Sopravvivere alla Brexit
Il mondo inglese è diviso in due, ci sono quelli che si scusano tutto il tempo vergognandosi della Brexit, e quelli che dicono: forse un giorno scopriremo che questo choc ci è stato utile. I primi sono più dei secondi, anzi, sono tantissimi, ripetono scusate, ci siamo sbagliati, davvero, è stato un errore, ma si può riparare, siamo amici, siamo alleati: sistemiamo tutto. Il dopo Brexit sarà ricordato come il grande show del senso di colpa britannico. Ancora ieri l’Economist, in edicola con la sua non proprio originalissima copertina “Anarchy in the Uk” (per chi fosse interessato ai revival musicali: un giornalista di Politico chiede rime per comporre “Guns of Brexit”, aiutiamolo), proponeva la road map del passo indietro.
Secondo l’Economist si può giocare sul fatto che i francesi, ora irremovibili sulla punizione agli inglesi, sono al fondo più malleabili di quanto sembrino, sul fatto che ci sono cavilli legali utilizzabili contro il divorzio, sul fatto che quando la polvere si sarà posata, anche a Londra ci sarà una nuova disponibilità: “Il ‘Bremain’ è inverosimile? Sì, ma non impossibile”, conclude il magazine britannico. Così, mentre si organizza per il fine settimana a Londra una grande marcia contro la Brexit – appuntamento a Park Lane in direzione Parliament Square: “Saturday” vi ricorda qualcosa? – molti inglesi si ritrovano indaffarati a recuperare nell’albero genealogico antenati europei, un po’ di sangue italiano ce l’hanno tutti, perché è vero che si può sognare di tornare indietro, ma un passaporto europeo è meglio procurarselo: gli uffici postali dell’Irlanda hanno terminato i form per la richiesta di passaporto tante sono le richieste, mentre fioccano proposte di matrimonio finora insperate per le signorine europee.
Quelli che sognano che scusarsi basti a essere perdonati si sono convinti che la democrazia sia un’arma affilata e sopravvalutata, da riformare. Questa settimana è arrivato nelle redazioni britanniche con un tempismo invidiabile un libro di prossima pubblicazione di cui sentiremo parlare: s’intitola “Against Elections: The Case for Democracy”. L’autore, il fiammingo David Van Reybrouck, sostiene che nulla ha fatto tanto male alla democrazia come le elezioni: cita Rousseau quando diceva che il voto da solo non garantisce la libertà, ma soprattutto cita questo 2016 ancora in corso, terribile, parte dalla Brexit e finisce con Donald Trump. Non sarà il caso di rivedere le procedure democratiche, visto che è chiaro che siamo afflitti da una “sindrome da affaticamento democratico”? Siamo tutti “fondamentalisti delle elezioni, veneriamo le elezioni ma disprezziamo chi viene eletto”, scrive Van Reybrouck, gettando una luce nuova su chi è convinto che il suffragio universale sia il male del mondo moderno.
I cantori del potere delle elezioni che vedono l’ordine mondiale liberale sotto attacco e la globalizzazione morente anche a causa dell’esito delle elezioni – perché nessuno vota più bene? – sono in grande imbarazzo. Adrian Wooldridge, colonna dell’Economist e autore di saggi molto belli sulla “Right Nation” americana e sulla più recente “Quarta rivoluzione”, dice al Foglio che “la globalizzazione non è finita, ‘end’ mi pare una parola un po’ troppo forte. Certo, abbiamo bisogno di leader pragmatici che sappiano accettare compromessi e anzi sappiano negoziarli nel miglior modo possibile. Se qualcosa è finito, è il trionfalismo della globalizzazione. L’idea condivisa di prosperità è rimasta incastrata in una specie di ingenuità che ci ha impedito di affrontare due grandi problemi: la diseguaglianza e il ritorno dell’identità nazionale, distrutta dalla globalizzazione. E’ necessario trovare soluzioni, altrimenti l’effetto domino non sarà facile da contenere, soprattutto da parte dell’Unione europea che è poco amata ed è fragile”.
Leader pragmatici? La politica britannica sta mettendo in scena uno spettacolo davvero bizzarro. Ci vorrebbe un governo forte, in grado di traghettare il paese verso il destino che ha scelto, con diplomazia e grazia e determinazione, invece i due principali partiti del paese sono implosi in modo quasi simultaneo, pur per ragioni molto differenti, pur continuando a dirsi uno all’altro: tu stai peggio di me. Il terrore da vuoto di potere è così grande che due pomeriggi fa, quando l’ora del discorso di Mark Carney, governatore della Banca centrale d’Inghilterra, si faceva più vicina, l’unica preghiera rimasta ai giornalisti e commentatori reduci dalla mattina più folle di una settimana già molto folle era: fa’ che non si dimetta anche lui.
