L’Europa è in fiamme, ha scritto Paolo Mieli sul Corriere della Sera, come la foresta ai confini tra Wyoming e Idaho il 14 giugno 1988. Quel giorno le autorità decisero di lasciar fare alla natura

Scusi, a che ora tramonta l'occidente?

Stefano Cingolani

Scene da Sunset Boulevard. L’incendio purificatore di Mieli, il tavolo per aria di Romiti. E poi De Benedetti, Baumann, Scalfari: tutti a strapparsi le vesti per la Brexit.

Oswald Spengler non lo sapeva, e come avrebbe potuto? Lo aveva visto arrivare, un po’ troppo chiedergli anche la data. Era il 1914 e i quattro cavalieri dell’Apocalisse salivano in sella ai loro destrieri, al passo, al trotto e al galoppo. Le fabbriche che avevano forgiato la nuova civiltà occidentale covavano morte e distruzione. Il predominio del denaro e il potere della stampa spalancavano la porta ai nuovi barbari, secondo lo scrittore tedesco. C’era la Grande guerra e venne il dopoguerra, scoppiarono le rivoluzioni e portarono le dittature, sull’uomo in rivolta calò il manto oscuro del totalitarismo. E poi la Shoah, incancellabile punto d’approdo della filosofia tedesca, la distruzione della ragione. Spengler, irretito da Adolf Hitler e presto deluso, rifiutò l’antisemitismo. Ma, tutto assorbito dalla decadenza della Zivilisation, non aveva capito che ci sarebbe stato un occidente dell’occidente e avrebbe suonato le sue trombe come un novello Giosuè, per far crollare il Muro di Berlino, la Gerico dei nostri tempi. Tanto meno poteva mai immaginare che anche l’occidente dell’occidente sarebbe stato sul punto di tramontare.

 

Lo sanno, lo scrivono, lo vaticinano, invece, gli Spengler del Terzo millennio, i maître à penser avvolti nel mantello degli aruspici. Ci dicono che avverrà, ne intravedono la scia e ne tracciano i confini. Non un accucciarsi rapido, monocromo come quelli che si vedono dai tropici all’equatore, ma uno svanire lungo, ampio, diffuso come nel nord al solstizio d’estate. E con l’occidente tramonta tutto, in una policromia di arancio e di violetto: la libertà e la democrazia, il capitalismo e la globalizzazione, l’Europa e l’America. Tuttavia, nessuno è in grado di dirci quando l’ultimo sole si tufferà oltre l’orizzonte trascinando con sé l’ultimo uomo di Nietzsche. Ecco perché abbiamo voluto tentare una inchiesta. Già, il giornalismo d’inchiesta, l’alfa e l’omega del quarto potere. Così, come se avessimo il taccuino in mano, o meglio il microfono perché la tv è pur sempre la tv e non c’è web che tenga, abbiamo cercato di lacerare il velo di Maya, spazzolare la polvere mistificante, grattare la patina che nasconde la realtà e fare, perché no, piazza pulita.

 

Il cielo si tinge di rosso, rosso fuoco, il fuoco di un incendio globale. Ce lo racconta Paolo Mieli sul Corriere della Sera con una metafora icastica, quella del parco di Yellowstone, che sa di parabola. Ecco perché proprio con lui, il direttore dei direttori, il giornalista, lo storico, il divulgatore televisivo, abbiamo cominciato la ricerca della ferale notizia.

 

Direttore, lei che ha studiato il fascismo con Renzo De Felice e il comunismo con suo padre Renato, che ha visto l’Avvocato solcare le acque chete della prima Repubblica picconata dal presidente Francesco Cossiga sul giornale della Fiat da lei diretto; e poi quegli slalom faticosi nella Seconda Repubblica incenerita adesso dalle fiamme purificatrici; ebbene, ci sa dire, lei, a che ora, esattamente, tramonta l’occidente?

