Con la sua candidatura alla Casa Bianca, con la sua campagna, Trump ha messo il naso in una partita fra due versioni della destra che sembrava chiusa per sempre (foto LaPresse)

Ferraresi e la febbre di Donald

Su Trump sventolano i sogni sbiaditi d'America

C’erano i paleocon e i neocon, la vecchia e la nuova destra. Poi è arrivata la sua candidatura, imprevista e sclerotica, inquietante e dadaista, a blandire quella fetta di società che maggiormente accusa i contraccolpi della crisi. L’elettore medio di Trump non sa molto della teoria della stagnazione secolare ma ci vive dentro.

In queste pagine un estratto del nuovo saggio di Mattia Ferraresi, corrispondente del Foglio dagli Stati Uniti: “La febbre di Trump. Un fenomeno americano”, disponibile in libreria, è pubblicato da Marsilio.

 


 

Per molti dei suoi critici conservatori, Donald Trump non è soltanto un competitor politico, è il quarto cavaliere dell’Apocalisse che irrompe sulla scena portandosi dietro l’inferno. E’ il necroforo venuto a seppellire un’epopea politica, il sociopatico che getta una secchiata d’acido in faccia al partito di Lincoln. La sua ascesa non è l’occasionale penetrazione di un personaggio sopra le righe nell’aperto processo di selezione del candidato, ma segna un cambio di paradigma politico e ideologico che toglie il sonno ai conservatori ortodossi. Un danno permanente, non passeggero. Per questo è nato il perentorio movimento Never Trump, poi diventato un consesso più possibilista. Obiezioni sulla personalità a parte, la critica consiste nell’aver demolito, come se fossero vecchi palazzi da togliere di mezzo per far posto a una torre targata Trump, i tre pilastri su cui i conservatori contemporanei hanno costruito la loro identità: conservatorismo in ambito sociale ed etico, economia di mercato e una politica estera aggressiva, internazionalista. Trump risponde con dazi sulle importazioni, isolazionismo di marca nazionalista con pubbliche tirate contro la Nato “obsoleta” e improvvisate istanze pro-life che appaiono facilmente rinegoziabili.

 

 

Di fronte alle critiche dei portavoce dell’ortodossia conservatrice e alla ritrosia nell’allinearsi al candidato scelto dal popolo, Trump dice: “Ricordate: questo è il Partito repubblicano, non è il Partito conservatore”. Per una volta non si tratta di un gioco di parole o di una capziosa boutade, ma di una constatazione dotata di fondamento. Il conservatorismo così com’è concepito oggi, nella sua forma politica plasmata da Reagan e dai Bush dopo un lungo percorso di elaborazione, non è sovrapponibile all’intera tradizione repubblicana, è una derivazione che è stata a lungo maggioritaria, ma non ne esaurisce gli elementi. George Nash, uno dei più importanti storici del conservatorismo e autore dell’imprescindibile The Conservative Intellectual Movement in America Since 1945, spiega il carattere eterogeneo di questa tradizione: “Il movimento conservatore ispirato da William Buckley e che si unisce politicamente attorno a Reagan presenta cinque elementi distinti che si sono sviluppati dal dopoguerra in poi. Una corrente libertaria, ispirata soprattutto da Ludwig Von Mises, i tradizionalisti che si rifanno a Russell Kirk e ancora prima a Edmund Burke, gli anticomunisti rappresentati, ad esempio, da Whittaker Chambers. Più di recente si sono aggiunti altri due elementi: i neoconservatori e la destra religiosa. Con la fine della Guerra fredda si è aperto un periodo di riflessione e direi di crisi della coscienza conservatrice, perché era venuto meno un fattore determinante della spinta fusionista che è al centro del partito di Buckley e Reagan. Dopo l’11 settembre si è cercato un nuovo impulso e il terrorismo islamista ha fornito una base comune. Ma soltanto in parte: è stata una transizione monca. Quello che è emerso, invece, è un ritorno dei cosiddetti ‘paleoconservatori’, gli eredi della corrente che era egemone nel Partito repubblicano prima della Guerra fredda”.

