La bella ciccia
La prova costume, feticcio estivo dei rotocalchi femminili, ha trovato un alleato inedito in Roberto Saviano. Da “Gomorra” a Somatoline, sull’onda del cambio di stagione, dell’arrivo del caldo con i consigli a bere di più e a vestirsi leggeri e la chiusura dei programmi televisivi più affettuosi e ospitali. Martedì scorso, surfando in libertà sul web, il nostro si è dunque imbattuto in un’immagine della modella per taglie forti Ashley Graham in bici con le cosce in vista, ha letto uno dei tanti post in cui questa giunone da due milioni di follower invita le donne in carne a non prendersela troppo “per un po’ di cellulite che non fa male a nessuno”, ed è stata, parole sue, una rivoluzione. Anzi, una “rivoluzione epocale”, che gli ha provocato una di quelle domande spontanee sulle quali da anni srotola i suoi copioni di confortevole banalità. “Ma quand’è che abbiamo iniziato a misurare e a disciplinare la bellezza? Quando abbiamo deciso quale bellezza è riproducibile e quale non lo è?”.
Essendo la risposta retorica, scontata come la domanda, non meriterebbe nemmeno una riga e infatti non è l’argomento di questo articolo. Mi preme però riassumere la questione in un memorandum veloce, perché di recente mi sono imbattuta in un vecchio saggio di Gillo Dorfles su “Africa addio”, quel documentario molto discutibile e sovranamente scorretto di Gualtiero Jacopetti che alla fine degli anni Sessanta rivelò agli spettatori italiani dimentichi delle veneri ottentotte ottocentesche i sontuosi harem tribali dell’“Africa nera” con le “femmine fatte ingrassare su misura al pari di animali da macello per essere degne dei formidabili appetiti del maschio”, e continuo a concordare con lui sul difficile paragone fra i tanti criteri di bellezza che la storia, la geografia e persino l’economia hanno creato nei millenni e sull’impossibilità di venire a patti una volta per tutte e in modo univoco con tutte queste forme sempre apodittiche, perché una volta che una società si è data e ha imposto delle regole e dei codici, è difficile che se ne privi senza colpo ferire. Piuttosto, come nel periodo attuale dell’esplorazione agender, ritorce e stravolge modelli estetici di emancipazione iniziati cinquant’anni fa, con l’avvento della pillola contraccettiva e il controllo della fertilità occidentale femminile. Ventri prominenti a simulare gravidanze eterne, feticcio trecentesco, girovita a quaranta centimetri in uso nelle corti rinascimentali oppure sopracciglia depilate “a pagliaccio”, orrore del fascista votato alla bellezza muliebre nature, cioè naturalmente irsuta, abbiamo iniziato a disciplinare la bellezza dai tempi della Madre mediterranea e delle Veneri callipigie con quelle loro rotondità abnormi che ovunque nel mondo, a seconda del momento ma con una certa costanza, non hanno smesso di essere idolatrate. Direi anzi che a quell’estetica dell’adipe diffuso, trionfale e difeso contro tutti e con veemenza, stiamo tornando, sebbene questo avvenga come effetto della cultura del cibo molto di moda insieme con le food experience reiterate presso lo chef di grido e non omaggio alla potenza generatrice femminile che al contrario, almeno in occidente, mi pare un tema piuttosto in ribasso.