 

Mieli non risponde in modo diretto, non fa parte della sua personalità, del resto nessun guru lo fa. Bisogna leggere tra le righe perché “l’Europa è in fiamme” come la foresta ai confini tra Wyoming e Idaho il 14 giugno 1988. Il racconto è lungo e puntuale, ma il nocciolo lo si capisce fin dall’inizio: “Quel giorno le autorità decisero di lasciar fare alla natura; natura che, come aveva fatto per migliaia di anni, avrebbe eliminato le eccedenze rinsecchite di sottobosco, principale causa della diffusione dei fuochi. I guardiani si sarebbero limitati a difendere gli esseri umani, le strutture e gli alberi che avevano dato prova di essere più resistenti. Gli animali avrebbero dovuto cavarsela da soli. E l’incendio durò per oltre due mesi che parvero interminabili. In Europa stiamo all’estate di Yellowstone, ma senza averne ancora appresa la lezione. Ci allarmiamo ogni volta che si manifestano le fiamme anti sistema come se fosse un caso a sé: ne studiamo le cause specifiche e proponiamo soluzioni locali”.

 

Allora, direttore Mieli, l’occidente consolante e consolatorio, quello che protegge la propria gente “dalla culla alla tomba”, ha spento i suoi ultimi raggi in quel 14 giugno? Le date sono per i cronisti, lo storico parla di processi. E la maestra di vita ci insegna una cosa fondamentale: “Se i fuochi della ribellione non si spegneranno da soli per via di una pioggia provvidenziale, sarebbe saggio farci carico di ‘difendere le strutture del parco’ (vale a dire le istituzioni dei singoli Stati nonché dell’Europa tutta) e lasciare che i tronchi-partito affrontino le fiamme nel loro ambiente naturale, il quale provvederà a bonificarne i sottoboschi. Le piccole e grandi burocrazie”.

 

La distruzione creatrice, Joseph A. Schumpeter; anzi di più, l’evoluzione creatrice di Henri Bergson. “Alla fine dell’estate del 1988 risultò distrutto solo il 36 per cento delle foreste. Il 64 per cento di quella riserva naturale sopravvisse. L’ecosistema ne uscì rinvigorito da una nuova vegetazione che rigenerò l’intero parco. La difesa delle strutture ebbe successo maggiore delle volte precedenti in cui ci si era impegnati spasmodicamente a combattere fuoco per fuoco. Rimasero uccisi purtroppo degli animali: sei orsi, nove bisonti e 367 alci (su un totale di 93 mila che si misero in salvo da sé). Le loro carcasse furono lasciate sul terreno perché anche in quel caso la natura facesse il suo corso e se ne nutrissero orsi, coyote e aquile”.

 

Laissez faire, laissez passer. Non si spinge fin là Cesare Romiti, persona concreta, che giudica l’uomo dalle scarpe che indossa: se sono a punta, mostrano una personalità leggera, svagata, femminea, per piacergli debbono essere larghe e ben piantate, rotonde o quadrate persino sul davanti. Il grande capo della Fiat negli anni Ottanta va subito al dunque. Anche lui sceglie le fiamme in movimento e lascia sul terreno le carcasse e i tronchi-partito. Romiti, che è stato così vicino al padrone dei padroni, forse può darci una data, un’ora, un attimo preciso? Chi lo sa, forse è prima di quanto possiamo pensare. Forse è qui e ora. Ecco perché bisogna passare all’azione. Così, il vecchio manager a Torino e a Roma, le due città della sua vita, tifa Appendino e Raggi. Due giovani donne, volti puliti, ma c’è di più, spiega allo Huffington Post: “Quando qualcuno mi domanda un consiglio su chi votare, io rispondo sempre: fate come volete, ma votate per chi, se è necessario, ha il coraggio di buttare il tavolo per aria”. Addirittura. L’incendio purificatore. Il tavolo per aria. Ma che cosa accade? Siamo al sovversivismo delle classi dirigenti di cui parlava Antonio Gramsci? O forse la resa dei conti s’avvicina, Armageddon è dietro l’angolo.

