Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese, al party organizzato in occasione di una recente visita della regina Elisabetta e del principe Filippo a Edimburgo (foto Andrew Milligan/PA Wire)

Nicola Sturgeon, lady Braveheart

Guido De Franceschi
Star del Remain, rispettata e temuta, è diventata celebre soprattutto nella sconfitta. Chi è e cosa vuole il premier scozzese. E’ una delle due sole britanniche inserite nella lista 2016 di Forbes delle cinquanta donne più potenti del mondo. L’altra è la Regina.

Nel Regno Unito c’è una donna in prima pagina, la neo leader del Partito conservatore e neo premier Theresa May. Ma sarebbe più corretto dire che nel Regno Unito ci sono due donne in prima pagina. L’altra è una “collega” della May, la premier scozzese Nicola Sturgeon (il nome “Nicola” va pronunciato ritraendo l’accento sulla “i”). Retorica delle più brillanti, solidissime convinzioni socialdemocratiche, indipendentismo a tutto tondo, disagio malcelato nei confronti della monarchia, un grande talento nello sfruttare il momentum, un’antica e sempre riaffermata avversione per i Tories – anzi, per i “Tööörrries”, nella sua calcatissima calata settentrionale – che governano e hanno spesso governato il Regno Unito senza mai vincere in Scozia, la Sturgeon è diventata celebre, rispettata e temuta (“the most dangerous woman in Britain” l’ha definita l’unionista Daily Mail) da tutti.

 

Nicola ha conquistato fama e interesse prima a nord del Vallo di Adriano, poi in tutto il Regno Unito e infine in Europa e nel mondo: è l’unica scozzese e una delle due sole britanniche inserite nella lista 2016 di Forbes delle cinquanta donne più potenti del mondo; l’altra britannica è la Regina. E dopo il “sì” alla Brexit, a cui la Sturgeon era contrarissima, la premier scozzese si è insediata con ancora più volitività sul palcoscenico europeo. In questa sua parabola ascendente la Sturgeon è un caso pressoché unico nel contesto britannico, in cui il passo indietro del day after sembra sia diventato lo sport nazionale dei politici. Nelle ultime settimane hanno fatto un passo indietro quelli che hanno perso, come l’ex premier David Cameron che, da supporter del Remain, non è riuscito a vincere il referendum sulla Brexit che aveva indetto proprio per disinnescare le istanze isolazioniste che monopolizzavano il dibattito politico. Ma hanno fatto un passo indietro, o di lato, anche quelli che hanno vinto: Nigel Farage, che ha lasciato l'Ukip dopo aver ottenuto la Brexit, obiettivo di una vita intera; l’ex ministro della Giustizia, Michael Gove, che dopo essere stato una prima lama del Leave ha abbandonato le velleità di conquistare la leadership dei Tories; l’ex sindaco di Londra, Boris Johnson, che, dopo aver cavalcato anche lui l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, non ha neppure tentato la scalata al Partito conservatore pronosticata da tutti ma si è ritagliato, come ministro degli Esteri, il ruolo del meno diplomatico capo della diplomazia dell’occidente tutto. Un politico che invece non ha voluto toccare palla, il leader laburista Jeremy Corbyn, protagonista di una pallidissima, poco convinta e ancor meno convincente campagna per il Remain, un passo indietro non lo vuole proprio fare, ma di spingerlo in quella direzione si incaricano i moltissimi nella direzione del suo partito che lo hanno sfiduciato.

