Sprofondati al centro
“Siamo uno strano partito, che passa le giornate a contare le tessere e le serate a commentare le encicliche”
(Mino Martinazzoli)
In effetti lo fu, uno strano partito. Non soltanto agli occhi di un avvocato bresciano colto e sarcastico, l’uomo che “spense la luce” prima di uscire e chiudere la bottega della Dc, e al quale quei confratelli del Meridione, di Sicilia o di Continente, erano sempre apparsi incomprensibili, indecifrabili. Lo fu agli occhi di tutta la nazione. E adesso che la Balena bianca non esiste più da tanto tempo, adesso c’è un altro strano spettacolo sotto gli occhi di tutti: lo spampanamento – la dissolvenza scudocrociata – di ciò che nella Seconda Repubblica è stata la grande parodia (non solo meridionalista, ma soprattutto) della Dc, “il centrismo”.
Nel tramonto della Prima Repubblica, Gianni Baget Bozzo scriveva cose così: “Negli anni Cinquanta, il Centro vota comunista, il Nord democristiano, il Sud monarchico e missino. La Democrazia cristiana riesce a mediare con il Centro comunista, e disgrega, mediante l’intervento pubblico, a partire dalla Cassa del mezzogiorno, la base del voto monarchico e neofascista nel Sud. Quell’assistenzialismo, di cui conosciamo meglio le dimensioni di malaffare, fu un mezzo per creare un mercato interno all’industria del Nord e una astuzia per mantenere l’unità politica e istituzionale della nazione”. Poi però, alla fine della corsa, la Dc si era trasformata “in un partito meridionale attraverso l’assistenza e le clientele”. Ma, profetizzava don Gianni, “se i democristiani del Sud creassero delle Dc regionali, manterrebbero intatto il loro potere, senza dover sottostare a Martinazzoli e alla Bindi”. Che i Totò Cuffaro, i Renato Schifani, gli Angelino Alfano, i Gianfranco Micciché (uno dei rari a non provenire dalla Dc, figliolanza diretta di Publitalia, ma anche inventore del Grande Sud) avessero letto per tempo Baget Bozzo, è solo un’ipotesi. Ma intuirono alla perfezione il succo del ragionamento. O almeno la parte che più gli conveniva capire.
Per un ventennio, il centro moderato post democristiano, nelle sue multiformi incarnazioni, ha rappresentato quell’insieme di poteri e sottopoteri territoriali, quell’incrocio tra assistenzialismo e clientela, tra investimento pubblico e pubblico impiego che fu l’invenzione dei democristiani. Ma l’ha fatto ovviamente più in piccolo, così come veniva. L’ha fatto barcamenandosi tra un valore etico con ritorno di cassa episcopale da una parte (ancora nel 2008 c’erano esponenti della Cei che si esponevano per il voto alla “pattuglia cattolica”) e i valori sempre negoziabili di voti, posti, appalti, fratelli da assumere, amici da piazzare, dall’altra Oggi quel che resta di una grande diaspora, di una sopravvivenza risicata, è il tramonto di un’idea a suo modo politica: il Centro. Un pane fatto impastando tante farine, lo statalismo antropologico, la furbizia tattica, un’idea di gestione del potere familistica – ha ricordato Filippo Ceccarelli che la dinastia dei Gava fu studiata “da sociologi inglesi in cerca di conferme del ‘familismo amorale’” – che arrivano al “partito-famiglia” (Ceccarelli) di Mastella e fino alla “Gens alfaniana”, formata non soltanto da fratello e papà. Ma di quel mondo fatto di grandezza dell’elargizione e di grande tornaconto, di quel gran peccare cupo dei democristiani di “Todo modo” sono rimaste briciole, caricature.
Prima della Seconda Repubblica, c’era stato il crollo della Prima e del suo sistema del potere. Ci fu la fine della Cassa del mezzogiorno, il “tassello meridionale del miracolo italiano” nato nel 1950 e smantellato, ma ormai si chiamava Agensud, nel 1993. Ci furono i crolli di potentati che parevano eterni, come il “sistema-Gava”, per citare una delle meraviglie della democristianeria: per trent’anni capo della “corrente del Golfo”, tredici volte ministro, kingmaker e giustiziere di qualsiasi governo o amministrazione, Antonio Gava girava col Borsalino, il sigaro e l’anello d’oro. Non gliel’hanno mai perdonata. Ci furono anche democristiani di uguale caratura ma di diverso stile, come Fiorentino Sullo, nato a Paternopoli, Avellino, padre costituente e dotato di ben due lauree (e non triennali brevi, e prese in corso: Giurisprudenza e Lettere), gran riformatore ai Lavori pubblici. Di lui si narra che una volta venne invitato da un prelato in Vaticano: “Si erano affacciati davanti a un panorama di Roma mozzafiato e il monsignore aveva buttato lì: ‘Vede tutte quelle luci? Sono le vecchine che votano per la Dc e che sarebbero danneggiate dalla sua riforma urbanistica’…”. Lui, irpino, era della sinistra dc, non centrista. Eppure alla fine fu rottamato da Ciriaco De Mita. Ma, giusto per ricordare che il potere “di stato nello stato” (o giù di lì, si esagera sempre un po’) democristiano non fu ideologia politica soltanto centro-meridionale, basterebbe ricordare il Veneto di Toni Bisaglia: dove partito, amministrazione locale, sistema bancario e cooperativo erano un tutt’uno nella grande galassia bianca. Solo che poi, quando il bianco se ne andò, in quelle terre tutto ciò che era sistema si trasformò in verde, verde Lega.