 

I paleocon, incarnati da quel Pat Buchanan che Trump disprezzava apertamente quando erano gomito a gomito nel Reform Party – oggi il vecchio conservatore saluta il biondo tycoon come “rifondatore del partito” –, sono, dice Nash, “isolazionisti e perciò protezionisti, a loro non interessa la democrazia globale, nutrono un profondo scetticismo verso interventi ideali per obiettivi che giudicano utopici, disprezzano l’ideologia globalista perché sono nazionalisti, quindi contrari a ogni apertura sull’immigrazione, e non sono ossessionati dallo small government”. Sono, insomma, a una distanza siderale dal Grand Old Party così come l’hanno interpretato Reagan e i Bush sull’onda delle riflessioni di William Buckley e della campagna inconcludente eppure feconda del senatore Barry Goldwater, nel 1964. “Prima della Guerra fredda quella era l’ortodossia conservatrice: chiunque adesso dice che Trump non è un conservatore deve confrontarsi con questo dato storico”, conclude Nash.

 

La definizione di paleocon è stata coniata negli anni Ottanta per opporre la corrente a quella dei neocon, la “persuasione” ispirata dallo scrittore Irving Kristol che ha traghettato un gruppo di intellettuali, in maggioranza ebrei, dalla sinistra liberal e trockista alla destra. Come suggeriscono i rispettivi prefissi, i neocon erano i portatori di elementi nuovi nell’ambito della destra, mentre i paleocon si fregiavano di interpretare, in forma più o meno aggiornata, la “vera” tradizione conservatrice, quella che annovera il senatore Robert Taft come suo ultimo eroe politico. I primi esprimevano un’identità cosmopolita, idealista, guardavano con sospetto il nazionalismo anglocentrico, insistevano sulla diffusione delle idee universali che l’America incarna, derivando dall’universalismo una politica estera aggressiva fatta di “esportazione della democrazia”, espansione del mercato e rimozione delle barriere commerciali. Una visione di tipo imperialista trainata dalle qualità eccezionali dell’America, il “Behemot con una coscienza”. Secondo una celebre definizione di Kristol erano “liberal assaliti dalla realtà”, che hanno conquistato un posto di primo piano nel panorama della destra quando la realtà che principalmente assaliva gli Stati Uniti e il mondo libero era l’Unione Sovietica.

 

I loro antagonisti legati alla vecchia destra sono finiti nelle catacombe, si sono in parte perduti fra le teorie del complotto sul Nuovo Ordine Mondiale nella versione giudaico-massonica oppure new age, ma da là sotto non hanno mai smesso di concepirsi come i veri eredi della tradizione repubblicana, covando rancore verso i liberal “convertiti” che avevano preso il potere. Durante una conferenza organizzata dai conservatori nel 1986, a Chicago, davanti a una platea di pretoriani di Reagan decisamente influenzata dai neoconservatori, lo storico Stephen Tonsor aveva detto: “Mi è sempre sembrato strano, e anche perverso, che a degli ex marxisti sia stato permesso di avere un ruolo così prominente nel movimento conservatore del XX secolo. E’ bellissimo quando la prostituta del villaggio riceve il dono della fede e si unisce alla chiesa. Può anche diventare una buona direttrice del coro. Ma quando inizia a dettare al reverendo i sermoni della domenica, significa che abbiamo esagerato”.
I paleocon opponevano una visione tradizionalista che Buchanan ha così riassunto: “Siamo per la vecchia chiesa e la vecchia destra, anti-imperialisti e anti-interventisti, miscredenti nella Pax Americana”.

