni ruggenti di fine secolo, Benjamin Tucker (al quale ultimo è attribuita una frase di un sarcasmo sublime: “Per Marx l’unico rimedio ai monopoli è il Monopolio”). Ma, attenzione, costoro non erano affatto solo dei laudatores temporis acti. Erano persone che, più di altre, ritenevano che la lotta fosse ancora in corso e che i margini della ripresa del vecchio liberalismo sussistessero ancora.
In effetti, la Gilded Age della fine dell’Ottocento vide la ripresa e il trionfo dell’iniziativa individuale spiegata in ogni direzione. Passato quel periodo d’oro della storia americana, tutta la cosiddetta “età progressista” del primo decennio del nuovo secolo aveva rappresentato, per Nock, l’avvio della fase d’intromissione sempre più decisa dello stato; in sostanza, il New Deal non era altro che la logica conseguenza di una preparazione voluta e coltivata con grande costanza dai cosiddetti riformatori sociali che, a cavallo del secolo, avevano condannato il capitalismo come causa di tutte le storture della società. Ma Nock aveva ben individuato la causa di quelle storture: l’ingresso dello stato nei gangli del capitalismo. “Le misure dei riformatori – scrisse Nock nel 1943 in “Memoirs of a Superfluous Man” – non tenevano conto di tutto questo che a me sembrava ovvio. I riformatori stessi apparentemente non vedevano che lo stato, come arbitro dei privilegi economici, doveva necessariamente essere uno strumento potenziale di sfruttamento economico”. Così, il New Deal aveva trovato in qualche modo il piatto pronto dal punto di vista ideologico. E, l’avvento del comunismo in Unione sovietica era stato salutato da molti intellettuali americani come la vera soluzione delle storture del capitalismo. Le stesse manifestazioni artistiche, negli anni 30, subirono sul suolo americano una profonda influenza da parte del realismo socialista voluto da Stalin. Come ha mirabilmente scritto Isadora Anderson Helfgott in “Framing the Audience: Art and the Politics of Culture in the United States, 1929-1945” (2015), la deificazione del realismo socialista nelle più varie parti del mondo, e particolarmente in Europa, coinvolse anche il mondo artistico americano: “Negli Stati Uniti i progetti di arte federale del New Deal politicizzarono esplicitamente il contesto artistico, collegando la produzione d’arte allo stato, e gli stessi artisti si diedero una nuova coscienza politica, organizzandosi in sindacati, tentando di fare causa comune con i lavoratori americani contro il fascismo all’estero e il razzismo all’interno”. Insomma, una riproposizione di ciò che facevano gli intellettuali sovietici, ma in salsa americana.
Nock era ben consapevole di questa deriva che stava portando gli Stati Uniti fuori dal mainstream liberale delle origini. Il New Deal rappresentava la punta di diamante di un processo politico pericolosissimo che avrebbe portato l’individuo a rinunciare addirittura a se stesso: “Se tu dai allo stato – scriveva Nock nel 1939 in “The Criminality of the State” – il potere di fare qualcosa per te, tu gli concedi anche il potere di fare qualcosa contro di te”. Un’affermazione di una durezza estrema, che però si calava nel momento di maggiore penetrazione dell’ideologia e della politica newdealiste. Nock era una persona coltissima, conosceva i greci e i latini, la storia europea e la nascita stessa dello stato europeo in modo approfondito. Proprio quest’ultima conoscenza lo portò a scrivere, sempre nel 1939: “Lo stato è fondamentalmente un’istituzione antisociale, fondamentalmente criminale. L’idea che lo stato si sia originato per servire qualche tipo di fine sociale è completamente antistorica. Esso ha avuto origine allo scopo di mantenere la divisione della società nella classe dei proprietari e degli sfruttatori e nella classe subalterna dei non-proprietari, cioè per un fine criminale”. E, per quanto Nock fosse ben consapevole che il capitalismo avesse prodotto discriminazioni sociali ed economiche, esso era storicamente e incontestabilmente l’unico strumento di riscossa delle classi meno abbienti, perché fondato sul perseguimento della felicità attraverso la proprietà privata. L’intervento dello stato era una truffa.
