L'eroe dei tre mondi
Siamo in un giorno qualsiasi di un’estate qualsiasi di un’epoca non qualsiasi. Siamo nell’epoca del “grande risentimento collettivo” (citazione da Ezio Mauro che recensisce su Repubblica il libro “Psicopolitica” di Byung-Chul Han, filosofo tedesco di origine sud-coreana). E mentre sciamano i Big data e “il fantasma della libertà” se la vede con “la stagione degli emoticon” e con i sentimenti che “sostituiscono le ideologie” (sempre Mauro su “Psicopolitica”), ci si accorge che l’epoca del grande risentimento collettivo coincide, in Italia, con quella della formazione non proprio serena delle prime grandi giunte a cinque stelle (Roma e Torino). Ed è al crocevia dei risentimenti collettivi, sul web e fuori dal web – risentimenti anti Renzi, antiglobalizzazione, antiriforme costituzionali, anticasta e antipartiti – che si incontra un uomo che della psicopolitica (nel suo caso anche psicocultura) è diventato il simbolo.
Trattasi del professore, storico dell’arte, saggista e blogger Tomaso Montanari da Firenze, una sola “m” nel nome come l’omonimo ma non omologo giovane Tomaso Trussardi; Tomaso Montanari il quarantaquattrenne vicepresidente di Libertà e Giustizia e paladino di un nuovo “alfabeto civile”, così l’ha chiamato nel suo libro “Istruzioni per l’uso del futuro” (minimum fax) e presso le platee “tataiste”, cosiddette per via dello slogan “Rodotà-tà-tà” gridato in onore dell’altro prof. che non diventò mai presidente della Repubblica, tramutandosi invece, forte dei voti presi alle Quirinarie di Beppe Grillo, nel totem di tutto un mondo “anti” in cerca di autore: Cinque stelle, benecomunisti, difensori della Costituzione, nostalgici dei girotondi, ex popoliviola, ex dipietristi, ex oltranzisti delle campagne antiberlusconiane, dei post-it gialli e dei cartelli “SeNonOraQuando”.
L’Italia del domani, dice Montanari, autore di un libro-denuncia intitolato “Le pietre e il popolo” (sempre minimum fax), è un paese in cui, scrive, “il valore civico dei monumenti” non venga “negato a favore del loro potenziale turistico, e quindi economico” (Montanari è acerrimo nemico dei renziani che usino la parola “valorizzazione” con curvatura mercatista) e in cui le città storiche non vengano trasformate in “luna park gestiti da avidi usufruttuari”. Ce n’è abbastanza per piacere alla meglio gioventù del Pigneto (quartiere off di Roma e base dell’avanguardia “anti” che legge e cita gli articoli firmati dallo scrittore e giornalista Christian Raimo su Internazionale) e ce n’è abbastanza anche per tramutarsi in idolo della pancia indignata del web, tanto più che il Montanari prof. non governativo è ora anche molto ricercato come consulente culturale presso le nuove giunte grilline o di sinistra-sinistra. Detto e fatto: lo storico dell’arte, anche ex blogger sul sito del Fatto quotidiano (ora su quello di Repubblica), ha da poco accettato l’incarico di “consigliere speciale” non soltanto presso il comune di Sesto Fiorentino, dove governa Lorenzo Falchi di Sinistra italiana, ma anche a Roma, dove il neo sindaco a cinque stelle Virginia Raggi avrebbe voluto incoronarlo addirittura assessore, in singolare accordo di fatto con l’ex premier e antipatizzante renziano per antonomasia Massimo D’Alema.
La cosa aveva fatto scalpore – ma come? un pilastro del centrosinistra come D’Alema che consiglia a Montanari di entrare in una giunta del M5s, movimento che vorrebbe sconfiggere il Pd nell’urna politica oltre che in quella amministrativa? E a quel punto lo stesso Montanari aveva raccontato in un’intervista a Repubblica che sì, Massimo D’Alema aveva effettivamente cercato di convincerlo ad accettare l’incarico, non tanto per Raggi quanto per Roma – Montanari a Roma avrebbe votato Raggi, ha detto, ma non è un Cinque stelle. E’ uomo di sinistra-sinistra, sostenitore a distanza del transfuga ex pd Stefano Fassina. E alla fine a Raggi è arrivato un “no” all’assessorato e un “sì” al più blando incarico di consigliere, nonostante l’intervento propiziatorio di D’Alema, e nonostante quel piccolo mondo antico in comune tra Montanari e D’Alema: la Normale di Pisa, dove entrambi hanno studiato, seppure in epoche diverse, e il gruppo cultural-politico creatosi attorno a Massimo Bray, ex ministro dalemiano della Cultura (dal quale Montanari fu nominato membro della Commissione per la Riforma del Mibac). Altro è stato l’effetto delle conversazioni telefoniche con l’ex premier (vedi inasprimento dei già deteriorati rapporti interni al Pd): con D’Alema, diceva un Montanari serafico a Repubblica, si parlava di “rottura del rapporto tra elettorato di sinistra e Pd” e del fatto che “Renzi non fa più parte della foto di famiglia del riformismo europeo”.