Poche ore prima, l’ex sindaco di Londra Boris Johnson aveva annunciato la sua non-candidatura alla leadership dei tory, dopo mesi in cui si è detto e ridetto che soltanto la sua ambizione smisurata aveva portato il paese a un referendum sciagurato e la Brexit alla vittoria. Poche ore prima, si era lanciato nella corsa dei conservatori, bruciando la candidatura di Johnson, lo schivo e gentile ministro della Giustizia, Michael Gove, che si è rivelato un assassino politico molto raffinato, con una moglie-cecchino abilissima – e sì, la sceneggiatura di “House of Goves” è già ovunque. Poche ore prima, il leader laburista Jeremy Corbyn dava sfogo al suo più bieco antisemitismo, mentre i parlamentari suoi nemici si riunivano per preparare un golpe di cui parlano dall’autunno scorso. Hanno trovato il nome della sfidante, si dice, l’ex ministra ombra Angela Eagle, ma hanno aspettato con l’annuncio: in quel caos si rischiava di essere ignorati.
Così, mentre lo sciame di reporter si muoveva da un incontro all’altro in agitazione permanente, si è temuto il peggio: e se anche Carney si fa prendere dalla follia nazionale e dice di non sentirsi in grado di portare a termine il suo compito, visto che si era speso parecchio contro la Brexit? Per fortuna la follia è ferma alla politica: Carney fa da garante al paese stressato, è come un padre rassicurante, come il conte di Grantham di “Downton Abbey” alle prese con i capricci delle figlie e della servitù. Ha detto che il paese, dopo aver scelto di uscire dall’Ue, è entrato in “un disordine post traumatico da stress economico”, che la Banca centrale non fa miracoli, ma che tutto quel che le è consentito farà, stimoli e tagli dei tassi – i mercati hanno provato sollievo, la solitudine è parsa meno opprimente, qualche operatore ha persino deciso che era arrivato il momento, dopo una settimana, di andare a dormire.
Parecchi iniziano a sussurrare con una certa chiarezza che lo choc finanziario poteva essere molto più grande. Il think tank Bruegel ha pubblicato un report in cui dice che “la situazione oggi non è grave come dopo il collasso di Lehman Brothers”. Si concentra esclusivamente sull’andamento della sterlina e del mercato dei cambi – che pure è molto volatile – ma sostiene che, in realtà, poteva andare molto peggio e che quel che sembrava probabile il giorno del risultato del referendum, cioè la catastrofe – “Il momento peggiore che io possa ricordare da quando sono un funzionario pubblico”, commentava venerdì scorso l’ex governatore della Fed Alan Greenspan – si è rivelato invece più contenuto. Robert Greifeld, ceo del Nasdaq, ha scritto sul Wall Street Journal che, nonostante la preoccupazione sia molto alta, nel mondo finanziario c’è anche “un eccitamento palpabile” dettato dalla convinzione che la Brexit possa dare un nuovo slancio al commercio internazionale, trainato dal Regno Unito liberale, e da un contagio di competitività.
E’ chiaro che oggi le parole di Greifeld suonano lunari come quelle di Rupert Murdoch, che ha detto “siamo fuori!” assaporando l’opportunità della Brexit come un detenuto uscito di prigione si gode la libertà ritrovata, ma la possibilità che un divorzio europeo negoziato senza livore, e con l’obiettivo di ottenere ognuno qualcosa senza istinto di vendetta, possa contenere un rilancio positivo inizia a essere più consistente. “L’incertezza è la nemica peggiore dei mercati – dice Wooldridge – e oggi nel Regno Unito l’incertezza è totale, completa, perfetta: non c’è un governo, non c’è un’opposizione, non c’è un piano per la Brexit. Però, con un po’ di sorpresa, stiamo vedendo che il mercato delle azioni tiene, che tutte le aziende che avevano minacciato di spostare i loro quartieri generali in altre città europee in realtà vogliono restare. L’economia britannica è molto forte, ce ne stiamo accorgendo davvero, la City è un cluster potentissimo, un magnete che in questo continente non ha eguali. Si può piangere, ma poi si resta qui”, dice.
Ogni previsione ottimistica è prematura: la tregua sui mercati è stata in parte determinata dal fatto che la Brexit ancora non c’è e che soprattutto non si può valutare l’impatto della Brexit sull’economia reale, l’unica cosa che conta: disoccupazione, trimestrale del pil, inflazione. Dopo l’estate si potrà quantificare davvero il costo di questo voto, intanto il cancelliere dello Scacchiere ha rivisto le previsioni al ribasso: il pareggio per il 2020 è stato tolto dagli obiettivi. La percezione del futuro è nera, il senso di colpa e la voglia di tornare indietro non si placheranno, ma il gruppo dello “choc utile” potrebbe allargarsi se l’onda antisistema si placa, se il centro della politica torna a essere un polo attrattivo, se la rabbia si declina in proposte concrete. Lo sanno tutti i fidanzati e coniugi del mondo che in alcune, eccezionali condizioni, i regolamenti di conti servono.