 

In questo contesto, si diceva, c’è la rara avis – specie ornitologica: scozzese fenice – Nicola Sturgeon che da ogni sconfitta sa prendere l’abbrivio per fare cento passi in avanti. All’inizio ci fu il referendum sull’indipendenza della Scozia nel settembre 2014. In quell’occasione la Sturgeon – che era la numero due del suo partito, lo Scottish national party (Snp), allora ancora guidato da Alex Salmond – fu il volto determinato e la gamba instancabile della campagna per lo “Yes” all’indipendenza. E quando invece prevalse il “no” alla separazione da Londra con il 55,3 per cento dei voti fu proprio lei, mentre Salmond si dimetteva dalla guida dello Snp, a riconoscere la sconfitta: “Chiaramente sono profondamente delusa. Sapete, come migliaia di altri in tutto il paese, ho messo il cuore e l’anima in questa campagna e c’è una chiara sensazione di delusione perché siamo arrivati a un passo dall’ottenere una vittoria del ‘sì’”. Inequivocabile, e apprezzato, nelle sue parole, il riconoscimento della sconfitta. Eppure, mentre tutti, parafarasando David Cameron, sostenevano che le istanze di indipendenza della Scozia erano ormai archiviate per almeno una generazione, nelle parole della Sturgeon (“a un passo da”) si poteva già intravedere un futuro prossimo ancor più battagliero. E così è stato, dal momento in cui è diventata leader del suo partito.

 


Nicola Sturgeon  (foto LaPresse)


 

Gli iscritti allo Snp, che erano 25.000 nel giorno del referendum, si sono quasi quintuplicati in meno di due anni (ora sono quasi 120.000). Alle elezioni politiche nazionali del 2015 il partito della Sturgeon ha sbriciolato il Labour locale e il Lib-Dem, ottenendo 56 dei 59 seggi attribuiti in Scozia (nella precedente legislatura erano soltanto 6), ed è diventato il terzo gruppo a Westminster. E nelle elezioni per il Parlamento scozzese del maggio scorso, pur sperimentando un leggero calo, lo Scottish national party ha ottenuto il 46 per cento dei voti e 63 seggi su 129, assicurando alla Sturgeon la poltrona da primo ministro. Ma, soprattutto, Nicola si è assicurata un posto centrale nel dibattito politico nazionale di tutto il Regno Unito, emancipando lo Snp dal ruolo di folklorica ridotta di eccentrici romantici in kilt, noti quasi esclusivamente per il sostegno di un attore ormai anziano che, dopo aver interpretato a lungo il più celebre agente segreto al servizio di Sua Maestà, ora vive a latitudini con clima più temperato.

 

Nata nel 1970 a Irvine, famiglia working class (padre elettricista e madre infermiera, che, da semplici elettori non troppo interessati alla politica, si sono ora ritagliati un piccolo ruolo politico come candidati locali del partito guidato da Nicola), studi in Giurisprudenza, la Sturgeon ha costruito la sua carriera da lontano, iscrivendosi allo Snp a sedici anni, iniziando come timida volantinatrice, passando per sette sconfitte elettorali consecutive dai 21 anni in poi e conquistando infine un seggio nel Parlamento scozzese nel 1999. Da lì in poi un solo piccolo scandalo, una lettera per suggerire alle autorità competenti di evitare la prigione a un elettore del suo collegio appropriatosi fraudolentemente di fondi pubblici, e una crescente considerazione da parte di amici e avversari per l’ottima gestione, in qualità di responsabile della Salute nel governo locale, dell’emergenza legata alla febbre suina individuata in Scozia nel 2009. In più, sempre più evidenti, un talento di oratrice e una passione politica capaci di mettere in grave difficoltà anche gli avversari più coriacei.

 

Per quanto riguarda la passione politica della Sturgeon, galeotta fu un’altra donna, Margaret Thatcher. Le donne ricorrono spesso nella storia di Nicola. Una donna, Theresa May, è la sua attuale interlocutrice nelle ruvide negoziazioni sul dopo-Brexit. Una donna, Roseanna Cunningham, fu nel 2004 la big del partito che la Sturgeon sfidò per la leadership dello Snp, prima di ricollocarsi come numero due del poi vincente Alex Salmond, candidatosi soltanto in un secondo momento. Una donna è il capo dell’opposizione in Scozia, la tostissima leader dei Tories locali Ruth Davidson che, oltre a essere lesbica, kickboxer e working class, triade tassonomica che ha fatto la gioia dei tabloid, si è rivelata una straordinaria colletrice di voti e ha finalmente tolto dalla lista degli ossimori l’espressione “conservatore scozzese”. E, a completare il girl power celtico, anche i tumefatti laburisti scozzesi e gli effervescenti Verdi locali sono guidati da due donne.

