Il monaco che non c'è
I vecchi seminari sono lì, monumentali e austeri, con parchi ampi e cancelli arrugginiti. Dietro l’inferriata, sovente si scorge qualche vetro rotto, sterpaglie ovunque, silenzio tombale. Cattedrali nel deserto dove non passa più neppure il giardiniere. E’ la sorte toccata a certe chiesette medievali di campagna, crollate su se stesse, vuoi per la forza degli elementi naturali o perché a un certo punto nessuno s’è più occupato di esse. Un po’ come accaduto a Cluny, che secoli addietro fu la più grande e ricca abbazia della cristianità, fondata nel 910 da Guglielmo d’Aquitania e di cui oramai “restano in piedi soltanto il campanile dell’Acqua benedetta e una parte, sventrata, del transetto maggiore. Oggi per vedere Cluny bisogna immaginarla”, scriveva lo storico Glauco Maria Cantarella. Resti di un tempo finito, di un’èra in cui fiumane di bambini entravano lì dentro non solo per farsi preti (almeno, non solo per questo), ma soprattutto perché spinti dai padri a uscire dal destino che la Provvidenza aveva consegnato alla famiglia, di generazione in generazione. Studio anziché lavoro nelle botteghe o nei campi, latino e greco antico invece di scalpello e roncola. Declinazioni e paradigmi verbali imparati a memoria sul vecchio Rocci, fino alle ore piccole, per poi ricordarseli fino alla vecchiaia. Compatendo figli e nipoti che più in là del rosa-rosae non sapevano andare, così impegnati a scaricare l’ultima app o a chattare su Facebook con l’amico virtuale conosciuto poche ore prima su qualche bacheca.
Perché quella, dopotutto e nonostante tutto, era una scuola sì di vita, ma che formava pure l’intelletto: mens sana. Un’epoca morta, che non tornerà. E i seminari chiusi sono lì a ricordarlo. A volte va meglio, certo. In quelle aule austere dal soffitto alto spesso siedono studenti delle laicissime facoltà universitarie, sempre a corto di spazi dove far mettere matricole svogliate e laureandi ansiosi. I seminari che ci sono ancora, magari una sede per regione, conseguenza di burocratiche unioni e necessari accorpamenti per rimpolpare le schiere di candidati al sacerdozio, sono poco frequentati. Si dice che ormai il parametro sia la qualità, più che la quantità – il che sa tanto di rassegnazione. E che nel poco può esserci il meglio, decidendo di anteporre sempre la qualità evangelica di vita al numero di membri o al mantenimento delle opere. Anche se questo significa che parrocchie più o meno grandi saranno costrette a rimanere senza sacerdote, senza messa. Senza ultimo pio e pietoso conforto per gli agonizzanti. Nell’occidente delle chiese vuote accade già da decenni, in Italia meno benché la tendenza sia assai chiara e la strada tracciata.
Il discorso vale pure per gli ordini e le congregazioni religiose, colpiti dalla secolarizzazione e ridotti a fare da conto tra morti, abbandoni e pochi ingressi. “Vi confesso – diceva il Papa lo scorso febbraio in occasione del Giubileo della vita consacrata – che a me costa tanto quando vedo il calo delle vocazioni, quando ricevo i vescovi e domando loro: ‘Quanti seminaristi avete?’ ‘quattro, cinque…’. Quando voi, nelle vostre comunità religiose – maschili o femminili – avete un novizio, una novizia, due… e la comunità invecchia, invecchia. Quando ci sono monasteri, grandi monasteri, che sono portati avanti da quattro o cinque suore vecchiette, fino alla fine. E a me questo fa venire una tentazione che va contro la speranza: ‘Ma, Signore, cosa succede? Perché il ventre della vita consacrata diventa tanto sterile?’”. Più che sul solito refrain del calo delle vocazioni, pur grave e minaccioso, Bergoglio poneva l’accento sull’invecchiamento e quindi sull’intorpidimento di intere comunità. Il rischio, insomma, di badare al quotidiano, conservando il passato nella teca dei ricordi e con ben poca propensione all’uscita e al rinnovamento. Che poi è anche quanto scriveva tempo fa Vittorio Messori, quando notava che “nella prospettiva di fede nulla può esserci di davvero inquietante”. Anche se l’immagine che si presenta gli occhi dell’ossevatore è sempre più spesso quella di vecchi monaci ricurvi che incedono lenti sotto le volte di qualche chiostro benedettino, in monasteri dove un tempo neppure troppo lontano ne passavano, con passo svelto, a decine. Per non parlare di monasteri già affollati di religiose che oggi contano sulle dita d’una mano le anziane custodi di un carisma che sopravvive benché appannato.