Molto riflettere, dunque, molta preoccupazione per le sorti della sinistra a digiuno di sinistra, e alla fine un “no” ponderato del Montanari docente di Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli e studioso dell’età barocca all’ingresso vero e proprio nella non ancora definita giunta grillina: un “no” motivato ampiamente sul blog “Articolo 9” (sito di Repubblica). Cara Virginia mi piacerebbe tanto accettare, questo il succo, “ma governare una città non è solo una questione professionale”, scrive Montanari, convinto che in Campidoglio non si possa essere “capitani di ventura o tecnici vaganti”, ma parte di un popolo, “radicati” in quelle romane pietre (e lui non è di Roma né ci vive). Pur non essendo un Cinque stelle, ribadiva, “nelle battaglie per la difesa dell’ambiente e del territorio” aveva trovato i Cinque stelle dalla sua parte. Di qui “la convergenza” e l’idea del M5s di rivolgersi a lui, il prof. che, in ogni caso, non rinuncia a fare distinguo non immediatamente apprezzabili presso le granitiche masse internettiane del M5s: “Mi pare indispensabile che ora i Cinque stelle accelerino la loro evoluzione”, scrive Montanari, “vanno superati al più presto il ruolo incongruo di Beppe Grillo, l’inquietante dinastia proprietaria dei Casaleggio, le inaccettabili posizioni sui migranti, sul cammino dell’Unione europea e su altre questioni cruciali…”. Stai fresco.
Virginia Raggi (foto LaPresse)
E però intanto Montanari, che, come si legge sul Corriere del Mezzogiorno, “non ha nulla dello studioso libresco e polveroso”, fa da catalizzatore di malcontento nelle piazze del web psicopolitico, con quell’immagine di Belpaese bistrattato dai Cattivi (mercatisti e sfruttatori) che ricorre in libri e discorsi in cui si auspica la fine “dell’interminabile notte della Repubblica”, evocando altresì lo spettro dello Sblocca Italia “cementificatore”, e criticando le riforme del presidente del Consiglio in quanto “ultraliberiste”. E se la vis polemica di Montanari si esercita spesso contro Renzi, contro l’ex ministro Maurizio Lupi e contro chiunque sia ascrivibile alla categoria dei suddetti gestori avidi di luna park culturali, il lirismo del prof. medesimo è riservato alle dichiarazioni d’intenti (“siamo più d’accordo con il Papa che con il governo”, diceva Montanari prima della manifestazione per “l’emergenza cultura” del 7 maggio scorso, descrivendo la propria missione come una missione di “custodia del creato e dell’ambiente”). Capita però anche che Montanari, in piedi davanti a un silenzioso pubblico ex-post-neo antiberlusconiano e antirenziano, citi il Piero Calamandrei del 1954: “… In questo clima avvelenato di scandali giudiziari e di evasioni fiscali, di dissolutezze e corruzioni, di persecuzioni della miseria e di indulgenti silenzi per avventurieri d’alto bordo, in quest’atmosfera di putrefazione che accoglie i giovani appena si affacciano alla vita, apriamo le finestre…!”.