 


L’ascesa di Donald Trump, nella foto con la moglie Melania, segna un cambio di paradigma politico e ideologico che toglie il sonno ai conservatori ortodossi


 

Pessimisti circa la natura umana, dunque scettici verso qualunque progetto utopico, erano contrari a una politica estera espansionista che avrebbe fatalmente trasformato la repubblica cara ai Padri fondatori in un impero possente e senza volto, disancorato dalla tradizione europea alla quale sentivano di appartenere. Da qui discendevano posizioni intransigenti sull’immigrazione. Tra le fila di questo movimento si collocavano eredi della tradizione agraria di Thomas Jefferson e distributisti illuminati dal pensiero di Gilbert Keith Chesterton e Hilaire Belloc, alcuni coltivavano idee libertarie in dialettica con le istanze protezioniste; c’erano molti cattolici tradizionalisti. Vari elementi lambivano o debordavano nel territorio oscuro dell’antisemitismo e della supremazia bianca. Anche durante la Guerra fredda, con il nemico comune a compattare il fronte repubblicano, la nazione rimane l’orizzonte di riferimento dei paleocon, “il vero fondamento della felicità e dell’armonia”, direbbe Trump.

 

Il pensiero paleocon ruotava principalmente attorno alle riviste Chronicles, The American Conservative e Human Events, animate da un gruppo di intellettuali e polemisti i cui nomi sono assai meno famosi di quello del candidato che nella campagna per le presidenziali 2016 scalda i cuori di questa vecchia destra criogenizzata: Samuel Francis, Paul Gottfried, Leopold Tyrmand, Joseph Sobran, Chilton Williamson Jr., Clyde Wilson, Virginia Abernethy e molti altri fra il Rockfort Institute, il Robert Taft Club e vari centri di ricerca e think tank alimentavano una corrente di pensiero che, nonostante la progressiva perdita di influenza, ha continuato a rivendicare il ruolo di autentica erede della tradizione repubblicana. Trump ha messo il naso in una partita fra due versioni della destra che sembrava chiusa per sempre. Il modello di respiro globale e universalista dell’era Reagan-Bush doveva essersi imposto in modo definitivo sull’onda della vittoria nella Guerra fredda, con conseguente “fine della storia”, come frettolosamente annunciato dal politologo Francis Fukuyama. La storia, invece, va di gran carriera. Quella fra vecchia e nuova destra è una guerra fra concezioni antropologiche e politiche competitive, largamente incompatibili, fatta eccezione per alcune occasionali convergenze storiche – dalla Guerra fredda alla guerra al terrore – in cui l’universo paleocon e quello neocon hanno combattuto la stessa battaglia, ma animati da ragioni e prospettive differenti.

 

E’ all’interno di questa tensione che Trump traccia, con la sagacia di chi è consigliato scaltramente, una distinzione non solo sofistica fra repubblicani e conservatori. Tradotto: si può essere repubblicani senza aderire alla versione dominante del conservatorismo. Trump è un interprete largamente inconsapevole di questa tradizione repubblicana sepolta e fossilizzata: ci arriva per nostalgia di un passato che gli scorre nelle vene, ma offre il destro ai suoi sostenitori più accorti per un tentativo di restaurazione di idee repubblicane passate in cavalleria nell’ultimo mezzo secolo. Quando un esponente del partito manganella Trump per le sue posizioni isolazioniste, il trumpista colto può citare il sociologo Robert Nisbet di Conservatism: Dream and Reality: “Nelle due guerre mondiali, in Corea e in Vietnam i leader a favore dell’entrata in guerra degli Stati Uniti erano famosi liberal-progressisti come Woodrow Wilson, Franklin D. Roosevelt, Harry Truman e John Kennedy.