 

Se ne rende conto più di altri Carlo De Benedetti. L’Ingegnere, che riesce sempre a cogliere l’attimo, come ha dimostrato cambiando pelle (lui dice business) così tante volte nella sua brillantissima carriera, lui che ha sfidato l’establishment europeo nella battaglia del Belgio, che ha rovesciato la Olivetti come un guanto, come avrebbe voluto fare alla Fiat se solo gliene avessero lasciato il tempo, finanziere, industriale, e ora editore di giornali, ebbene l’Ingegnere, sente, anzi vede arrivare quell’ora. Sul Corriere della Sera, intervistato da Aldo Cazzullo, e sull’Espresso di proprio pugno non dà un momento preciso, ma annuncia senza ombra di dubbio che “siamo a un tornante storico. La globalizzazione di cui abbiamo cantato le lodi genera un sentimento di rigetto verso le classi dirigenti politiche ed economiche; e nel mio piccolo mi ci metto anch’io. Abbiamo consentito alla globalizzazione di espandere i suoi benefici per tutti noi: abbattere l’inflazione, rivoluzionare insieme con la tecnologia la vita quotidiana. Ma sono aumentate drammaticamente le differenze tra chi ha e chi non ha». Bisogna credergli. Pochi hanno saputo anticipare i grandi tornanti storici come lui. “E’ la quarta volta in vita mia che scrivo un articolo su un giornale del gruppo. Il primo lo scrissi sulla riunificazione tedesca: previdi che la Germania l’avrebbe fatta pagare agli altri europei, con l’austerity. Il secondo alla vigilia della guerra in Iraq, presagendo il disastro. Il terzo dopo la vittoria apparente degli americani, che in realtà apriva la strada al collasso del medio oriente e al terrorismo».

 

E ora, nella sua palla di vetro vede “una nuova, drammatica crisi economica globale. Non so se sarà tra un mese o tra un anno; so che questa bolla finanziaria è troppo pericolosa. Oggi ci sono 11 trilioni di dollari di titoli di stato, emessi da vari paesi, che hanno rendimento negativo. Questi soldi, stampati per entrare nell’economia, sono rimasti in una nuvola che aleggia sopra di noi e che spostandosi determina scossoni finanziari e minacce di tuoni e fulmini, senza penetrare nell’economia reale. E’ come se ci fosse un immenso prato che ha disperata sete di acqua, ma è coperto da un telo di plastica; la pioggia non dà ristoro, si trasforma in torrenti che sconvolgono il territorio”.

 

Quel telo lo hanno i banchieri centrali e lo hanno messo i governi. E’ un altro fallimento delle classi dirigenti, come la Brexit, come questa Europa, unione disunita e incompiuta, alla quale bisogna disobbedire per non rimanere schiacciati. Il populismo, del resto “nasce dal fallimento delle élite, per combatterlo bisogna prima prenderne atto”. Il grillismo vince, evviva Grillo? “I 5 stelle sono la concretizzazione democratica della ribellione alle élite. Contestano quello che c’è ma non si sa esattamente cosa vogliano. Ora si preparano a diventare classe di governo”.

 

Le élite si sono arrese. Lo ha ammesso anche Nicolas Sarkozy che da figlio di immigrati ungheresi ha fatto così tanto per salire la scala sociale, sposando anche Carla Gilberta Bruni Tedeschi, una splendida creatura di quell’élite che ora rinnega. Pierluigi Battista, antemarcia per la verità, prima che diventasse il nuovo luogo comune, l’aveva scritto, sempre sul Corriere della Sera. Adesso allarga l’orizzonte. Lui che di libri se ne intende, vuoi vedere che ne sa una più del diavolo e ha scoperto l’ora fatale? “Una delle ragioni dello sbandamento frastornato delle élites (il plurale gli sarà perdonato, ndr.) dopo il voto sulla Brexit è che la cultura politica del Novecento, quella in cui appunto si sono formate in grande maggioranza le classi dirigenti dell’economia, della politica, della cultura, del giornalismo, della tecnocrazia, è stata irreversibilmente e ingloriosamente seppellita nelle urne di quasi tutto il continente. E’ la secessione culturale e psicologica che ormai un terzo stabile dell’elettorato europeo (e americano) ha consumato nei confronti delle famiglie politiche e ideologiche in cui si è strutturato il Novecento del dopoguerra, quella del socialismo declinato in tutte le sue variopinte denominazioni, e quella della liberaldemocrazia e del popolarismo, anch’essa variegata e multiforme, ma destinata a presidiare il lato moderato e di centrodestra del sistema politico”. La crisi del mondo liberale, di quello popolare, di quello socialista. Non accadde già un secolo fa? Vuoi vedere che la vera data è il 29 ottobre alle ore 20? (in ricordo di quando partì da Milano il treno che portava a Roma, come dice la leggenda, l’uomo del destino e l’Italia di Vittorio Veneto).