Ho un ricordo vivido e personale, per quanto televisivo, del volto marmorizzato di Giulio Andreotti al funerale di Salvo Lima, 1992. Terreo, le labbra più sottili che mai, lo sguardo immobile, quasi guardasse all’indietro, dentro la sua mente. Non disse nemmeno una parola. Ma questo sarebbe raccontare un’altra storia, più alta e infinitamente più profonda, della fine di quel mondo, e qui non si farà. Sarebbe un’altra storia da raccontare anche quest’altra. Nella crisi che sta spaccando l’Ncd persino in Sicilia (gli uomini si Schifani da tempo premono per lasciar colare a picco la scialuppa di Rosario Crocetta) aleggia un’altra resa dei conti della storia. Quella dei democristiani alla Leoluca Orlando, che alla fine della Prima Repubblica provarono a riformare la Dc partendo dalla Sicilia, sotto l’ala protettrice di Sergio Mattarella e con la benedizione di Rosy Bindi, la grande moralizzatrice nazionale della Balena. Mentre dall’altra parte della diaspora muovevano i primi passi in direzione Forza Italia ex giovani democristiani, come Alfano. E pezzi già pregiati della Dc che fu, come Totò Cuffaro, evolvevano verso il multiforme centrismo regionale e nazionale. Non diremmo mai che quella vecchia storia c’entri, oggi. Ma aleggia, come il fantasma di Banquo. E forse non si fa peccato a pensare che qualcuno sorrida, di come stiano andando le cose. Ma più che la grande Storia, per raccontare quella di questi vent’anni il Testo Unico di riferimento dovrebbe essere “Democristiani immaginari” di Marco Damilano. Qualcosa di più votato alla commedia che alla tragedia.
Più modestamente, l’epopea del centrismo postumo e della lunga declinante parodia della centralità democristiana – “una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà”, per farlo dire a Sciascia – bisogna raccontarla volando bassi. A partire dal suo eroe eponimo, Giuseppe Pizza, che ora è finito sotto i riflettori delle procure e rischia, malgré lui, di recitare la parte che fu ai tempi del “mariuolo” Mario Chiesa. Della storia di Giuseppe Pizza non si ricordava quasi più nessuno. Ma adesso tutti ricordano, almeno vagamente, la sua Nuova Democrazia cristiana. Partito da Sant’Eufemia d’Aspromonte come delegato nazionale del Movimento giovanile della Dc alla fine degli anni Sessanta, membro della direzione nazionale ai tempi di Arnaldo Forlani e di Amintore Fanfani, seguì Flaminio Piccoli nel ’94 e poi nel partitino Rinascita della Democrazia cristiana, e dopo la morte dell’ex segretario democristiano ne ereditò, o si auto-intestò, il sogno, ingaggiando lunghe batracomiomachie politico-legali per intestarsi il nome e le insegne del partitone.
Guerreggiò con i popolari di Martinazzoli, con il Ccd-Cdu di Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella e Rocco Buttiglione – che furono costretti a ripiegare come simbolo su una vela. Con Francesco Cossiga, Giulio Andreotti e Oscar Luigi Scalfaro, senatori a vita, che a un certo punto intervennero, offesi, per chiedere “agli amici leader della diaspora democristiana” di lasciar perdere una volta per tutte queste indegne baruffe su simboli e nomi. Finché nel 2005 arrivò pure Gianfranco Rotondi, ex Cdu-Udc, a fondare la sua Democrazia cristiana per le autonomie. Dietro a questo nulla onomastico e di voti, si sono celati per anni progetti di piccolo cabotaggio. Certo, anche diversi tra loro. Il pensiero centrista di un Buttiglione ha sempre nobilmente puntato, per così dire, a un centrismo ideale e politologico. Anche Buttiglione è un uomo del sud, di Gallipoli, ma il professore prendeva appunti in tedesco, per miglior sintesi, ha studiato in Germania e insegnato in Lichtenstein. Ha fatto per lunga pezza coppia fissa con Pierferdinando Casini, che fu ragazzo spazzola di Forlani, altra e diversa tempra di centrista, morbido postdemocristiano capace di gestire pure lui una rendita di buoni rapporti chiesastici, di buone entrature romane, di un filo diretto con il pubblico impego e le sue rappresentanze sindacali. Storie più o meno già evaporate.
