La lectio flop del prof. Obama
La presidenza Obama è diventata postuma molto in fretta. Ciò significa che, mentre il mondo prosegue il suo corso, da qualche mese ci destreggiamo tra bilanci, omaggi e rimpianti. In “Obama out”, il coro di approvazione non è unanime: proprio perché un leader postumo sta perdendo il potere, diventa più facile criticarlo. La sua legacy è messa in discussione nella campagna elettorale. La scelta strategica di spingere sulla politica commerciale alla fine del mandato ha creato una coalizione avversa liberamente ispirata a “L’ombelico del mondo”: da Trump a Hollande, dalla Cina a Sanders. In politica estera, talvolta sembra che manchi la percezione della realtà: due mesi fa il consigliere Ben Rhodes non ha resistito a farsi celebrare sul New York Times Magazine come “aspirante romanziere che ha riscritto le regole della diplomazia per l’età digitale”, formula difficile da pronunciare oggi senza scoppiare a ridere, se osserviamo lo scacchiere internazionale. La Dottrina Obama oggi pare più ammaccata di quattro mesi fa. Cerchiamo di non essere ipocriti: il giudizio della storia è per sua natura affrettato e complicato dal rapporto col tempo. Infatti, Dio conosce la pienezza del tempo, mentre per noi mortali conta il tempo in cui fermiamo l’attimo. Facciamo due esempi. Primo: oggi, anche per chi l’ha criticato, è difficile non ammettere la grandezza di Benedetto XVI, un gigante della ragione europea. Secondo: forse, se tra qualche decennio vivremo in un secolo africano, George W. Bush sarà acclamato come un eroe per le sue politiche su Hiv e malaria e la parte sull’Africa sarà la sezione più citata del suo discorso sullo Stato dell’Unione del 2003.
Al di là di questa premessa, quali sono i punti realmente problematici dell’eredità di Obama, che ci coinvolgono pienamente? A mio avviso, riguardano gli intellettuali in politica e il concetto di occidente: su questi temi, cerchiamo di compiere un breve esercizio critico. L’intellettuale di maggior successo nella politica recente rimane una figura immaginaria: Josiah Bartlet detto Jed, protagonista della serie televisiva “The West Wing” interpretato da Martin Sheen, rampollo della nobiltà culturale Ivy League, premio Nobel per l’Economia, governatore del New Hampshire, presidente degli Stati Uniti. La più onesta testimonianza del fallimento degli intellettuali in politica si trova nel libro di Michael Ignatieff “Fire and Ashes” (Harvard University Press, 2013), dove l’autore racconta la sua vicenda: acclamato professore canadese lascia l’Università di Harvard per guidare in patria il Partito Liberale e essere umiliato alle elezioni dai conservatori di Harper, capaci di inchiodarlo alla sua immagine professorale con la campagna “Just Visiting”. Ignatieff spiega che la differenza tra gli intellettuali e i politici sta nel rapporto con il tempo. Un politico è l’individuo che sa adattarsi, incessantemente, ai cambiamenti “improvvisi, inattesi e brutali” che il tempo impone. “Un intellettuale può essere interessato alle idee e alle politiche in sé, mentre l’interesse del politico sta esclusivamente nel fatto che il tempo di un’idea sia effettivamente giunto”. Un intellettuale sa dirlo. Un politico deve esclusivamente farlo, senza fronzoli, altrimenti ha già perso tempo, ha già buttato via il proprio tempo.
