Dieci donne per una tv
C’è la nonna siciliana che parla con la saliera, la sedia, il cucchiaio, gli alberi e le foglie, e passeggia per il giardino come tra le pagine di “Alice nel paese delle meraviglie”, scoprendo a ogni angolo un Cappellaio Matto, e poi si traveste da cliente del barbiere ed entra nell’armadio sotto gli occhi terrorizzati del nipotino, per cacciare il mostro che non se ne vuole andare non perché sia cattivo, dice, ma perché ha un pessimo senso dell’orientamento. E c’è la ragazza bella e solare che, nella prima estate di Dopoguerra, ballando il boogie-woogie, trova l’uomo dell’affinità elettiva, ma poi decide di sposare l’altro, in teoria più giusto per il suo futuro e la sua serenità, e lo fa proprio nel momento in cui prendere una direzione è come andarsene dalla festa appena cominciata, e allora per un attimo decide anche di non rinunciare all’irrinunciabile, ma senza mettere in crisi la scelta forte della vita. E c’è la giovane donna algida e controllata, che si nasconde dietro la sua eleganza e sembra davvero quello che appare, ma chi la osserva percepisce l’inquietudine dell’altra da sé, quella che forse neanche lei sa di poter diventare, e che a un certo punto esplode, lasciando emergere la vera natura di un carattere che è troppo tardi per lasciare libero. Ci sono dieci donne in dieci piccoli film da dieci minuti, e dieci momenti nell’esistenza dell’uomo che le osserva, lungo cinquant’anni di vita sua e del paese. Dieci piccoli film che partono dalla Sicilia di “Donne” di Andrea Camilleri (ed. Rizzoli) – un Camilleri non più padre del commissario Montalbano, ma coprotagonista non giudicante di un universo femminile non del tutto conoscibile – per affacciarsi in tv come se la tv fosse web, ma dopo il tg tradizionale della sera: dieci minuti a sera, su Rai1, dal 30 agosto.
Poi c’è l’undicesima donna: Gloria Giorgianni, la giovane produttrice della serie, anche nipote di Elvira Sellerio, colei che un giorno disse a Gloria la frase fondamentale “qualsiasi cosa ti succeda nella vita, non devi mai neanche per scherzo essere cretina”. E potrebbe forse essere l’undicesimo piccolo film, la storia di Gloria, ragazza quarantenne dai capelli rosso-normanno che è cresciuta in un microcosmo di zie, cugine, mamme e nonne molto camilleriane (non per niente Camilleri, habitué di Sellerio, è amico di famiglia), e che dopo aver lavorato su Montalbano nella casa-madre (la Palomar di Carlo Degli Esposti), si è messa in proprio fondando una sua società (Anele, con cui ora produce la serie “Donne” in collaborazione con Rai Fiction), per tornare a Camilleri da tutt’altra prospettiva. Tuttavia Giorgianni – accento palermitano e modus operandi milanese – previene la domanda sull’“uccisione” metaforica del padre professionale: “Carlo Degli Esposti è la persona che mi ha insegnato tutto e a cui sono grata”, dice, “ma c’è stato un giorno in cui ho sentito che dovevo mettermi a camminare da sola”. E oggi, oltre che ai precetti eterni di zia Elvira, che con quella frase sull’imperativo morale di non essere cretine le ha indicato la via nei momenti bui, Gloria a volte si appoggia, dice, anche ai consigli di Giovanni Minoli, persona che definisce “importante” nella sua formazione nonché punto di riferimento per “la profonda conoscenza del linguaggio televisivo”.
I dieci piccoli film, intanto, prodotti con Tore Sansonetti e Carlotta Schininà, (con regia di Emanuele Imbucci, copertina “animata” di Simone Massi e musica di Matteo Corallo con realizzazione Sugar music), sono per Giorgianni la bandiera di una produzione “economicamente leggera”, dice, e multimediale, con progetti che partono dalla realtà (Giorgianni ha prodotto anche un documentario sulla rivoluzione in Siria e un instant-movie sugli esordi di Federico Pizzarotti, sindaco grillino di Parma), ma soprattutto dalla letteratura (la prossima serie sarà tratta da “Passeggeri notturni” di Gianrico Carofiglio, ed. Einaudi), con l’idea di arrivare contemporaneamente a web, tv e cinema con uno stesso prodotto che si adatti a molti usi. Quando Giorgianni ha fondato Anele, la sua era una start-up. Poi sono arrivate le chiamate dall’estero (Canal Plus) e i progetti televisivi italiani. In nuce, però, c’era già l’obiettivo di una “collaborazione tra media”, come quella con il sito del Corriere.it nel caso del documentario su Pizzarotti, girando il quale Giorgianni si ritrovò, a un certo punto, sul camper del Beppe Grillo non ancora bisbetico, a monte del ballottaggio vincente che diede il via allo “tsunami” a cinque stelle. Sempre dal web è arrivato il primo successo di Anele: la serie “Under”, tratta dal romanzo della giovane Giulia Gubellini (Rizzoli). Anche in quel caso, come oggi, la materia prima era la parola scritta.
