Federico Ghizzoni (foto LaPresse)

L'impossibile Unicredit

Stefano Cingolani
Siccome il senso comune è il nemico numero uno del buon senso, è bene smentire che i banchieri cadano sempre in piedi. Certo, quando se ne vanno si portano via non solo la scatola di sigari Avana, ma anche qualche gruzzolo milionario.

Siccome il senso comune è il nemico numero uno del buon senso, è bene smentire che i banchieri cadano sempre in piedi. Certo, quando se ne vanno si portano via non solo la scatola di sigari Avana, ma anche qualche gruzzolo milionario. Tuttavia, pochi ricordano che nelle banche mondiali colpite dalla grande crisi del 2008 si erano salvati solo tre superbanker, tutti americani: Brady Dougan del Credit Suisse, Lloyd Blankfein di Goldman Sachs e Jamie Dimon di Morgan Stanley. Finché il 10 marzo 2015 è toccato anche a Dougan. Dopo otto anni vissuti pericolosamente, ha lasciato l’incarico ed è stato sostituito a tambur battente da Tidjane Thiam, ex McKinsey boy e ministro della Costa d’Avorio, che si era rifatto una vita dal 2009 come numero uno della compagnia di assicurazioni Prudential. L’annuncio lo ha dato il presidente Urs Rohner e il titolo è decollato in Borsa guadagnando oltre il 7 per cento. La successione era già decisa: una delle più grandi banche del mondo non poteva rimanere un solo minuto senza un capo al timone. Lo stesso è accaduto il 16 ottobre 2012 al Citigroup. Vikram Pandit s’è dimesso dopo meno di cinque anni. E il cda ha nominato al suo posto Michael Corbat, già responsabile della divisione che si occupa di Europa, Medio Oriente e Africa. Pandit, che veniva da Morgan Stanley, è stato messo alla porta dal consiglio di amministrazione perché aveva gestito male le attività della banca, provocando attriti con le autorità di regolamentazione e una perdita di credibilità verso gli investitori. Non indolore, ma rapida anche la successione al vertice della Deutsche Bank nel 2015. I due amministratori delegati Juergen Fitschen e Anshu Jain hanno mollato ai primi di giugno, travolti dalle inchieste giudiziarie che hanno investito la principale banca della Germania. La scelta è caduta su John Cryan, l’ex direttore finanziario di Ubs, che ha preso le redini il primo luglio.

 

Così fan tutte, o quasi; tutte tranne le banche italiane, che sono sempre una eccezione. E Unicredit lo è ancora di più. Il 24 maggio, data fatale per la nazione, Federico Ghizzoni annuncia di essere pronto a un passo indietro. Le dimissioni vere e proprie arriveranno all’ingresso del successore, fino ad allora mantiene tutte le deleghe operative. Una prassi normale se il passaggio di consegne non impiega che qualche giorno. Invece, in Unicredit ci vuole tempo, molto tempo. Cinque anni fa il sostituto di Alessandro Profumo arrivò in nove giorni con una scelta interna: Ghizzoni era entrato da giovane e aveva percorso tutti i gradini uno per uno. Oggi sono stati i soci forti a chiedere la sua poltrona, ma sono divisi sul futuro, su chi scegliere e sul che fare. Lunedì 16 maggio il capo azienda si era visto invadere l’ufficio da alcuni soci scontenti per i risultati e per il titolo che dall’inizio dell’anno ha perso in Borsa la metà del suo valore. Il malessere montava da tempo, anche se l’ultima goccia è caduta con il fallito aumento di capitale della Popolare di Vicenza, garantito da Unicredit. Gli azionisti “pesanti” hanno affrettato il passo e hanno imposto le dimissioni alla cieca, cioè senza avere in mente un ricambio. E sì che Unicredit è una Sifi, una banca sistemica, vigilata dalla Bce e dunque – per questioni di forma e di sostanza – non è certo un bene che resti acefala a lungo. . Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha chiesto di fare presto. Ma i padroni della banca non sanno che pesci pigliare e decidono di affidarsi ai cacciatori di teste.