Martin Sheen nei panni di Josiah Bartlet detto Jed
L’11 luglio 2016 sul Journal of the American Medical Association è stato pubblicato un articolo dettagliato sulla riforma sanitaria a firma Barack Obama: il Presidente compie un’analisi di policy con 68 note, illustrando ragioni e lezioni dell’Affordable Care Act. E’ il sogno degli analisti di politiche pubbliche che si realizza, e può accadere solo perché Obama è un intellettuale che ha avuto successo in politica. Non si è fermato sulla soglia di Ignatieff: ha vinto le elezioni e ha governato. Eppure, proprio il suo intellettualismo non è estraneo all’avversione che prova per lui una parte della popolazione americana. Nel 2010 il professore di Harvard James Kloppenberg sentì il bisogno di scrivere “Reading Obama”, una storia del milieu intellettuale di riferimento dell’ex presidente della Harvard Law Review. Per Kloppenberg, dietro Obama occorreva cogliere la sostanza oltre la patina del cambiamento e della speranza. E la sostanza era quella di un presidente filosofo, in cui si incontrano tre identità: in primo luogo, il pragmatismo della tradizione americana di James e Dewey, separato dall’opportunismo; in secondo luogo, il milieu dei giuristi liberal (e di sinistra-sinistra, come Roberto Mangabeira Unger); in terzo luogo, l’impronta religiosa, segnata, più che da Jeremiah Wright, dalla prudenza, dal rifiuto degli assoluti, dall’umiltà, dalla Preghiera della Serenità di Reinhold Niebuhr. Il risultato, secondo Kloppenberg, è che Obama è stato l’autore dei libri più importanti mai scritti da un presidente degli Stati Uniti dai tempi di Woodrow Wilson.
L’inghippo sta nel fatto che al centro di quei libri c’è il concetto di conciliazione: l’intellettuale che vince le elezioni convince se riesce a ottenere la conciliazione. In particolare “L’audacia della speranza”, opera di dieci anni fa da noi derisa per i suoi natali veltroniani, è incentrata sul superamento delle grandi faglie e divisioni della società e della politica degli Stati Uniti. L’audacia è il superamento delle guerre culturali e della polarizzazione. Dieci anni dopo, le ferite della nazione divisa sono più attuali che mai: oltre la cronaca, è un punto che Charles Murray ha colto molto bene nel suo “Coming Apart” del 2012, ma ritorna anche in “Our Kids” (2015) di Robert Putnam, che Hillary Clinton ha citato nella sua intervista a Ezra Klein di Vox, richiesta a malincuore di indicare un libro non scritto da lei stessa. E tra gli autori clintoniani spunta anche Christopher Lasch, autore del libro che prende sul serio la cultura populista americana, con quel titolo perfetto: “La ribellione delle élite” (che il Foglio lo scorso dicembre ha consigliato di rileggere).
Obama è l’intellettuale che ha risvegliato l’anti-intellettualismo. Questo risveglio è una sua eredità scomoda, con cui la campagna presidenziale si è dovuta confrontare. Il punto essenziale non è la presenza di riferimenti pop o la capacità di storytelling, diversivi che non toccano il nocciolo della questione. Esiste un risveglio razzista, che c’è e non bisogna negare. Ed esiste anche una parte del popolo degli Stati Uniti che dice “we the people” proprio in opposizione all’atto di “lecturing”, di fare la lezioncina, del professor Obama (che, come ribadito nell’intervista-dottrina di Goldberg, a sua volta non ama le “lectures” di Netanyahu). Che la lezione riguardi “House of Cards”, l’orto biodinamico, la Nba o il medio oriente poco importa. Non conta la capacità di abitare diversi registri o di cazzeggiare con Jerry Seinfeld. Conta che la postura e il programma di un leader prudente non abbiano portato la conciliazione, tracciando invece un solco sempre più profondo con una parte della popolazione. Questo è il dramma dell’umanesimo obamiano. Sulla carta, la ferrea legge della demografia dovrebbe condannare l’anti-intellettualismo all’irrilevanza politica, perché le minoranze ragionano secondo altri schemi. Non è detto che sia così: il declino delle ex maggioranze può essere tempestoso quanto il declino degli imperi.