Il bilancio, nell’Europa del quaerere Deum, cioè del “cercare Dio e del lasciarsi trovare da lui” – “questo oggi non è meno necessario che in tempi passati”, disse Benedetto XVI parlando nel 2008 al Collegio dei Bernardini di Parigi – è quello che è, “ma non dobbiamo commettere l’errore di concentrarci sulla mancanza di vocazioni. Se cambieremo la vita della chiesa, allora avremo il numero di vocazioni di cui la chiesa avrà bisogno”, ha detto fra Bruno Cadoré, maestro dell’Ordine dei Frati Predicatori nel libro “Viaggio nella vita religiosa”, di Riccardo Benotti, edito di recente della Libreria Editrice Vaticana. E’ anche un invito a cambiare prospettiva, a guardare la situazione partendo da un punto di vista diverso che non sia quello della mera contabilità numerica: “Credo ci sia un problema di vocazioni e di vocazione”, ammette don Flavio Peloso, superiore generale degli Orionini, che però non sembra essere angosciato dalla riduzione dei confratelli: “Io da tanto tempo non parlo e non prego per le vocazioni se non dopo averlo fatto per la nostra vocazione di consacrati. Vedo la matrice della crisi di vocazioni e di vocazione nell’individualismo della cultura odierna, che ci pervade tutti, che fa ritenere troppo impegnativa una consacrazione perpetua e una forma di vita comunitaria come quella dei religiosi”.
Mons. José Rodriguez Carballo, segretario della congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, invitava già tre anni fa a non “lasciarci ossessionare dal tema” della mancanza di vocazioni, dal momento che “ogni ossessione è negativa”. “Non entro qui nel dibattito se la crisi della quale si parla sia positiva o no. E’ certo, tuttavia, che, tenendo conto del numero degli abbandoni e che la maggioranza di essi accade in età relativamente giovane, detto fenomeno è preoccupante”, sottolineava Rodriguez Carballo: “D’altra parte, considerando il fatto che l’emorragia continua e non accenna a fermarsi, gli abbandoni sono certamente sintomo di una crisi più ampia nella vita religiosa e consacrata, e la mettono in questione, per lo meno nella forma concreta in cui è vissuta”.
Insomma, bando ai bilancini e alle lamentele. Dopotutto, ha scritto Séan D. Sammon su America magazine, la rivista dei gesuiti statunitensi della East coast, bisogna prendere atto di quanto sia improbabile che le varie forme di vita consacrata presenti nella chiesa si rinnoveranno tutte allo stesso modo o arriveranno al medesimo risultato. Bisogna contestualizzare, tornare alle origini, al perché quegli ordini e quelle congregazioni sono nati. Al loro quaerere Deum, appunto. “Sono espressioni apostoliche che risalgono a tempi specifici della storia che presentavano sfide uniche”. Sfide che in tanti casi sono state vinte, facendo venire meno l’esistenza stessa di quell’ordine o congregazione. Una sorte di ineluttabile morte naturale, una parabola che prima o poi si chiude, senza drammi e lacerazioni.