 

Ancora non lo sappiamo, le lancette scorrono davanti ai nostri occhi, però la Brexit ha suonato l’ultima campana, quella del Vespro.

 


L’incendio del 1988 durò per oltre due mesi. In Europa siamo all’estate di Yellowstone, scrive Mieli, ma senza averne ancora appresa la lezione. “La difesa delle strutture ebbe successo maggiore delle volte precedenti in cui ci si era impegnati spasmodicamente a combattere fuoco per fuoco”


 

Il tramonto viene subito dopo. Bernard-Henri Lévy, il non più nuovissimo nouveau philosophe non ha dubbi (semmai ne avesse avuti): “Brexit è la vittoria non del popolo, ma del populismo. Non della democrazia, ma della demagogia. E’ la vittoria della destra dura sulla destra moderata, e della sinistra radicale sulla sinistra liberale. E’ la vittoria, nei due campi, della xenofobia, del vecchio odio verso l’immigrato e dell’ossessione di avere il nemico in casa. E’ la vittoria, in altri termini, del ‘sovranismo’ più stantio e del nazionalismo più stupido. E’ la vittoria dell’Inghilterra ammuffita sull’Inghilterra aperta al mondo e all’ascolto del suo glorioso passato. E’ la sconfitta dell’Altro davanti al rigonfiamento dell’Io, e del complesso davanti alla dittatura del semplice. E’ la vittoria degli estremisti violenti e di dementi gauchisti, dei fascisti e degli hooligan avvinazzati e pieni di birra, dei ribelli analfabeti e dei neonazionalisti che fanno venire il sudore freddo”.

 

Ecco un’altra data, il 23 giugno 2016, quando i britannici hanno votato, ecco l’ora, le 4 del mattino successivo quando si è capito che ha vinto il “Leave”. Ernesto Galli della Loggia non ci sta. “Per antica consuetudine gli intellettuali europei — specie quelli di sinistra, da settant’anni in strabocchevole maggioranza — sono molto bravi nel trovare i termini appropriati per designare le cose che non gli piacciono usando il marchio dell’infamia ideologica. Questa volta è stato Bernard-Henri Lévy che non si è lasciato scappare l’occasione”. Come è possibile, insiste il professore, politologo, editorialista, “non rendersi conto che le élite intellettuali (e politiche) europee sono riuscite a scavare tra sé e le opinioni pubbliche di cui sopra un solco profondo di avversione e di disprezzo”. Dunque niente 23 giugno, la data c’è, ma va anteposta. Non c’entrerà mica la globalizzazione? C’entra, eccome se c’entra. E qui i guru si sprecano.

 

Martin Wolf che l’aveva tanto bene illustrata sul Financial Times e nei suoi libri, non si pente, ma si ravvede. Alain Minc, politologo, già guru dell’Ingegnere in Francia, fa finta di non aver mai scritto un aureo libretto intitolato “La globalizzazione felice”. Per Lawrence Summers che l’ha preparata e in parte costruita, bisogna ricominciare da capo, anzi, meglio, dal basso. Non parliamo di Robert Stiglitz che lavorava alla Banca Mondiale e ci ha vinto un premio Nobel o di Paul Krugman il quale, Nobel anche lui, almeno è sempre stato critico. Dunque, a sentire tutti loro, il momento fatale è il 15 settembre 2008, quando crolla la Lehman Brothers e risveglia tutti dal sogno cominciato l’11 dicembre 2001 con l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale per il commercio?