 

In tutti e quattro gli episodi i conservatori, sia a livello del governo nazionale sia nei ranghi, erano largamente ostili all’intervento. Erano piuttosto isolazionisti”. Contro chi critica il protezionismo trumpiano, tutto dazi e barriere doganali, ci si può invece appellare direttamente ad Abraham Lincoln: “Dateci dazi protettivi e avremo la più grande nazione del mondo”. E’ opportuno ricordare anche che fra gli oppositori del Trade Expansion Act del 1962 – la prima legge sull’espansione del libero commercio nella sua versione contemporanea – c’erano Prescott Bush e Barry Goldwater; o che Reagan ha imposto un dazio del cinquanta per cento sulle motociclette di fabbricazione giapponese che stavano strangolando la Harley-Davidson.

 

Secondo Nash, “la destra mainstream ha sottovalutato enormemente questa corrente ideologica che ora viene fuori nella forma bizzarra di Trump. Che lui non sia del tutto cosciente delle implicazioni profonde del suo discorso politico trovo lo renda anche più importante come fenomeno, perché significa che Trump proietta sulla scena una sagoma che è più ampia del suo brand. Non è mai stata fatta una riflessione sul risultato gigantesco di Perot nel 1992, è stato dimenticato subito, ma lui pescava nello stesso bacino ideologico”. Nel mondo conservatore, attraversato da una profonda crisi, sono state fatte molte riflessioni, ma di altro tenore e su linee differenti. La pulsione della fusione conservatrice che ha catalizzato la rabbia del popolo era quella libertaria, con il Tea Party che ha fatto fuoco e fiamme dentro e fuori dalla destra. Questo movimento di pancia ha trascinato la schiacciante vittoria repubblicana alle elezioni di Mid-Term del 2010: i suoi rappresentanti sono stati innalzati come eroi di una nuova ribellione contro la “bestia” dello Stato federale che spende, tassa e controlla. In seguito anche quello spunto, in apparenza decisivo per le sorti della destra, s’è affievolito.

 

Il malconcio establishment del partito ha provato a suggerire la via della moderazione per proiettarsi nel XXI secolo. All’indomani della rovinosa sconfitta di Mitt Romney contro Barack Obama, nel 2012, la leadership repubblicana ha prodotto un lungo documento di autocritica per mettere a fuoco gli errori e tracciare un sentiero per il futuro. E’ stato simpaticamente soprannominato “l’autopsia”. In buona sostanza, il documento suggerisce di mettere in secondo piano temi etici e sociali, le riflessioni identitarie e gli eccessi libertari, per concentrarsi soprattutto su una politica economica disciplinata, così da andare incontro a un elettorato che per tendenze demografiche è sempre più incline a votare il Partito democratico. Trump mostra che questa intuizione era tutt’altro che profetica. La profezia, invece, l’aveva enunciata il caustico editorialista Samuel Francis nel 1996, in tempi di sicurezze economiche e affermazione, all’apparenza incontrovertibile, del verbo democratico: “Con le élite che tentano di trascinare il paese nei conflitti e negli impegni globali, guidano la pastorale economica degli Stati Uniti, lavorano alla delegittimazione della nostra stessa cultura e all’esproprio dei beni della nostra gente, disprezzano i nostri interessi nazionali e la nostra sovranità, una reazione nazionalista è quasi inevitabile, e assumerà probabilmente una forma populista quando arriverà. E prima arriva, meglio è”. Aveva previsto tutto, Francis, tranne il ciuffo.

 

Sono diversi i miti a cui si fa ricorso per spiegare le cause che hanno scatenato o permesso una candidatura imprevista e sclerotica, inquietante e dadaista, inedita anche se composta di elementi già editi nella cultura americana. Il più acclamato è quello per cui il fenomeno Trump sarebbe figlio della classe operaia bianca e impoverita: il suo messaggio anti-sistema colpisce la zona erogena più sensibile degli elettori, il portafogli, ed è nel contesto di una crisi economica superata soltanto nelle cifre ufficiali che il candidato si muove. Sguazza nel suo elemento naturale quando, con l’elmetto in testa e i pollici in su, galvanizza i minatori di carbone della West Virginia travolti dal mondo che cambia oppure quando promette agli operai delle acciaierie della Pennsylvania di riconquistare i posti di lavoro depredati dai cinesi. Parla alle budella aggrovigliate di chi si sente abbandonato in mezzo al guado, di chi coltiva una profonda frustrazione di natura economica.