L’elemento centrale dell’eredità di Obama è il fatto che non sia occidentale. Certamente Obama non è musulmano, altrettanto certamente Obama non è occidentale. Nella sua mappa del mondo, il concetto di occidente è assente, se non come esperienza di straniamento. Nella sua vita, nella sua formazione, nei suoi discorsi, l’occidente è al massimo una nota a piè di pagina. Così è stato per tutta la sua esperienza politica. Le nostre lagne su Obama e l’Europa resteranno sterili se non ci rendiamo conto di questo. Nella mappa del mondo di Obama, Parigi è un attacco all’umanità, i “valori occidentali” esistono quando si deve rimarcare che si tratta dei “valori dell’umanità”. Kloppenberg ha ragione: la lettura dei libri obamiani risulta istruttiva, perché hanno anticipato la sua visione del mondo. A un certo punto di “Dreams of my Father”, Obama ci racconta il suo Grand Tour europeo. Nella sua prosa si alternano il Tamigi, i Giardini di Lussemburgo, la Plaza Mayor e le “ombre di De Chirico”, il Palatino. Ed è lì che Obama parla dell’occidente, quando si descrive come “a Westerner not entirely at home in the West, an African on his way to a land full of strangers” (“un occidentale non del tutto a casa nell’occidente, un africano in una terra piena di stranieri”). Non sente mai l’Europa come “sua”. L’Europa non è nemmeno un viaggio, perché non conduce a una scoperta. E’ piuttosto un diversivo, un modo per procrastinare l’inevitabile momento in cui fare i conti con suo padre, in cui cercare la conciliazione per eccellenza della sua autobiografia.
In un’intervista di due anni fa, Thomas Friedman per fare il figo cita Dean Acheson e le sue celebrate memorie “Present at the Creation” e chiede a Obama se non si senta piuttosto “Present at the Disintegration”, presente durante la disintegrazione dell’ordine mondiale. Obama osserva con la consueta calma il suo scolaro e, senza dargli soddisfazione sulle sue ricerche bibliografiche, risponde che non si può generalizzare perché da molte parti del mondo arrivano buone notizie. Obama argomenta con chiarezza: si pensi all’Asia, e nel dettaglio a un paese come l’Indonesia, all’America Latina, e per essere precisi a un paese come il Cile. Non c’è nessun vizio complottista nell’ammettere che per Obama sia normale pensare subito all’Indonesia, perché è un posto in cui ha vissuto. Ma noi dobbiamo tenere presente un punto essenziale: nell’occidente invecchiato e perplesso, soprattutto in Europa, “oh, finalmente l’Indonesia sta andando alla grande” non è e non sarà mai un argomento politico con cui tenere insieme le nostre democrazie ed evitare il loro sfilacciamento. Hal Varian di Google ha previsto che la disciplina più sexy di questo decennio sarebbe stata la statistica, ma è possibile che le grandi questioni della vita e della morte (delle culture, delle civiltà) non si risolvano solo con una spruzzata di big data. E se proprio i dati, signori del nostro tempo ben più che le leggi, si ritrovassero a tacere, o a parlare con meno eloquenza, in tempo di guerra?
Lo scarso rilievo del concetto di occidente è anche un punto importante della geopolitica di Papa Francesco. D’altra parte i “valori occidentali” e la “civiltà occidentale” fanno parte dei discorsi di politica estera di Donald Trump, quindi forse dobbiamo abbandonare una volta per tutte questi concetti e considerarli relitti del mondo della guerra fredda. Siamo quindi diventati ex occidentali? E, soprattutto, noi possiamo veramente permettercelo? Senza il concetto di occidente, come definiamo, esattamente, i nostri rapporti con la Cina, la Russia, la Turchia? Che cos’è per noi Israele? Come definiamo la nostra identità, anche in termini di priorità? Peraltro, un’altra lezione problematica dell’era Obama sta nel fatto che puntare sull’Asia non significa necessariamente capirla. Questa mappa del mondo allargata amplia anche la sua comprensione? Sul piano politico George H.W. Bush, che Obama peraltro ammira, aveva ben altra comprensione e confidenza con la Cina rispetto a quella che si è vista nell’ultimo decennio. E sul piano teorico e strategico, non sembra che siano state esposte nuove grandi idee dopo il “responsible stakeholder” di Robert Zoellick. In futuro Barack Obama scriverà sicuramente un bel libro sui suoi anni alla Casa Bianca, e probabilmente cercherà di occuparsi dell’Africa in modo incisivo. Eppure, mentre la profondità strategica e l’economia americana continueranno a guidare il mondo, il prossimo Presidente degli Stati Uniti dovrà comunque confrontarsi con i fantasmi della conciliazione e dell’occidente. E le campane di questi fantasmi suoneranno anche e soprattutto per noi, molto più delle photo opportunity alle varie convention.
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