Lo choc della politica inglese, per quanto simultaneo, ha ragioni molto diverse: il Labour annaspa attorno alla leadership di Jeremy Corbyn da tempo. E’ in corso uno scontro ideologico duro e antico, che ha riverberi in tutto il mondo occidentale, con il populismo di sinistra che prova a mettere le mani sui palazzi. Nel Regno Unito questo scontro va avanti da anni ma è ora in una fase arcigna e brutale perché, come dice Wooldridge, “Corbyn è un uomo che non conosce il compromesso, in questo è molto incompetente: è convinto delle sue idee, sempre le stesse, da sempre, e pur di non cambiarle, pur di non perdere la chance di farle sentire forti, sta rovinando il Labour”. Secondo l’ultima rilevazione di YouGov, il consenso tra i militanti di Corbyn è ancora sopra al 50 per cento, ma il partito a Westminster non esiste più: i parlamentari puntano sulla Eagle, che Tim Bale, autore di uno studio sui nuovi attivisti iscritti al Labour, definisce parlando con il Foglio “brava in Parlamento e in tv, molto competente, molto amata tra i deputati ma anche nella base, perché ai tempi di Ed Miliband come leader del partito si occupava di studiare le varie politiche partendo dal basso”.
Il leader laburista Jeremy Corbyn (foto LaPresse)
Eagle non è considerabile una liberale, e questo è per il momento il suo vantaggio più grande perché almeno non è percepita come una golpista al soldo di Tony Blair. Al comizio corbyniano organizzato a metà settimana a Londra, non si è parlato che del golpe ordito dall’ala liberale del Labour per rovesciare Corbyn. Gli animatori del rally sono i leader di Momentum, un gruppo di attivisti nato assieme alla leadership di Corbyn e ora diventato molto rumoroso, che fa da bodyguard alla leadership. Uno dei fondatori, Jon Landsman, è stato avvistato in questi giorni al fianco di Corbyn con una camicia hawaiana, decisamente sprezzante: “Gli piace rivendersi come l’eminenza grigia del Labour – spiega Bale – Può avere influenza sui più radicali, ma credo che non sia rilevante come molti vogliono farci credere”.
Nella piazza organizzata da Momentum tutto è rosso e anticapitalista, i cartelli fatti a mano sono un misto di disprezzo no global e di teorie del complotto, si discute di un’azienda di comunicazione che avrebbe ordito da mesi il golpe contro Corbyn, sotto la direzione dei blairiani, e il senso del ridicolo è del tutto sospeso. La roccaforte corbyniana non vuole mollare, nonostante la sfiducia parlamentare, ma fuori da questo angolo di Corbynmania molti iniziano a unire i puntini: se con la Brexit ci liberiamo di un leader tanto intransigente, se gruppi come Podemos in Europa subiscono battute d’arresto, allora lo choc può avere un effetto utile. Quando persino Thomas Piketty, economista di riferimento della sinistra populista europea, ha detto di non voler più fare il consulente di Corbyn, il senso di opportunità della Brexit è parso ancora più entusiasmante.
La battaglia tra i conservatori è invece diversa: non si tratta di uno scontro filosofico e identitario come quello del Labour, quanto piuttosto di un puro, feroce, divertente scontro di personalità. L’uscita di scena di Boris Johnson, che era considerato da tutti il premier della Brexit, ha creato non poco scompiglio, soprattutto se si pensa che a sportellarlo è stato l’alleato Gove: il ministro della Giustizia ieri ha fatto un discorso per la leadership che aveva tutta l’aria di un manifesto, ma nonostante il suo profilo sia molto alto, i commentatori non riescono a non fare riferimento all’ambizione che nella famiglia Gove agisce per interposta persona: Sarah Vine, moglie di Gove ed editorialista del Daily Mail, vuole diventare first lady più di quanto suo marito voglia diventare premier.
Così in questo gioco di accoltellamenti, la favorita alla premiership sembra la ministra dell’Interno Theresa May. Wooldridge dice di essere quasi certo che sarà lei la prescelta, “non ha carisma, ma è molto solida ed è una grande lavoratrice, è dotata del pragmatismo necessario”. Il Mail ieri ha fatto un endorsement per la May, gettando ancora un po’ di confusione in un paese già parecchio confuso: il Mail era a favore della Brexit, e la May formalmente no; il Mail pare preferisse Gove a Johnson e che questo abbia influito sul “tradimento” del ministro della Giustizia; al Mail lavora la signora Gove, poi, chissà che cosa sta succedendo in quella redazione.
Ogni giorno il sentimento popolare cambia, ma anche nella disfida conservatrice qualche puntino si può unire, favoleggiano alcuni. Pensa un po’ se finiamo con una donna a capo del governo di Londra, con una donna a capo dell’opposizione, con una donna fortissima in Scozia, Nicola Sturgeon, che possono negoziare con la donna più potente d’Europa, la cancelliera Angela Merkel, e fare accordi commerciali con la prossima presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton. La Brexit così macha diventa un affare di donne? Qui non si è grandi fan delle quote rosa, ma della ragionevolezza sì.
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