Non so se sia mai esistito un momento in cui l’estetica dominante si sia rifatta alle proporzioni della scultura classica: di sicuro la Venere di Cnido, nelle tante copie in cui è giunta fino a noi, non darebbe soddisfazione alle epigoni di Ashley perché troppo sottile e del tutto priva della buccia d’arancia che non fa mai male, ma non piacerebbe perché troppo massiccia neanche al mondo della moda che, vi sarà chiaro, è il capro espiatorio di ogni valutazione sui canoni estetici dominanti da vent’anni a questa parte o, volendo guardare molto indietro, a quelli dell’epoca di Lucas Cranach con quelle Veneri dalle gambe lunghe e sottili e l’andatura danzante a bacino proteso come modelle di Dior. Il nostro modello attuale oscilla dunque fra ideali estetici entrambi lontanissimi dalle proporzioni auree che secondo neurologi e psicologi dovrebbero determinare in via automatica le nostre simpatie e le nostre avversioni, e tiene ben poco o in nessun conto a fini riproduttivi la sovrabbondanza che a Saviano farebbe perfino un po’ di sesso. Il grasso accumulato negli happy hour ad alcol e patatine pare non ci serva granché (e fortunatamente per il loro patrimonio genetico) a nutrire i nostri cuccioli in ipotetici tempi di carestia. La verità, che nessuno dice e Saviano tanto meno perché vuoi mettere trasformarsi nell’idolo della mamme in vacanza a Riccione, è che vogliamo continuare a strafogarci di cibo e aumentare di taglia senza sentirci in colpa, ma anzi sentendoci continuamente ripetere quanto siamo belle e smaglianti. Guai, piuttosto, a quelle che, per dono di natura o per disciplina, il sostantivo più esecrato di questa generazione autogratificante, hanno “la bellezza delle pance piatte e del seno alto, perfetto”, che Saviano dichiaratamente aborre e vorrei proprio vederlo al momento buono, di fronte alla “scostumatezza” estetica che invoca.
Sulla bellezza e i suoi diktat abbiamo scritto una milionata di saggi, articoli, rubriche. Gli etnologi vi hanno fondato scuole, e col contenuto polverizzato delle ampolle egizie gli archeologi hanno foraggiato l’industria cosmetica moderna per decenni. Certamente lo sa anche Saviano, che però finge di non saperlo perché il consenso popolare del momento va da un’altra parte e lui dopotutto vive da dieci anni sul successo di “Gomorra” e sulle polemiche contro chi gli vorrebbe togliere la scorta dopo che i presunti mandanti delle minacce a suo carico, fra i quali sorprendentemente non figurano i colleghi plagiati nel corso degli anni, sono stati tutti assolti facendo pure ’nu pernacchio (“ma chi li ha minacciati a questi giornalisti?”). Ha dunque bisogno di trovarsi una nuova causa, e il grasso libero è una causa facile, plebiscitaria e perfetta. Non c’è neanche bisogno di documentarsi o di saccheggiare testi altrui. Tutti hanno ben presente la questione fino al lessico di riferimento. Già ormai da qualcuno di questi anni mangioni va infatti molto di moda inneggiare ai cosiddetti “corpi veri”, quasi che la pancia piatta e la mancanza di cellulite fossero espressioni di sofisticazione chimica o di innaturalezza comportamentale, al punto che sull’esegesi continua ed entusiasta delle “donne vere” e “vive” ho colleghe che hanno risollevato le sorti di riviste del tutto morte. Per questo, quando un uomo di potere e visibilità mediatica mostra di schifare le longilinee e favore delle poderose anche solo a parole, può essere certo di conquistare copertine e titoli di apertura in assenza di contraddittorio (il politicamente corretto, di prassi, rinnega il contraddittorio), come è infatti avvenuto. Siti, quotidiani, social si sono quindi bevuti la solita, vecchia tiritera sulle “donne vere” a stampo, pur avendo pronta la risposta da dargli anche senza aver letto Nancy Friday o la “Storia della bellezza” di Georges Vigarello, forse il primo ad aver messo in relazione l’ossessione del Ventesimo secolo per il corpo con lo sviluppo dei grandi magazzini e dei saloni di bellezza.