 

Giovedì scorso, 23 giugno, mentre l’ombra della Brexit si allungava sui mercati, il comitato nomine si è riunito per esaminare le proposte dello headhunter Egon Zehnder, una cinquina che, però, è solo l’inizio del percorso, come ha ammesso il presidente Giuseppe Vita. La girandola di nomi fa venire in mente il gioco delle nomine nelle partecipazioni statali. C’è chi mette in campo Alberto Nagel (Mediobanca), ma lui si schermisce, ad alcune fondazioni piaceva Carlo Cimbri, il capo dell’Unipol (assicurazioni rosse alleate di Mediobanca), ma non ha ricevuto l’ok della Bce (sì, c’è di mezzo anche Mario Draghi in queste complesse procedure). I soci arabi puntano su una bankstar (non bankster, per carità), gli americani preferiscono chi conosce il loro mondo. E così via. Un ping pong di patate bollenti e polpette avvelenate che dimostra come l’impossibilità di essere normale abbia contagiato Unicredit.

 

Tanto per complicare la vita, si mettono di traverso anche i grillini. Grazia Appendino dopo aver sconfitto Piero Fassino ha chiesto la testa di Francesco Profumo, l’ex rettore del Politecnico ed ex ministro dell’istruzione con Mario Monti che proprio Fassino in qualità di sindaco aveva collocato, come da tradizione, al vertice della Compagnia di Sanpaolo, la fondazione bancaria prima azionista con il 9,34 per cento del gruppo Intesa Sanpaolo. Nella prima e più solida banca italiana è suonato un campanello d’allarme. Ha appena cambiato i vertici e anche l’assetto di governo, alla presidenza è andato Gian Maria Gros Pietro, capo azienda resta Carlo Messina e Giovanni Bazoli, il fondatore e federatore della banca, è presidente emerito. Tutte le caselle sono state messe a posto e adesso il ribaltone al comune si trasmette anche sulla banca? Getta acqua sul fuoco Enrico Salza, per molto tempo dominus incontrastato della Compagnia, un politico di lungo corso di ascendenza liberale che aveva vaticinato la rovina di Torino in caso di vittoria dell’Appendino e poi, una volta fatta la frittata, ha chiamato il padre della neo sindaco che è vice presidente di Prima Industrie e braccio destro del numero uno di Confindustria Piemonte, Gianfranco Carbonato. “Il nonno Giuseppe era un mio carissimo amico – ha confidato Salza a Repubblica – Conosco molto bene anche il padre, la madre e la nonna. Chiara ha frequentato la scuola americana da me fondata: è per mezzo mio che ha compiuto i propri studi. Adesso sono pronto a darle aiuto, ma deve essere lei a chiedermelo”. In mezzo ai tanti che salgono sul carro del vincitore qualcuno già siede a cassetta?

 

Non c’è solo il Sanpaolo. In ballo è anche la Fondazione Cassa di risparmio di Torino che è azionista di Unicredit e al vertice del gruppo bancario si fa rappresentare da Fabrizio Palenzona, piemontese di Alessandria, anche lui politico di lungo corso fattosi banchiere (tra le altre cose), che veglia sui complicati e incerti equilibri proprietari di Unicredit. Ha attraversato la Prima e la Seconda Repubblica, pattinando tra la Dc nella quale ha mosso i primi passi (nella corrente di Carlo Donat Cattin, l’anti-Agnelli) e la sinistra del centro con un occhio sul centro-destra, basculando tra la famiglia Benetton (Autostrade, Aeroporto di Roma) e Alessandro Profumo, l’uomo che ha costruito Unicredit mattone su mattone a cominciare dal 1995, subito dopo la privatizzazione.