 

In un discusso articolo apparso sulla National Review, Kevin Williamson ha descritto in termini crudi, perfino cinici, il modo in cui Trump blandisce e illude questa fetta d’America operaia e bianca di mezza età, finita in un gorgo fatto di disoccupazione, povertà, dipendenze, isolamento, disperazione. L’appellativo più popolare per definirla è “white trash”. “La verità su queste comunità disfunzionali, ridotte, è che meritano di morire. Economicamente sono asset negativi, moralmente sono indifendibili”. Secondo questa versione, dunque, Trump sarebbe l’agitatore di un arcipelago americano di inquietudine economica.
Il teorema, tuttavia, perde buona parte della sua efficacia quando si osservano le condizioni economiche di chi ha votato per Trump alle primarie repubblicane. I suoi elettori guadagnano in media 72 mila dollari l’anno, una cifra molto simile a quella di chi ha votato Ted Cruz, altro candidato anti-establishment che però nessuno ha identificato come campione, reale o inventato, della working class. Marco Rubio e John Kasich, altri avversari alle primarie, parlavano a un pubblico più facoltoso.

 

Uno stipendio medio negli Stati Uniti è di 56 mila dollari l’anno, ben al di sotto dell’elettore di Trump, che è anche più ricco di quello di Hillary Clinton e Bernie Sanders, candidati democratici. Se è vero, poi, che si è registrato un aumento dei repubblicani che hanno votato alle primarie rispetto alle tornate precedenti, la tendenza non si applica alla fascia più povera della popolazione legata al Gop. Gli agnostici della politica che il candidato irrituale ha riavvicinato alle urne non sono gli abitanti delle comunità descritte da Williamson. In breve: Trump non è affatto un fenomeno che riguarda soltanto o principalmente i colletti blu. Nella disperata ricerca di una chiave di lettura definitiva, o almeno di un fattore dominante per descrivere il popolo di Trump e le ragioni che lo muovono, emerge un florilegio di rappresentazioni simboliche che suggeriscono e svelano, ma non esauriscono. L’elettorato di Trump è un “sì, ma anche”: la componente etnica è importante, ma ci sono anche gli ispanici che lo votano; i fattori economici contano, ma anche il ceto benestante è ammaliato dalla sua corsa, e così via. Questo non significa mettere in ombra le profonde sofferenze economiche che l’America sta attraversando, ma si tratta innanzitutto di tendenze che coinvolgono la classe media, quella a cui il Partito repubblicano è stato tradizionalmente in grado di parlare.

 

Uno studio del Pew Research Center descrive il progressivo peggioramento delle condizioni del ceto medio americano, specialmente nelle aree urbane. Secondo quest’analisi, fra il 1999 e il 2014 il reddito medio è cresciuto soltanto in 39 delle 229 aree metropolitane prese in considerazione e, quasi ovunque, è calata la percentuale degli abitanti nella fascia di reddito media. E’ un fenomeno di erosione che in alcuni casi testimonia una mobilità sociale verso l’alto, ma molto più spesso parla di uno scivolamento in direzione della povertà. Il centro manifatturiero di Goldsboro, in North Carolina, ha perso il dodici per cento della classe media per la crisi occupazionale, mentre a Midland, in Texas, dove l’economia è sorretta dal petrolio, una fuoriuscita di dimensioni simili è la spia di un arricchimento diffuso. La tendenza verso l’estinzione della middle class non è inedita. A dicembre 2015 i ricercatori del Pew avevano osservato che, per la prima volta in cinquant’anni, la classe media non è il gruppo demografico più nutrito: la somma degli americani che sono al di sopra e al di sotto dei parametri costituisce la maggioranza della popolazione. Il nuovo capitolo dell’analisi mostra che la tendenza è particolarmente accentuata nelle città, dove il livello di istruzione e dinamismo è più elevato che nelle aree rurali.