 

Giriamo la domanda a una penna vagabonda (come amava dire Virgilio Lilli) che queste cose le ha viste con i suoi occhi: Federico Rampini. Scusi, lei che ha studiato alla Bocconi, ha attraversato la Silicon Valley con la lanterna di Diogene alla ricerca dell’ultima innovazione, ha conosciuto la nuova Cina negli hutong della vecchia Pechino, cinese tra i cinesi, lei che ha cantato la globalizzazione e ora ne celebra la sua eclisse, almeno lei è in grado rivelarci quando? “Globalizzazione addio”, ha scritto in quattro puntate sulla Repubblica. Ma l’ora non la sa nemmeno lui. Sa, però, che “viviamo nel regno del caos e il mondo non scapperà al suo regno”.

 

All’origine di tutto c’è forse il declino americano del quale si parla da almeno mezzo secolo. Robert Gordon docente alla Northwestern University nel suo libro “The Rise and Fall of American Growth”, fa finire nel 1972 l’età delle grandi innovazioni che per cinquant’anni hanno trainato l’enorme crescita degli Stati Uniti. Dopo abbiamo avuto un ventennio di stagnazione e una ripresina dal 1994 al 2004. Adesso, addirittura recessione e stagnazione. Insomma, l’economista, da buon adepto alla triste scienza, ha fatto i conti. Forse ha indovinato il decennio, magari l’anno, ma il giorno e l’ora sfuggono anche a lui. Non sarà mica il prossimo 8 novembre 2016 alle ore 24 sulla costa est degli Usa, quando, dio-non-voglia, Donald Trump sarà proclamato vincitore? Già perché Polentina Trump è il quinto cavaliere dell’Apocalisse. Leggete che cosa sostiene il mitico Zygmund Baumann, il cantore visionario della società liquida diventata in Italia, grazie alla Repubblica di Ezio Mauro, il mantra della sinistra post: post comunista, post dalemiana, post veltroniana, post prodiana, post bersanian-lettiana e ora post-renziana: “Uno spettro si aggira nella terra della democrazia: lo spettro di un Uomo (o Donna) forte. Come suggerisce Robert Reich, nel suo ‘Donald Trump e la rivolta della classe ansiosa’, quello spettro (che nel caso in questione indossa le vesti di Donald Trump, benché non disdegni di indossare molti e variegati costumi, sia popolari che nazionali) nasce (proprio come Afrodite emerse dalle onde spumeggianti del Mar Egeo) dall’ansia che di questi tempi sta attanagliando la grande classe media americana, oggi impaurita dalle elevatissime probabilità di finire in miseria”. Potenza della parola e del pensiero tra citazioni di Matteo (l’evangelista sia chiaro), Kafka, Beck (Ulrich non il cuoco). Bakhtin (il filosofo russo), Calasso, Giddens, Hobsbawn, e poi basta perché abbiamo finito lo spazio.

 

Bisogna riconoscerlo, Baumann più di ogni altro s’è avvicinato all’ora fatale e alla questione centrale. Tocca a Eugenio Scalfari declinarla da par suo nella omelia domenicale del 10 luglio. Perché la categoria intellettuale di occidente non è stata costruita sull’economia, né sul mercato, non sul capitalismo e nemmeno sull’industria, ma sulla libertà. L’elenco tracciato dal Fondatore è lungo e terrificante. Dallas, il Califfato, Brexit, e infine l’Italia “dove le conseguenze del quadro generale sono state avvertite e determinano un mutamento della pubblica opinione che fino a qualche mese fa nessuno immaginava... Credo che la migliore definizione di questo quadro globale l’abbia data Paul Valéry in un saggio sulla dittatura e qui voglio citarne poche ma fondamentali righe che a mio avviso spiegano quanto è avvenuto nei secoli e avviene tuttora con la massima intensità”.