 


Margaret Thatcher (LaPresse)


 

Margaret Thatcher fu dunque la musa politica della Sturgeon, ma fu una musa al rovescio: “Allora la Thatcher era primo ministro – ha spiegato Nicola alla Radio della Bbc – l’economia non era in gran forma, un sacco di gente intorno a me vedeva un prossimo futuro e una vita di disoccupazione e credo che questo mi abbia certamente dato una forte consapevolezza della giustizia sociale e la forte sensazione che fosse sbagliato per la Scozia essere governata da un esecutivo dei Tories che non aveva eletto”. Da molti anni residente a Glasgow, sposata con il partito nel senso proprio del termine, visto che suo marito, conosciuto ça va sans dire a un raduno politico nei pressi di Aberdeen, è chief executive dello Snp, appassionatissima della serie tv danese “Borgen” al punto da prestarsi a dialogare in televisione con l’attrice protagonista Sidse Babett Knudsen (di cosa parla “Borgen”? Di una donna che diventa primo ministro…), Sturgeon è dedicata trecentosessantacinque giorni all’anno alla politica. Orgogliosa delle sue radici working class e incurante di chi la accusa di essere ormai lontana dalle persone che vuole rappresentare in quanto appartenente ai DINKs – Dual Income No Kids, cioè due stipendi in casa (consistenti, in questo caso) e niente figli – Nicola ha contribuito alla trasformazione dello Snp da movimento identitario rurale in partito a trazione urbana e in scelta prevalente in tutta la Scozia per gli elettori di sinistra. Infatti, tra i pochissimi posti in cui ha prevalso il “sì” all’indipendenza ci sono la prima e la quarta città scozzese per popolazione, Glasgow e Dundee.

 

Ormai solidamente alla guida dello Snp e del governo scozzese, la Sturgeon ha iniziato la fase due della sua carriera attraverso un’altra sconfitta, sempre in un referendum: quello sulla Brexit. Partigiana del Remain e protagonista, lei sì, di una campagna elettorale flamboyant per restare nell’Unione europea, ha trionfato in Scozia, dove una larga maggioranza ha votato per rimanere con Bruxelles, ma ha visto per l’ennesima volta come il peso demografico dell’Inghilterra gravi sulle scelte collettive del Regno Unito, una circostanza che trova insopportabile e dà ulteriore combustibile al suo indipendentismo. Già prima del voto, la Sturgeon aveva chiesto a gran voce la necessità di una “doppia maggioranza”: se davvero, come ci hanno spiegato gli unionisti prima del referendum di indipendenza, tutte le parti del Regno Unito devono sentirsi a casa loro sotto l’ombrello di Londra, diceva la Sturgeon, allora, per essere valido, il “sì” alla Brexit deve avere la maggioranza non soltanto nel Regno Unito ma in tutte e quattro le sue componenti. Richiesta respinta. Alla fine in Inghilterra e Galles ha vinto il “sì”, in Scozia e Irlanda del Nord ha vinto il “no”.