Poi c’è lo spirito del centrismo come pura gestione dell’esistente, quello di cui adesso assistiamo al collasso. Collasso senza tragedie, non siamo agli “Ultimi giorni di Pompei”, al massimo siamo ai Pink Floyd a Pompei cinquant’anni dopo: postumi e un po’ parodistici pure loro. Il motore è da sempre la commistione di un po’ di sottogoverno locale, di familismi vari, e soprattutto l’avere ancora le mani nell’unica grande industria rimasta al sud: la spesa pubblica, le assunzioni pubbliche. Un sistema clientelare forse neanche sempre censurabile, almeno penalmente. Una redistribuzione, che un tempo valeva molti soldi (da sola, la Cassa del mezzogiorno ha speso oltre 140 miliardi di euro) e rendeva un ritorno elettorale a due cifre, la prima sempre sopra il due. Oggi tutto questo vale qualche bricola per cento, economicamente non molto di più di un giro-Pizza.
E qui è inevitabile che la centralità sia non più di Pizza, ma di Alfano e del suo partito nato per governare. E solo per quello. Angelino Alfano che davvero incarna, a suo modo, la “forza senza forza”, il “potere senza potere”, la “realtà senza realtà” di Sciascia. Alfano parimenti ininfluente quando minaccia referendum contro la Cirinnà e quando promette le grandi opere pubbliche per il sud, il Ponte di Messina. Alfano che, per ora, il grande investimento pubblico l’ha fatto per i 160 mila euro di stipendio del fratello. E ci si può dolere per lui e con lui per il modo in cui nel ventilatore giudiziario entrano nomi, intercettazioni e quant’altro. “Barbarie”, ha detto. Ma bisogna anche riflettere sul fatto che in quel che gli sta piovendo addosso c’è l’esito, il prodotto logico del suo centrismo ectoplasmatico e pervasivo, senza potere ma sempre al potere. Il centrismo come filosofia dello starci. In equilibrio. E’ facile lagnarsi delle intercettazioni. Ma quando fu ministro di Giustizia, nulla fece in materia.
I progetti legislativi per porre rimedio alla “barbarie” restarono arenati nei cassetti di Via Arenula, quando c’era lui e quando nel tritacarne c’era il capo del suo partito e suo mentore, Silvio Berlusconi. Quel nulla di fatto non fu colpa soltanto del Fato, o dell’opposizione. Ma anche di un ministro di Giustizia che con i magistrati d’assalto è sempre andato a nozze, accomodante e centrista, un do ut des di molto quieto vivere. O c’è da ricordare quando nel 2010 Antonio Ingroia fu nominato procuratore aggiunto di Palermo, e altri pretendenti al ruolo vennero esclusi e fecero ricorso per un errato calcolo di punteggi, e il ministro di Giustizia di meglio non trovò se non decretare d’urgenza l’immediata esecutività della nomina? O che dire del fatto che, da quando siede al Viminale, l’elenco delle associazioni della galassia antimafia che ricevono (meritatissimi, per carità) contributi dal ministero dell’Interno è secretata? E invece, un chilometro più in là, a viale Trastevere, al ministero dell’Istruzione quegli elenchi sono in chiaro? Quieto vivere, barra al centro. Il suo centrismo somiglia più che altro alla vecchia norma democristiana dei due forni. Delle doppie clientele. Così il ragazzo di bottega di Berlusconi a un certo punto s’è n’è andato e ha messo su bottega da solo. Ma s’è tenuto, con la clientela guadagnata dal nuovo marchio, anche una parte della vecchia.
Cosicché se adesso, con questi chiari di luna del mercato politico, qualcuno dei suoi, come ad esempio Renato Schifani, ragiona che è meglio mollare la dittarella e i suoi ormai miseri tornaconti, compresi i crediti che si sono fatti d’un tratto inesigibili, e tornare alla casa madre, alla clientela buona, che avrà da opporgli, Alfano? Per il momento, a opporsi in vece sua c’è Matteo Renzi, troppo prezioso è l’alleato stampella. Ma una volta che si andrà a votare? Con l’Italicum così com’è o anche modificato? Una volta accertato che il terzo polo non sta al centro – se mai c’è stato, in vent’anni – ma sta alla Casaleggio e Associati? Intanto anche al nord i centristi come Formigoni e Lupi fanno rotta veloce su Arcore, alla ricerca di un nuovo modello, il nuovo centrodestra moderato da ricomporre. Il modello Parisi a Milano, si dice e forse è così. Tolto che sarà una bella gatta da pelare, per Stefano Parisi: per ora hanno più che altro provato a chiudergli le dita nella portiera, come al Cavaliere.
La campanella dell’ultimo giro per questa parodistica storia post democristiana, che è la storia del centrismo e non solo centro-meridionale, è suonata. Poi, come dicono nell’Isola: in Sicilia il postino suona sempre ottanta volte.
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