 

E leggiamo l’indimenticabile autore del “Cimitero marino”: “Il dittatore è l’unico titolare della pienezza dell’azione. Egli assorbe nel proprio tutti i valori, riduce tutte le visioni alle sue. Rende gli altri individui strumenti del suo pensiero, che vuole sia ritenuto il più giusto e il più perspicace, dal momento che si è dimostrato il più audace e il più fortunato nell’ora del turbamento e dello smarrimento pubblico. Egli ha travolto il regime impotente o corrotto, ha cacciato gli uomini indegni o incapaci e con loro le leggi o i costumi che producevano l’incoerenza. Fra le cose dissolte, la libertà. Molti si rassegnano facilmente a questa perdita. Bisogna ammettere che la libertà, tra le prove che si possono proporre a un popolo, è la più difficile. Saper esser liberi non è dato in egual modo a tutti gli uomini e a tutte le nazioni. Nel nostro tempo la libertà non è e non può essere, per la maggior parte degli individui, altro che apparenza. La dittatura non fa che portare a compimento il sistema di pressioni e di legami di cui i moderni, nei paesi politicamente più liberi, sono le vittime più o meno consapevoli”. La citazione è lunga e scalfariana, non osiamo tagliarla.

 

Chi evoca il poeta francese con queste parole scritte nel 1945 alla vigilia della sua morte? Scalfari ce lo rivela appena l’articolo gira nella pagina interna: “Matteo Renzi (è di lui che ora dobbiamo parlare) è raffigurato alla perfezione da Paul Valéry”. Oddio, il volo è più che pindarico, potremmo definirlo icarico, perché al pari di Icaro lo scrittore e giornalista è salito con le sue ali di cera fino al sole per poi ricadere bruscamente sulla terra. Ma, come diceva Lenin di Rosa Luxemburg, “le aquile possono volare all’altezza delle galline, sono le galline che non possono mai arrivare in alto come le aquile”. Eppure nemmeno Scalfari, con tutte le discese ardite e le risalite, ha colto il rintocco dell’ora.

 

E l’Islam? Non è lui, almeno nella sua versione radicale, a sfidare l’occidente? Non aveva forse ragione Oriana Fallaci per la quale la data fatale era martedì 11 settembre 2001 alle 8 e 46 del mattino, ora di New York? Sì, la Cassandra fiorentina aveva colto la sostanza, lo stesso aveva fatto Samuel Huntington con il suo scontro di civiltà. S’è illuso invece Michel Houellebecq quando nel romanzo “Sottomissione” ha immaginato la vittoria in Francia di una coalizione tra Islam moderato e socialisti contro Marine Le Pen. Ma qui il terreno si fa scivoloso. Dall’ègira di quel 16 luglio 622 anno domini, giorno uno dell’era musulmana, le ore si moltiplicano e servono solo a far confusione. Perché l’eclisse, per i nostri guru, non è una sconfitta più o meno onorevole di fronte al nemico, sia esso il Califfato o la Cina, ma una eutanasia, se non un suicidio vero e proprio.

 

Allora quando, con precisione, tramonta l’occidente? Adesso ne sappiamo di più sulla globalizzazione che non piace a nessuno ma nessuno ne può fare a meno, sulla Brexit e l’Europa dalla quale come nell’hotel California tutti entrano e nessuno esce mai davvero (nemmeno gli inglesi che lasciano, ma non se ne vanno), sul popolo che si ribella e sulle élite che non lo ascoltano, sulle classi dirigenti che si liquefanno e non più solo in Italia, sui nuovi lazzari e l’eterna illusione dei giacobini. Tuttavia, non conosciamo ancora quel momento esatto. E se non la sanno loro, i persuasori occulti, che cosa possiamo saperne noi cronisti da marciapiede? Noi prigionieri dell’apparenza, sappiamo solo che ci sarà un nuovo occidente nel quale la luce spegne i suoi raggi, e un altro ancora, fino alla fine dei giorni. L’ora è ignota, ci arrendiamo, ma una fine ci sarà, oh sì, su questo nemmeno i maître à penser si possono sbagliare.

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