 

Il giorno successivo al referendum, la questione scozzese è tornata in prima pagina. Altro che accantonata per una generazione. Mentre i sostenitori del Remain guardavano attoniti i risultati elettorali del voto sulla Brexit, e ancor più stupiti e disorientati per la vittoria sembravano i sostenitori del Leave, e mentre si assisteva ai già citati passi indietro di massa di molti politici, Nicola riprendeva il microfono con mano sicura. La Scozia non ci sta a uscire dall’Unione europea per decisione altrui e ricorrerà a ogni mezzo per impedirlo, continua a ripetere dal 24 giugno scorso. Un altro referendum di indipendenza? Certo, davanti a un simile cambio di contesto, se necessario, pretenderemo un altro voto per decidere se staccarci da Londra per rimanere insieme agli altri Ventisette, ha minacciato fin dalle prime ore. Poi è subito corsa a Bruxelles per far valere le sue ragioni e per conquistare un posto a tavola nelle negoziazioni. Lì, concretamente, ha raccolto poco, oltre a molta simpatia per sé e per la sparuta pattuglia di europarlamentari dello Snp. Il presidente della Commisione europea, Jean-Claude Juncker e il presidente del Parlamento europeo Martin Schulz hanno accettato di vederla, ma altri hanno per ora chiuso la porta, dal presidente del Consiglio europeo Donlad Tusk, al presidente francese François Hollande, al premier in funzioni spagnolo Mariano Rajoy che dove vede “Scozia” legge “Catalogna”.

 

Intanto, nel vuoto politico spinto che ha vissuto il Regno Unito del post-Brexit, forse ora parzialmente colmato da Theresa May, Nicola ha occupato ogni spazio, diventando una sorta di star del Remain fuori-tempo-massimo, arrampicandosi sulle altrui macerie e presentandosi con successo, almeno per alcune settimane, come una politica con le idee chiare, l’unica leader di partito saldamente in sella alle sue ben note convinzioni. Theresa May, che si è presentata con il pragmatismo di una tiepida sostenitrice del Remain che ora sostiene “Brexit means Brexit” per cercare di tappare le falle aperte dal fuggi fuggi generale dei suoi colleghi e di tirar fuori il suo paese dalle secche politiche su cui si stava incagliando, è consapevole della portata della “questione scozzese”.

 


Theresa May (LaPresse)


 

La premier scozzese è tra quei pochi leader capaci di convogliare la propria potente ambizione personale (riguardo alla quale comunque Nicola non scherza: alcuni, pochi per la verità, fuoriusciti dallo Snp hanno raccontato che cosa succede quando ci si mette di traverso sulla sua strada) per trasformarla in un’ambizione più ampia e collettiva, quella di far vincere a tutti i costi la propria parte politica, anche e soprattutto se si ha appena perso. Per questo Theresa May è subito andata a Edimburgo a incontrare la sua quasi-omologa scozzese e ha assicurato che non inizierà il processo formale di lasciare l’Unione europea finché non sarà stilata una road map che coinvolga il governo scozzese: “Sono disponibile ad ascoltare ogni opinione e sono stata molto chiara con il primo ministro scozzese sul fatto che voglio che il governo di Edimburgo sia pienamente parte della nostra discussione”. La Sturgeon non elimina da un orizzonte anche prossimo l’ipotesi di un nuovo referendum di indipendenza, ma per ora le serve soltanto per alzare la posta, visto che il principale pilastro economico su cui si basavano le promesse dei separatisti, cioè il petrolio, ha prezzi ben diversi da quelli del 2014, e che, se la Scozia si sente assai malcomoda fuori dall’Unione europea, avrebbe più di un problema anche se riuscisse a rimanere da indipendente nell’Unione europea e nel mercato unico ma fosse separata da barriere tariffarie e non tariffarie dal resto di un Regno Unito extra-Ue, paese che è, e rimarrebbe, il suo superpartner economico-commerciale. Intanto, Nicola Sturgeon incassa il dividendo dell’attenzione che le ha concesso la May e risponde all’annuncio della premier britannica di voler coinvolgere Edimburgo nelle negoziazioni sulla Brexit con parole chiarissime: “Questa cosa mette la Scozia in una posizione molto, molto forte, e mette me in una posizione molto forte”. E nessuno, per ora, la può smentire.