 

Con a cassetta quel giovanottone dal piglio manageriale, per quindici lunghi anni la banca non ha mai smesso di crescere. Prima in Italia con il Credito Romagnolo poi all’estero cominciando dalla Baviera con la Hypovereinsbank. Entrano la Cassa di Risparmio di Torino, quella di Verona, quella di Trento e quella di Trieste. E dal 2000 parte l’espansione accelerata nell’Europa centro-orientale. Profumo ha in mente di creare la prima vera banca della nuova Europa, quella dell’euro, ma anche quella dell’integrazione dei paesi ex comunisti, un progetto che lo porterà in Polonia, in Romania, in Austria, in Ucraina, in Russia fino alla Turchia. E’ un disegno economico e geopolitico che accompagna con studi, seminari, una rivista bimestrale chiamata East. Nel frattempo, i dipendenti salgono da 15 mila a 144 mila e la banca si ramifica in 17 paesi. Un successo clamoroso che in Italia culmina nella fusione con Capitalia nel 2007.

 

Dopo il matrimonio con la banca romana guidata da Cesare Geronzi, Unicredit valeva cento miliardi di euro. Principale azionista era la fondazione Cassa Risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona con il 3,9 per cento. Di poco inferiore la quota detenuta dalla compagnia tedesca Munich Re (3,7 per cento). Sopra al tre per cento anche le partecipazioni di altre grandi fondazioni come la torinese Crt (3,69 per cento) e la modenese Carimonte (3,34 per cento). Allianz aveva il 2,42 per cento e la banca olandese Abn Amro l’1,88. Insomma, triangolo industriale (con puntate al sud attraverso Roma e il Banco di Sicilia) più Modell Deutschland. Oggi le gerarchie sono cambiate a favore di una instabile giustapposizione di arabi e americani con le fondazioni in seconda fila. Nel frattempo, c’è stata la Grande Recessione.

 

Nel settembre 2008, il crollo della Lehman s’abbatte come un maglio sulle spalle della banca e sulla testa di Profumo. Ci vuole un aumento di capitale, quasi tre miliardi di euro finanziati in gran parte dalle fondazioni azioniste. Non basterà. Arrivano 4 miliardi nel 2010 e 7,5 miliardi nel 2012. Cominciano le prime cessioni e non è esattamente il taglio dei rami secchi. Intanto, Profumo viene disarcionato nel settembre 2010, esce con una superliquidazione di 38 milioni di euro, ne devolve due in beneficenza e si mette a fare il banchiere per conto proprio. Il timone spetta a Ghizzoni e sono anni di navigazione procellosa. Il capitale netto scende da 67 a 50 miliardi tra l’uscita di Profumo e il 2015, il valore delle azioni passa dai sei euro ai due euro e pochi centesimo attuali, i bilanci 2011 e 2013 chiudono con forti perdite in particolare dopo aver svalutato con grande senso della realtà molti crediti inesigibili.

 

Si presentano grattacapi seri anche nell’intero edificio centro-europeo. Vanno dai mutui dei quali è zeppa la tedesca Hypovereinsbank alla tenuta delle banche dell’est. E si manifestano anche complessi problemi geopolitici. La guerra in Ucraina costringe a uscire dal paese conteso tra Russia e Unione europea. Le sanzioni a Putin non sono certo una manna per la banca moscovita di Unicredit. Ma problemi di sicurezza e sintonia politica si manifestano anche nel cuore del capitale.
Il primo interrogativo riguarda il peso e il ruolo dei libici, un pacchetto di quasi il 3 per cento diviso tra banca centrale e la Lybian foreign bank. Anche il fondo Aabar che fa capo all’emiro di Abu Dhabi, azionista numero uno con il 5,49 per cento (possiede anche Etihad, primo azionista di Alitalia), rappresentato a tutto campo da Luca di Montezemolo, viene messo sotto osservazione. Khalifa, figlio di Zhaled della tribù Nahyan, che è anche presidente degli Emirati arabi uniti, non fa il tifo per il Califfato, mentre gli Stati Uniti nutrono sospetti sul Qatar, guidato da Tamim al-Thani (imparentato con Khalifa), che possiede il complesso di Porta Nuova e quindi anche il grattacielo di piazza Gae Aulenti, quartier generale di Unicredit. In una fase in cui nemmeno l’Arabia saudita viene ritenuta affidabile, gli sceicchi non sono esattamente il massimo per una banca sistemica e una delle prime d’Europa. Il resto del capitale è diviso tra BlackRock, il grande fondo d’investimenti americano (il 5,026 per cento), la Fondazione Cassa di risparmio di Verona, Vicenza, Belluno e Ancona rappresentata dal rientrato Paolo Biasi (ha il 3,46 per cento) e la Cassa di Risparmio di Torino con 2,52 per cento. Francesco Gaetano Caltagirone ha una quota dell’un per cento e un consigliere, suo figlio Alessandro. Unicredit è dunque una public company. La maggioranza delle azioni è in mano a fondi di investimento, assicurazioni e una miriade di piccoli azionisti, eppure il “capitalismo popolare” esprime in consiglio solo Lucrezia Reichlin, economista già presso la Bce e ora alla London Business School, figlia di Alfredo Reichlin, dirigente di punta del Pci, e di Luciana Castellina, fondatrice del manifesto. Gli altri sedici sono tutti consiglieri di minoranza nominati con voto di lista. Le azioni si pesano, non si contano.