Il fatto è però che il nostro (vostro, via) Saviano è arrivato tardi sul tema perfino rispetto alla pubblicità mass market, che di solito ha tempi di reazione quinquennali come i piani di Stalin. Ormai fotografano “donne vere” le creme e i deodoranti Dove, per esempio, con tutte quelle belle ragazze chi magra, chi rotonda, chi alta, chi minuta. Sono “vere” da anni le ragazze United Colors. Professioniste nei campi più diversi, e non modelle di peso variabile come Ashley, sono le testimonial di Ovs. Il Calendario Pirelli dell’anno in corso scattato da Annie Leibovitz è un trionfo di rughe, cellulite ed età diverse mostrate con orgoglio, e chissà dove stava Saviano quando quel genio comico di Amy Schumer raccontava di essersi voluta far ritrarre nuda perché non è così che bisogna farsi apparire sul Cal e chissenefrega della ciccia, anzi lei si trovava fichissima? I media di oggi sono popolati di donne di successo che non sembrano affatto modelle. Che, anzi, le hanno oscurate. Il fenomeno delle top era morto, finito, esaurito ancora prima che Saviano pubblicasse “Gomorra”, e chissà dove stava anche allora. E’ vera Adele con quel suo viso imponente e la voce roca. E’ vero, si dice addirittura rimpolpato all’eccesso, il modello di bellezza del momento, la “culona chiavabile” Kim Kardashian e scusatemi lo zic necessario di volgarità. Quando, in occasione della prima esecuzione di “Traviata” con i costumi di Valentino e la fischiatissima regia di Sofia Coppola all’Opera di Roma c’è stato bisogno di vestirla (le star ufficialmente in guardaroba hanno solo sneaker e tute sformate, gli abiti che indossano sono sempre di qualcun altro), lo staff di Vivienne Westwood non si è preoccupato che dal bustino dell’abito bianco imprestato per l’occasione spuntasse, strizzata e spinta verso la base del collo, un’onda lunga di rotolini di grasso. Per le clienti di oggi, era un valore aggiunto.
Se Saviano ha scoperto oggi la potenza iconica dello sfoggio cellulitico, la moda l’ha fatto dal momento in cui ha visto tornare indietro quintali di merce invenduta perché unfit come Berlusconi ai tempi delle copertine dell’Economist, e sono già passati dieci anni. Chi vende camicie di cotone e abiti di lino, fibre a elasticità zero, si è accorto prima di chiunque altro che il mondo occidentale stava ingrassando a dispetto di tutti i contapassi elettronici che acquistava, e vi posso assicurare che ultimamente è più difficile trovare un paio di pantaloni taglia 38 che una 44 o una 46. E se qualcuno crede ancora alla fola dei media modaioli che incitano all’anoressia vada a vedersi sul sito di Vogue America il filmato dove Beyoncé sale le scale del Met per il gala di apertura della tradizionale mostra di primavera con uno spacco da vertigine sulle cosce certo toniche ma non esili.
La verità è che il mondo del web tracima da anni di queste cosiddette donne vere fotografate in tutte le pose, e non sono poche le ultraquarantenni rimaste senza lavoro o vittime di precariato ontologico, tipo pittrici con studio nel profondo della campagna inglese, che si sono rifatte una carriera e talvolta una vita proponendo il proprio stile a milioni di donne. Non tutte sfoggiano necessariamente un gnocco di cellulite come testimone della propria devozione alla causa, ma d’altronde non tutte di cellulite devono campare come Ashley che, lo capirà anche Saviano, con un post azzeccato può agguantare un nuovo contratto pubblicitario e rimpolpare ulteriormente guance, cosce e soprattutto conto in banca. Helen Downie, account instagram unskilledworker, finita nell’orbita degli artisti che ruotano attorno alle attività di Gucci grazie a un post che aveva colpito il grandissimo fotografo Nick Knight, è magrolina, più vicina ai cinquanta che ai quaranta e, non vorrei suonare offensiva, a occhio e croce possiede quei sagging tit, le tette cadenti, che Saviano troverebbe ufficialmente irresistibili. Il Parlamento italiano è pieno di belle signore con parecchie questioni insolute di ritenzione idrica, e mi pare che gli italiani continuino a trovarle irresistibili, e loro a farsi fotografare in spiaggia senza reggiseno e pure di spalle.
“Sinceramente, non capisco tutta questa ossessione per il nostro peso, la nostra cellulite, il nostro corpo, quando agli uomini non verrebbe mai chiesto di sostenere un simile scrutinio quotidiano”, sosteneva Renée Zellweger qualche giorno fa su un giornale inglese nella prima delle presumibili centinaia di interviste che rilascerà fino all’uscita della nuova puntata della saga cinematografica di Bridget Jones, il prossimo settembre, il personaggio che ha rassicurato un’intera generazione sul fatto che si poteva restare a casa il sabato sera a guardare la tv e mangiare cereali a cucchiaiate direttamente dalla scatola senza per questo sentirsi delle sfigate senza speranza. Tutte hanno, però, un cervello in funzione, che è l’elemento di cui Saviano non tiene mai conto nelle sue valutazioni sulla bellezza femminile e questo, forse, è l’unico fatto che non deve sorprendere nessuno.
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