Tre sono le strade che si hanno dinanzi: l’estinzione, la sopravvivenza minima (eufemismo che in realtà significa più banalmente un’esistenza in stato vegetativo), il rinnovamento. “Alcune congregazioni hanno adempiuto al loro scopo nella chiesa e cesseranno d’esistere. Altre continueranno, ma con un’adesione significativamente ridotta. Altre ancora potranno rinnovarsi, ma per farlo dovranno in primo luogo mostrarsi coraggiose nel rispondere alle vere sfide nel mondo e nella chiesa”, aggiungeva Sammon, che nella sua disamina procedeva con logica aristotelica. “La prima cosa evidente a tutti è che siamo in un mondo in profonda trasformazione. Si tratta di un cambiamento che porta con sé il passaggio dalla modernità alla post modernità – Giacomo Biffi sosteneva che a forza di inseguire la modernità, gli ordini religiosi si sono “disciolti in essa”. “Viviamo – proseguiva Rodriguez Carballo – in un tempo caratterizzato da cambiamenti culturali imprevedibili: nuove culture e sottoculture, nuovi simboli, nuovi stili di vita e nuovi valori. Il tutto avviene a una velocità vertiginosa”. Il fatto è che ormai “le certezze e gli schemi interpretativi globali e totalizzanti che caratterizzavano l’èra moderna hanno lasciato il posto alla complessità, alla pluralità, alla contrapposizione di modelli di vita e a comportamenti etici che si sono invischiati tra loro in modo disordinato e contraddittorio: sono tutte caratteristiche dell’èra post moderna”.
E’ anche la tentazione di accogliere chiunque si presenti alla porta della congregazione o del monastero è sempre in agguato. E’ l’illusione di allungare artificialmente la vita a chi ormai è avviato verso la morte naturale e ineluttabile. Francesco lo fece bene intendere, quando osservò che “alcune congregazioni fanno l’esperimento della ‘inseminazione artificiale’. Che cosa fanno? Accolgono…: ‘Ma sì, vieni, vieni, vieni…’. E poi i problemi che ci sono lì dentro… No. Si deve accogliere con serietà! Si deve discernere bene se questa è una vera vocazione e aiutarla a crescere. E credo che contro la tentazione di perdere la speranza, che ci dà questa sterilità, dobbiamo pregare di più. E pregare senza stancarci”. Parlando ai Superiori generali, nel 2013, il Pontefice aveva notato come ci siano “chiese che stanno dando frutti nuovi. Forse una volta non erano così feconde, ma adesso lo sono”, aggiungeva: “Ciò obbliga a ripensare l’inculturazione del carisma. Il carisma è uno, ma bisogna viverlo secondo i luoghi, i tempi e le persone. Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata. Bisogna viverlo con energia, rileggendolo anche culturalmente”.
Il problema è capire se si è ancora disposti a sperimentare la conversione personale e – soprattutto – sottolineava ancora Sammon – se vi è la capacità di ritrovare lo spirito del carisma che pose le basi per la fondazione dell’ordine e della congregazione. La capacità di aggiornarsi e rigenerarsi, non perdendo di vista le radici ma attualizzando il messaggio per stare nel mondo. Si tratta anche di sapersi rendere credibili, questione che si lega indissolubilmente alla capacità attrattiva di un carisma che può essere logorato e percepito come antiquato.
L’aveva spiegato bene Soren Kierkegaard, con il celebre esempio del clown che in Danimarca chiedeva aiuto per l’incendio devastante senza essere ascoltato. Il pagliaccio, naso rosso e vestito a pois, si precipitò correndo a perdifiato fino al villaggio più vicino, chiedendo a tutti quanti incontrava di darsi da fare per spegnere le fiamme. Non ci fu nulla da fare: più s’agitava, più otteneva risate da parte della “platea” lì presente, che scambiò l’agitazione per un trucco del mestiere. Al povero clown scendevano le lacrime, giurava che era tutto vero, ma quel naso rosso e quella casacca appariscente non lo rendevano credibile. Quando gli abitanti del villaggio compresero che non si trattava d’una sciocca gag ben presentata, era troppo tardi. L’incendio aveva vinto.
E’ un problema di come si presenta il messaggio, dunque. Scrive Benotti che “la difficoltà di farsi ascoltare dagli uomini nell’annuncio della fede pone spesso i consacrati allo stesso livello del clown: più si affannano per mostrare la bellezza di una parola che libera, meno vengono accolti e compresi”. Ma c’è dell’altro, aggiunge: “Per essere creduti, sembra dirci Kierkegaard, bisogna essere credibili. Le persone non tollerano la contraddizione. Se indosso i panni di un pagliaccio, rideranno per quello che dirò. Non saranno disposte a prendermi sul serio ma accetteranno di seguirmi nel divertimento della recita, fino a quando vedranno con i loro occhi il circo che brucia e sentiranno sulla loro pelle il calore delle fiamme”.
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