 

La struttura portante del benessere americano scricchiola dunque sotto la pressione degli stipendi bloccati e della forza lavoro ridotta ai minimi, nonostante i numeri ufficiali su crescita e disoccupazione siano, sulla carta, rassicuranti. Nella realtà, la storia della crisi finanziaria del 2008 e delle sue conseguenze è stata scritta sullo sfondo di una situazione in cui gli stipendi del ceto medio sono cresciuti del sei per cento dal 1979 al 2013 (nello stesso lasso di tempo la produttività è cresciuta del settantaquattro per cento), la forza lavoro si è progressivamente assottigliata e le rivoluzioni dell’automazione e del digitale hanno cambiato il mondo. “Quando Trump dice che vuole costringere la Apple a fare i suoi prodotti in America, quello che sta involontariamente dicendo è che vuole che i robot americani facciano il lavoro al posto dei robot cinesi”, ha scritto l’opinionista economico James Pethokoukis.

 

Questo declino strutturale, profondo, è colto e ricompreso nella sua complessità dalla tesi della “stagnazione secolare” che Lawrence Summers espone da diversi anni. L’ex segretario all’Economia e presidente di Harvard aggiorna una nozione in voga negli anni Trenta, quando la Depressione aveva ridotto gli investimenti e nemmeno lo Stato disponeva di strumenti efficaci per stimolare la domanda. Secondo questa tesi, la crisi attuale non è una rivoluzione passeggera ma uno spostamento dell’asse terrestre, uno standard al quale conviene abituarsi in fretta: “Sette anni dopo l’inizio della ripresa americana, i mercati non aspettano un ritorno alla normalità in tempi brevi”. La previsione dell’economista è che per almeno altri dieci anni l’inflazione rimarrà stabile attorno all’un per cento e i tassi d’interesse saranno vicino allo zero.

 

Quella figura chimerica e inafferrabile che è l’elettore medio di Trump non sa molto della teoria della stagnazione secolare, ma ci vive dentro: è immerso nel fenomeno del declino, l’impoverimento è il sottofondo delle sue giornate e, sebbene la spiegazione del fenomeno Trump resista a una reductio squisitamente economica, il contesto stagnante non può non essere parte del quadro generale. Di fronte a questa situazione, cosa chiede l’elettore di Trump al suo candidato? In una parola: protezione. Christopher Nichols, storico della Oregon State University e autore di Promise and Peril: America at the Dawn of a Global Age, propone una definizione specifica del trumpismo: “Protezionismo populista-isolazionista”, dove la protezione è l’elemento centrale: “L’idea della protezione è cruciale e ambivalente: si applica all’economia, con l’imposizione dei dazi sulle merci straniere per proteggere i posti di lavoro, ma anche alla sicurezza nazionale, dove la chiusura delle frontiere è una misura che colpisce l’immaginazione dell’elettorato”.

 

Gli elettori repubblicani del Sud vedono il confine con il Messico sia come via d’accesso per la manodopera a basso costo che mette in pericolo l’economia americana sia come ingresso per le cellule dello Stato islamico. Jihad, cartelli dei narcos e manodopera a basso costo cinese si fondono in un unico, minaccioso nemico. Il protezionismo di Trump è “populista”, dice Nichols, perché “ha come obiettivo l’ethos della working class, la classe più a rischio, ed è un sentimento del Midwest e del Southwest”. E’ isolazionista perché “rifiuta radicalmente l’idea dell’eccezionalismo americano: l’America, secondo questa concezione, non ha il compito universalista di informare la coscienza del mondo, ma soltanto di dirigere se stessa”.