Ed ecco che “l’aprire le finestre” diventa motto per lo storico dell’arte che, come l’arcinemico Renzi, ha studiato al liceo Dante di Firenze. Ecco che l’idea della persiana che si spalanca su un mondo meno mercatista fa suonare la sveglia dell’allarme democratico anche nell’entourage di Salvatore Settis, altro intellettuale prediletto dagli ambienti trasversalmente avversi al Rottamatore, visto più che altro come “abusivo” dell’ascesa al potere (da cui lo scambio di concordi vedute antipatizzanti tra Montanari e D’Alema). E sebbene Montanari non incuta, presso gli interlocutori che non la pensino come lui, la soggezione di un Marco Travaglio o di un Gustavo Zagrebelsky, grazie alla rassicurante apparenza da compagno di scuola cresciuto in fretta (giacca o pullover décontracté, capelli spettinati, camminata non nervosa), lo stesso Montanari tende indubbiamente a situarsi, con i suoi articoli e libri, nel mezzo di una globale campagna “anti”: campagna preventiva per limitare il campo d’azione non tanto dei politici di credo renziano, secondo Montanari comunque colpevolmente “valorizzatori” del patrimonio artistico ma nella logica del “megaevento”, quanto del mercato in sé, un “monarca” che lo storico dell’arte non vorrebbe mai vedere sul trono, tantomeno in caso di vittoria del “sì” al referendum costituzionale d’ottobre. E che cosa c’entra il referendum col mercato?, ci si potrebbe domandare.
Tutto si tiene, complice il grande risentimento collettivo di cui parlano Ezio Mauro e Byung-Chul Han: se vince il “sì”, è l’idea di Montanari e del gotha benecomunista, vince la “concentrazione” di tutto il potere “nelle mani di un solo partito” (vallo a dire ai grillini, ora e di fatto ben poco nemici dell’Italicum), ma si rafforzerebbe anche il governo delle riforme “ultraliberiste”. E si riparte dal via, con tutto un mondo “tà-tà” che guarda a ottobre come al Mese del giudizio (frase tipica di Montanari quando vuole evocare il pericolo che l’Italia corre ogni giorno: “ … è come rivestire un uomo nel deserto con lo smoking, senza però dargli da bere. Si danno cento milioni a Firenze per l’Auditorium e i Grandi Uffizi, ma intanto a Pisa la chiesa di San Francesco, con la tomba del Conte Ugolino, è in parte crollata e non si fa nulla…”). E se la storia del conte Ugolino può risuonare quando meno te lo aspetti in uno studio televisivo (è successo durante una puntata di “Otto e Mezzo”, ospiti Montanari e il sindaco renziano di Firenze Dario Nardella), la campagna massiccia sull’applicazione effettiva degli articoli 9 e 3 della Costituzione, confortata dai complimenti dal guru Zagrebelsky (“Montanari, il costituzionalista è lei”) ha fatto sì che lo storico dell’arte ricevesse l’onorificenza di Commendatore dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Poi ogni tanto succede che Montanari si dimetta da qualche carica, cosa che manda in sollucchero i malpancisti anticasta del web: nel gennaio scorso lo storico ha abbandonato il Consiglio nazionale di Italia Nostra, causa caduta in “letargo” dell’associazione (“… non c’è più alcuna elaborazione intellettuale originale, e c’è anzi la supina accettazione delle più usurate parole d’ordine del potere vigente…”, ha scritto). In maggio, invece, si è dimesso dalla Commissione ministeriale consultiva che doveva vagliare le proposte di cessione dei beni culturali come pagamento delle imposte. Motivo: “Non presto il mio lavoro alla propaganda”. Solo che adesso, con le giunte a cinque stelle in azione, e con il nome di Montanari che circola negli inner circle grillini, persino come “idea” per un’eventuale futura lista di ministri, il problema si pone: quanto il prof. e il suo milieu saranno disposti ad aspettare che il M5s, come da suddetta lettera aperta, “acceleri la sua evoluzione”, superando “al più presto il ruolo incongruo di Beppe Grillo”, “l’inquietante dinastia proprietaria dei Casaleggio, le inaccettabili posizioni sui migranti, sul cammino dell’Unione europea e su altre questioni cruciali…”?
Non a caso Montanari si è messo a riflettere sul problema della leadership e dei corpi intermedi, croce e delizia dei suoi amici “uno-vale-uno”: “Nel passaggio da una democrazia rappresentativa a una democrazia d’investitura”, scrive sul suo blog, “assume un ruolo centrale – ha ricordato di recente Stefano Rodotà – il rapporto diretto tra il capo e la folla”. Che Montanari parli di Renzi perché Grillo intenda o di Grillo perché Renzi intenda, e che citi Rodotà come mito oppure come vittima (Grillo, alla prima critica, definì il professore adorato dai grillini un “ottuagenario miracolato dalla Rete”), la psicopolitica si fa sempre più strada tra le sue parole.
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