Argentina, feluche liberali
Roma. “Mauricio Macri è il primo presidente in un secolo di storia argentina a non essere né peronista, né radicale, né militare. E’ il primo presidente argentino a essere ingegnere, dopo un’interminabile sfilza di avvocati. E’ il primo presidente argentino figlio di italiani. Anche altri avevano cognomi e avi italiani, ma lui è il primo con il padre nato in questo paese in Italia”. Nuovo ambasciatore in Italia dopo aver rappresentato il suo paese a New Delhi, Tomás Ferrari è a sua volta un componente di quella maggioranza di argentini con cognome italiano, dice in questa conversazione con il Foglio: “La mia famiglia è ligure, di vicino La Spezia, zona delle Cinque Terre”, specifica. Oratore a un incontro organizzato dall’Osservatorio Mediatrends America-Europa su “Macri e il nuovo cambio politico in America Latina”, ammette che il nuovo presidente viene oggi considerato una sorta di leader emergente per le forze che stanno nascendo dalle ceneri della crisi dei governi populisti e di sinistra che avevano dominato l’America Latina almeno dall’inizio del Terzo Millennio.
Tuttavia l’ambasciatore tende a sottolineare un aspetto: “A Macri non interessa fare il leader regionale, e neanche essere definito di destra o di sinistra, liberale o socialdemocratico. Interessa risolvere alcuni problemi lasciati in eredità dalla precedente Amministrazione: la seconda inflazione più alta del mondo, un alto deficit fiscale, un export al palo, una disoccupazione in crescita, un’amministrazione pubblica con troppi dipendenti, la recessione. Per avviare a soluzione tutto ciò serviranno un anno di transizione e alcuni aggiustamenti, ma fatti nella maniera più dolce possibile, per non generare tensioni sociali”. Ferrari considera positivo perfino il fatto che Macri non abbia una maggioranza a suo sostegno in Congresso: “Le leggi contrattate con l’opposizione saranno più difficili da far approvare, ma poi dureranno di più”.
Insomma, “si tratta di porre fine a una storia di cicli decennali in cui alla crescita è seguita immancabilmente una caduta”, comune a tutta la regione. Alla domanda del Foglio se effettivamente tra i due argentini più famosi del momento si stia delineando una sorta di duello in cui Macri è il leader dei liberisti e Papa Francesco l’ultimo punto di riferimento dei populisti, l’ambasciatore risponde facendo ironia sulle manie scenaristiche della stampa argentina. Però ammette che un successo di Macri può effettivamente fare da modello. E poi, “per creare lavoro ci vogliono investimenti. E per attrarre investimenti ci vuole un’economia aperta. Il nuovo corso dei governi sudamericani può contribuire a un maggior pragmatismo”.
Macri, appena eletto, ha chiesto la sospensione del Venezuela di Maduro dal Mercosur, ma poi è stato criticato dall’opposizione venezuelana quando ha frenato un’analoga iniziativa che in sede di Organizzazione degli stati americani aveva preso il segretario Luis Almagro: “Ai tempi dei regimi militari il Venezuela accolse un gran numero di rifugiati argentini, ora è per noi un dovere difendere i diritti umani in Venezuela. Ma il nostro obiettivo è che in Venezuela si arrivi a un accordo, e dobbiamo dunque bilanciare con attenzione gli strumenti che si utilizzano”. Malgrado il discorso dell’aggiustamento con dolcezza, il governo Macri sta però venendo accusato di stare facendo licenziamenti di massa: “In Argentina l’impiego pubblico era cresciuto del 50 per cento in 10 anni senza che i servizi migliorassero in proporzione. Per di più, nell’ultimo anno la precedente Amministrazione aveva fatto assunzioni in massa di funzionari con l’obiettivo dichiarato che facessero da ‘custodi’ e ‘guardiani’ al modello kirchnerista in caso di cambio di governo”, conclude l’ambasciatore.
Maurizio Stefanini
Il Foglio sportivo - in corpore sano