 

Questa compagine eterogenea e frastagliata non ha un’unica idea su cosa fare nella banca e della banca. Gli arabi si lamentano perché perdono invece di guadagnare. I libici sono azionisti passivi. Gli americani chiedono di risollevare il titolo in Borsa e insistono nel razionalizzare che vuol dire soprattutto tagliare posti di lavoro. Le fondazioni cercano di difendere i gioielli di famiglia. Che senso avrebbe vendere Fineco, la società di gestione dei capitali che ha sempre prodotto profitti? Gonfierebbe i portafogli dei soci, ma impoverirebbe la banca. Così come ridurre la presenza nell’Europa centro-orientale, vendendo alcune aziende di credito. Anche se Unicredit sarebbe più leggera, meno sistemica e meno bisognosa di capitali. Perché su una cosa sembrano tutti d’accordo: evitare un altro aumento di capitale. E secondo le stime degli analisti c’è bisogno almeno di cinque miliardi di euro.

 

E i pentastellati? Entreranno anch’essi in una lista? Dopo Francesco Profumo cadrà anche Fabrizio Palenzona? Nessuno potrà mai sospettarli di vecchio clientelismo. “Abbiamo una banca”, aveva esclamato il povero Piero Fassino nel 2005 quando Unipol stava per conquistare la Bnl, e mal gliene incolse (arrivarono, manco a dirlo, i grandi inquisitori). L’Appendino non lo dirà mai. Nemmeno “vogliamo una banca” o, peggio ancora, “ne vogliamo due” e magari un pezzo dalla Cassa depositi e prestiti (nel cui consiglio siede il già asfaltato Fassino in rappresentanza dei comuni), mentre la Banca d’Italia stampa moneta per il reddito di cittadinanza. Tuttavia, Dio ci scampi e liberi dall’occupazione del potere, dalla lottizzazione, dallo spoil system (con tutte le s al loro posto, come può garantire la Casaleggio e associati). “Siamo incorruttibili” ha detto la Raggi (come Robespierre) dopo aver denunciato le sue parcelle un anno dopo perché solo allora aveva ricevuto il pagamento (in realtà le fatture si emettono subito, ma il M5S vuole abolire Equitalia e anche l’Agenzia delle entrate a Beppe Grillo non sta molto simpatica). Bando alle ciance, alle cattiverie, agli arrière pensée o ai gossip (sulla povera Raggi incombe persino l’ombra del marito inconsolabile, #virginiamimanchi”, e del presunto fidanzato che siederà al suo fianco in Campidoglio). Donne nuove, uomini nuovi, politica nuova e banche… beh, le solite, ma rinnovate sia chiaro. E i banchieri? Quelli li sceglieranno le prime cittadine. Il cacciatore di teste sarà Rousseau, ça va sans dire.

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