La storia del liberalismo, nell’accezione classica del termine, secondo Nock, era stata sconvolta dalle terribili guerre che si erano succedute in Europa dalla fine dell’Ottocento sino alla Grande guerra, e di cui aveva finito per fare le spese anche l’America. Così, la Grande Depressione aveva visto nascere un liberalismo falso che i newdealers avevano saputo spacciare per vero liberalismo, un liberalismo che aveva sostituito alle funzioni prettamente “negative” dello stato un piano articolato e opprimente di funzioni “positive”. Il “nuovo” liberalismo veniva alla luce sulle basi ideologiche già poste da John Dewey, nel 1929, nel suo “Individualism Old and New”, un individualismo “sociale”, che avrebbe scalzato definitivamente quello vecchio ed egoistico, causa di tutte le ingiustizie, a favore di una nuova visione di una società giusta che emergerà solo quando “l’equilibrio tra individuale e sociale sarà organico”, cioè garantito, consolidato e alimentato costantemente dallo stato. Da allora, come ben sappiamo oggi, il termine “liberal” non connotò più l’originario liberalismo, ma il “nuovo” liberalismo di marca newealista, poi welfarista. Un furto terminologico bello e buono.
Nel 1935 Nock pubblicò la sua opera più importante e completa, che diventerà la fonte d’ispirazione per tutti coloro che si batteranno contro il New Deal e le sue conseguenze politiche e ideologiche in tutti i decenni successivi: “Our Enemy, the State”, che Luigi Marco Bassani tradurrà per Liberilibri nel 1995 (con ristampa nel 2005), con uno splendido saggio introduttivo. Già il titolo del libro è uno choc. Il punto di riferimento di Nock è la “Grande Tradizione” della cultura occidentale, che ha le sue radici nei classici greci e latini, quella tradizione che, nel corso dei secoli, ha posto l’individuo al centro dell’universo, una tradizione elitista, antiegualitaria e, poi, con il sorgere del Moloch statalista, contro lo stato oppressore, centralizzatore, ingannatore, nemico dell’individuo in tutte le sue manifestazioni. Lo stato afferma falsamente di aiutare i poveri, di volerli innalzare dal loro livello di indigenza. E’ una truffa: l’azione dello stato verso costoro consiste “nel trasformare la povertà e l’indigenza in un dato politico permanente”, da utilizzare per consolidare, di volta in volta, il proprio potere. E’ un processo fraudolento di “politicizzazione della società”, scrive Nock, a favore della conferma del ruolo centrale dello stato e della sottomissione dell’individuo al rango di servitore dello stato per mezzo delle tasse, dei balzelli e delle guerre.
Lo sviluppo del pensiero di Nock in questo libro è semplicemente formidabile. L’approdo del suo pensiero è il seguente: la politica è il principale agente di corruzione sociale. Come dargli torto dopo secoli di statalismo? Dopo il fascismo, il nazismo, il comunismo, e tutte le altre forme di presenza invasiva dello stato nelle società democratiche? E la situazione italiana non risponde pienamente alla profezia di Nock? Scrive Nock nel 1934, rompendo gli argini: “Nega la dottrina dei diritti naturali, sostituisci a essa la dottrina dello statalismo, e tu avrai ciò che si vede in Germania, Russia e negli Stati Uniti; non c’è alternativa. Ciò che si deve capire, e non si capisce, è che il rooseveltismo, l’hitlerismo, lo stalinismo sono tutte varianti della comune dottrina in virtù della quale l’uomo non possiede alcun diritto naturale, ma soltanto quelli che sono creati per lui dallo stato”. La conseguenza è stringente: “Così, poiché lo stato crea tutti i diritti, poiché la sola etica valida e autoritativa è l’etica dello stato, allora per ovvia conclusione lo stato non può essere in errore”. Questa presunta etica è un’“enorme risorsa per consolidare lo stato a spese della società”. Il potere dello stato, dunque, si dilata man mano che gli spazi individuali si riducono sempre più e che il processo di delega acquista dimensione sempri più grandi. E’ una delega politica ed economica (tassazione) incontrollata e incontrollabile, tutto sotto il controllo dello stato. Da qui scaturisce il più grande imbroglio: “Un altro strano concetto che ha conquistato tutti è che lo stato ha denaro di suo; e questa assurdità è maggiormente radicata in America. Lo stato non ha danari. Non produce nulla. La sua esistenza è puramente parassitaria, fondata sulla tassazione; vale a dire, sui tributi imposti sull’altrui produzione”. Così Nock nel 1943.
La soluzione a tutto ciò? Non vi può essere alcuna ingegneria umana, scrive Nock, che alla fin fine sia in grado di modificare lo spirito umano: esso riemergerà sempre, prima o poi, a dispetto di tutti i meccanismi politici che tendono ad imbrigliarlo, a modificarlo, addirittura ad alterarlo, come nei regimi totalitari. Guerre, rivoluzioni, rivolgimenti: saranno tutte manifestazioni estrinseche, più o meno passeggere; ciò che resterà immutato è lo spirito umano, che è indifferente ai mutamenti politici. E allora, non esiste il cambiamento? Ecco la risposta di Nock, solida, austera, positiva, nel 1942, a tre anni dalla sua morte: “La sola riforma praticabile che io conosca è la riforma di te stesso”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano