Vestiremo alla caprese
Se noi ragazze di un tempo abbiamo iniziato a infilarci gli stivali di camoscio modello squaw in piena estate negli anni Ottanta perché eravamo state in vacanza estiva a Ibiza e le ballerine col fiocchetto di “Santa” iniziavano a farci sentire troppo perbene in quel panorama di cosce inguainate e di capelli selvaggi, su Capri dobbiamo riconoscere di avere da sempre uno scarso imperio e una influenza estetica relativa. Sì, gli infradito di Canfora, certo per carità e comunque meglio semplici, in cuoio naturale, e non con tutti quei cristalli applicati che francamente non se ne può più. Sì, i pantaloni alla caviglia, che però a troppe stroncano la gamba più degli stivaletti con le frange e le perline e finiscono per non essere un bel vedere. Ecco, magari i caftani di chiffon come li portava Irene Galitzine nella sua casa con vista su Marina Grande, che però negli stessi anni, i Sessanta e i Settanta, stavano ancora meglio a Talitha Getty, perché tutti abbiamo presente la foto di Patrick Litchfield che la ritrae con quella faccia da olandese atipica sul tetto del suo riad di Marrakech, il marito John Paul Getty jr sullo sfondo con addosso il barracano, che ha ispirato almeno una decina di collezioni di moda e che ancora adesso rappresenta l’archetipo di ogni abbandono estetico-sensuale femminile. Capri, “babbuccia di Dio” e replica terrestre del paradiso, come da composizione di Jean-Noël Schifano in un apparentamento forse inevitabile con lo stivale che le sta di fronte e poi ditemi se noi italiani avremmo potuto essere altro che i leader mondiali nelle scarpe, è invece referenza prepotentemente maschia.
Comunque la vogliate guardare e anche mettendoci dentro le tante bougainville fucsia e arancio che comunque portano il nome di un uomo e nelle loro delicatezze si fanno coltivare meglio e con maggiore soddisfazione da giardinieri di sesso maschile, Capri reca ovunque i segni di un’ ispirazione virile a prescindere dai soliti riferimenti ai vizi di Tiberio. Lo ha dimostrato perfino il matrimonio di Giovanna Battaglia con il milionario svedese Oscar Engelbert che ha paralizzato l’isola lo scorso weekend, i tabloid di Stoccolma e di Malmo per le prossime settimane e nonostante le critiche per la requisizione delle strade ottenuta pronta cassa e le conversazioni dei modaioli per i mesi a venire. Ancora più degli strepitosi abiti scelti dalla sposa – fashion editor di Vogue Japan ed ex modella di piglio – a catalizzare attenzione e commenti sono stati gli invitati alti e biondi, tutti di buona educazione, vestiti di chiaro con grande parsimonia di cravatte e dunque, con l’eccezione del padre della sposa, consapevoli che ai matrimoni non ci si presenta in smoking, tanto meno al mare e figurarsi a Capri, dove negli anni Cinquanta perfino l’arrotino si faceva beffe dei maggiorenti diccì che uscivano sulla terrazza del Quisisana a godersi il fresco in giacca, cravatta e scarpe lucide.
Aveva fatto molto ridere Mario Scelba, all’epoca ministro degli Interni, quando, sbarcato sull’isola bagnato fradicio per via di un’onda altissima che si era abbattuta sul motoscafo, si era fatto pulire, asciugare e stirare in tutta fretta il vestito scuro, rimanendo chiuso in camera mentre la banda degli elegantissimi e degli eccentricissimi dell’epoca, capitanata da Dado Ruspoli, inscenava per le strade la famosa rivolta degli slip sfoggiando mutandoni vittoriani e cuffiette contro la sua direttiva a difesa delle misure minime accettabili per i costumi da bagno. Se l’erano presa a morte con “o’ ministro” pure i questurini locali, costretti a inerpicarsi sotto il sole nella tenuta d’ordinanza fra le spiagge prospicienti i faraglioni per stanare gli scostumati, e financo i giudici, che ad ogni retata dovevano tirare fuori dal cassetto il metro da sarta per verificare che “l’inforcatura per la taglia 38 non fosse inferiore a 32,5 centimetri e la larghezza non meno di 10”, con grave nocumento per il loro prestigio agli occhi della popolazione del golfo di Napoli. Sull’isola dove Il pittore Chicò aveva iniziato a portare camicie sgargianti ben prima che Emilio Pucci aprisse la sua prima boutique all’ingresso dello stabilimento La Canzone del Mare e dove il ballerino tedesco Julius Spiegel abbordava i turisti agitando invitante le mani cariche di anelli nella speranza di scroccare almeno un cappuccino, quelle norme erano un affronto al clima di tolleranza per il quale andava famosa e su cui aveva costruito la propria fama. Scelba aveva dunque continuato a tuonare contro la mancanza di morigeratezza da altri balconi e tutto era tornato come prima.
Lo è tuttora e a dispetto delle orde di turisti che la invadono fino al tramonto e che in realtà vi sbarcano nella speranza di respirare un po’ di quell’aria frizzante e spregiudicata e di cogliere con il cellulare una qualche celebrità in pantaloni cotti dal sole e camicia aperta sul petto abbronzato.
Ogni categoria, non chiamatelo “genere” per carità perché altrimenti non se ne viene più fuori, ha la sua zona franca, l’area di smarcatura, il tavolo dello spariglio. Per l’uomo, educato all’idea che l’eleganza maschile ufficiale nasca a Londra perché così gli hanno detto fin dall’infanzia e così scrivevano i primi gazzettieri del Settecento che a loro volta volevano dare ai cittadini di Giorgio I un’alternativa a Parigi e a quell’insopportabile Luigi XIV con i tacchi alti e la leggendaria parrucca di peluria femminile e che dunque aspettavano con ansia un testimonial e dovettero aspettare quasi un secolo, questo parco protetto dei giochi e dei sogni possibili dove liberarsi delle grisaglie, dei tweed che accidenti se pizzicano e della noia del grigio è l’isola di Capri. Per questo è del tutto logico che, volendo presentare a Milano la collezione estate 2017, Gianluca Isaia che a Capri “tiene boutique” con vista, bar laccato vintage anni Cinquanta color amaranto e terrazzino, abbia deciso di allestire lo spazio antistante alla nuova showroom con giochi e una piccola isola di Capri gonfiabile, comprensiva di Faraglioni, sdraio e mozzarelline e chisseneimporta se piove. Nel weekend di metà giugno che ospita la fashion week milanese più contenuta di sempre (in programma ci sono trentasei sfilate compresa Dolce & Gabbana da sempre fuori calendario, per fortuna del sistema molte presentazioni e, valutazioni congiunturali a parte, non è una cattiva idea: nulla è più grossolano di una sfilata maschile a eccezione di quelle di Giorgio Armani, che con ogni probabilità indottrina i suoi modelli fino a quando imparano a camminare e non a dondolarsi in passerella come scimmioni) i figli degli ospiti di Isaia avranno tutta la libertà di scalare quelle rocce di plastica e di scivolarci sopra beati. Buyer e giornalisti dovranno contentarsi di guardarli, con il conforto del buffet.
“L’isola è la repubblica della libertà individuale da sempre”, dice Isaia, che è stato il primo imprenditore a indossare gli infradito sotto il completo gessato anche nelle città europee, quando per decenni lo avevano fatto solo gli indiani e giusto fra Mumbai e Bangalore. “Qui ci spogliamo di ogni inibizione, almeno in fatto di abbigliamento” aggiunge con una risata, consapevole di non stare esagerando. Se avete mai visto uno di quegli uomini che non uscirebbero mai con la camicia stazzonata o la cravatta con il nodo allentato prepararsi per un weekend a Capri, sapete di che cosa stiamo parlando. Del fantasma di Rudy Crespi che L’Europeo dell’aprile 1947 osservava vestito “impeccabilmente di abiti di gran taglio e camicie di seta cambiate più volte al giorno a Roma” e sull’isola “sempre in pantaloni bianchi e maglietta blu oppure in pantaloni blu e maglietta bianca”. Prende dal ripostiglio la valigia più bella che possiede (il bagaglio raffinato è il primo segno di signorilità, osserva compunto, evocando certi vecchi concierge dell’isola, per non dire certi custodi di casa affezionati come nei romanzi, che a suo dire a queste cose dovrebbero badare oggi come sessant’anni fa) e la squaderna garrulo sul divano. Nel frattempo, e a compensazione, annuncia che allo sbarco a Marina Grande per prima cosa si toglierà le scarpe e le calze; che, anzi, non indosserà nemmeno le infradito, perché quando sono di cuoio e non abbastanza usate scivolano e si rischia l’osso del collo mentre “i piedi nudi a Capri lì si può”. Quindi, apre la cassettiera e ne estrae con gioia tutta una serie di camicie turchesi, giallo limone e fucsia, l’inevitabile fucsia, che voi donne degli stivaletti di camoscio scesi sulla caviglia nascosti da decenni per la vergogna di esibire quel cattivo gusto neanche sospettavate che avesse mai acquistato e che invece stavano lì, pronte per l’occasione che non era stata Bali (camicie khaki e bianche), e che non sarebbe mai Saint-Tropez (in jeans e righe), ma che era appunto Capri, la patria dell’abbigliamento libero con ampia franchigia perché impastata di intelligenza, di cultura, di ricchezza ma anche dei sentori grevi di Villa Lysis, dei pamphlet di Curzio Malaparte contro il potere dei preti e del gioielliere Chantecler che mangiava su una pila altissima di piatti per non fare la fatica di abbassare la testa.
Lo stilista Gianluca Isaia
Così come quel carrozzone dello sponsor profumiere che è il festival del cinema di Cannes non riuscirà mai a eguagliare l’allure fanée della Mostra di Venezia, la cofana di Brigitte Bardot e della Madrague non ha scalfito il ricordo di Jackie Kennedy e di Gianni Agnelli e del famoso telegramma di Jack che l’aspettava oltreoceano per dare l’assalto alla Casa Bianca. “More Caroline, less Agnelli”. A Capri si può essere entrambe le cose, smentendo la famosa, e dunque noiosa, locuzione di Ludwig Mies van der Rohe sul meno che è di più e che noi italiani allevati a massicce dosi di barocco stentiamo a comprendere così come i cinesi faticano a penetrare la nozione di copyright e come non si possa vivere alle spalle del genio e dell’impegno altrui, ancorché imitandolo benissimo. Nella maschilissima Capri si può essere dunque sgargianti restando simpatici, colorati e divertenti senza mai diventare inutilmente “acchittati” come i tanti blogger che stazionano sui muretti della Fortezza da Basso nei giorni di Pitti Uomo in attesa di ingaggio sponsorizzato a modello delle meretrici affacciate sul Ponte delle Tette della Serenissima rinascimentale. Ma si può essere anche e del tutto monocromatici come agli inizi dei Cinquanta, anni trepidi e incerti, quando il solito principe Ruspoli aveva rischiato l’imputazione per apologia del fascismo presentandosi in piazzetta vestito da capo a piedi di nero, dai pantaloni alla blusa di seta, subito imitato dagli amici Verbinshac, proprietari del famigerato Clubino, e da tutti i villeggianti, mentre una tale disgraziatissimo commissario Fortunato, uno di quei personaggi che negli stessi anni Vittorio De Sica infilava a piene mani nelle sue commedie, si vedeva costretto a prendere nota, segnalare alla procura e poi archiviare vista la notorietà, la rilevanza economica e anche la totale vacuità dei soggetti.
Capri è maschia e libera per evocazione e per costanza nella narrazione: tutti conosciamo almeno un aneddoto che la riguarda e sappiamo come abbellirlo e renderlo più intrigante. Non a caso Isaia (così come Domenico Menniti, il patron di Harmont & Blaine che a Pitti Uomo ha portato una collezione “di ispirazione mediterranea” al punto di sembrare ricalcata sulle piastrelle dell’hotel Luna) ha voluto una collezione che guarda all’immaginario caprese più che alla sua realtà e alla sua stessa storia. Un mosaico di immagini e di riferimenti inglesi e soprattutto americani riferito all’idea stessa di estate italiana: rosa e lilla; grigi chiari opposti a rosso e giallo. Il blu Napoli stemperato negli azzurri e nell’avio. E poi le righe, come nei tendalini dei taxi capresi che aprivano tutti i film di ispirazione vacanziera anni Cinquanta costruiti dagli studios, che riusciva a far sognare milioni di americani sull’immagine di un Clark Gable precocemente invecchiato accanto alla freschissima, trionfante Sophia Loren nella “Baia di Napoli”. Capri è stata sceneggiatura maschile, è stata Hollywood anche prima di diventare una rassegna cinematografica per cuori solitari in inverno.
Il Foglio sportivo - in corpore sano