Arrivata a Roma nel Duemila, “per amore” e senza ancora sapere bene che cosa fare, Giorgianni era già abbastanza sicura di non voler lavorare nelle biotecnologie, oggetto di studi universitari in quel di Palermo. Come spesso accade, l’ispirazione le venne strada facendo, e cioè dopo l’apprendistato a “Così va il mondo”, programma di Enrico Deaglio, e soprattutto durante i dieci anni da editor e producer nella suddetta Palomar, anni in cui le si chiarì il concetto: “A me piace organizzare”. Pur essendosi messa in proprio nel 2012, non è una rottamatrice in senso classico: non vuole tagliare radici, ma “trasformare nella forma”. E le “Donne” di Camilleri le sono sembrate materia abbastanza universale, nonostante il contesto per metà siciliano, per l’esperimento in prima serata su rete ammiraglia (nel cast, tra gli altri, Neri Marcoré, Carolina Crescentini, Francesco Mandelli, Nicole Grimaudo, Claudio Gioè, Vincenzo Amato, Anita Kravos, Nino Frassica, e Leo Gullotta come voce narrante). L’uomo che guarda – un Camilleri auto-romanzato, e sempre interpretato da attori diversi – è comprimario di un racconto in cui le dieci donne entrano in un percorso di conoscenza (lungo una sera o un anno non importa) e ne escono con lo stupore, l’orgoglio o lo smarrimento di chi ha trovato dentro di sé risorse sconosciute. “Sono ritratti in cui la brevità nulla toglie alle sfumature e all’intensità”, dice Giorgianni, “istantanee di donne molto diverse, di epoca diversa dalla nostra, ma moderne sia nel modo di affrontare dolore e felicità sia nell’autoironia e nella capacità di reagire”.
In qualsiasi punto dei dieci episodi, la protagonista potrebbe essere una donna qualsiasi tra quelle nascoste nel pubblico, in uno degli attimi che hanno deciso la sua vita. E forse per suggestione, forse per gioco di associazioni mentali, anche la selvaggia e apparentemente distante da ogni possibile ragazza “millennial” Nunzia, personaggio del primo episodio (interpretato dalla giovane attrice ragusana Alice Canzonieri), diventa canovaccio per piccole divagazioni esistenziali: Nunzia vive nella natura e in qualche modo ne fa parte, mangia carne cruda di serpente, vive sull’albero come un Barone Rampante e ride come mai si riderebbe a tavola, ma è capace di insegnare ad Andrea (alter-ego bambino di Camilleri) come si possa essere resilienti, inventandosi un modo per stare al mondo: nel suo caso, trattando da suo pari un ragazzino dodicenne, l’unico in grado di capirla e di esserle davvero amico in un mondo contadino e superstizioso, dove amore e scandalo sono sempre connessi e dove non si sa se sia più bestiale l’istinto o le contromisure prese per contenerlo. Né è possibile confinare alla sua epoca Beatrice, la ragazza del boogie-woogie, presa com’è dal dilemma dei dilemmi (per uomini e donne, e non solo a vent’anni): mettersi al sicuro e perdere le altre infinite possibilità quando ancora tutto sembra possibile o andare avanti nell’incertezza, temendo di ritrovarsi, come l’Andrea ormai alle soglie della vita adulta, ancora in mezzo alla pista, sì, ma quando ormai non c’è più nessuno per ballare?
Beatrice è ritratta nel bel mezzo degli anni Quaranta, tra compagni di studi e reduci dalla guerra che hanno riscoperto la voglia di vivere, nella prima estate di pace in cui un disco americano permette a un gruppo di amici di sentirsi tutti compagni e nessuno fidanzato, tutti soltanto parte di spensierate “coppie ballerine”, tutti uguali sul campo innocuo del flirt latente e senza impegno. Ma Beatrice potrebbe benissimo essere una trentenne di oggi, sul campo altrettanto apparentemente spensierato, ma in realtà angosciante, dell’infinita possibilità reale e virtuale (via social network): campo immenso, ma anche stanza le cui pareti sembrano già restringersi addosso. E magari, come fa Beatrice negli anni Quaranta, anche la trentenne del 2016 prenderebbe la strada sicura, larga, forse piacevole e forse noiosa, e saprebbe abbandonare con freddezza, anche se non senza debolezza, l’amour fou che chissà dove potrebbe portare: a perdersi? a essere felici? E il ragazzo che guarda Beatrice, lì per lì sconvolto, ne subisce la decisione ma alla fine sembra pensare la stessa cosa, sembra quasi capirla, anche se in quel momento è lui la vittima, forse perché sa che al posto suo farebbe lo stesso, come faranno lo stesso più avanti molti suoi amici e molti sconosciuti, uomini e donne, nell’attimo della scelta che non si sa più come definire (più stupida? più ragionevole?) tra la cosiddetta “ragione” e la cosiddetta “passione”. (Ed è così che la scanzonata ma razionalissima Beatrice, vista dall’oggi, arriva a sembrare persino una paladina anti società liquida di Zygmunt Bauman).
In dieci minuti, si diceva Gloria Giorgianni prima di iniziare a lavorare al progetto di “Donne”, voglio riuscire a non restare in superficie, a dare profondità a un frammento, lasciando emergere la personalità di quelle dieci donne per com’è nei racconti da cui provengono, ma liberando spazio per la reinterpretazione dello spettatore, l’occhio che guarda e che ci vede quello che ci vuole vedere, a secondo di come e di che cosa sta vivendo. Intanto, resta nell’occhio la solitudine di Pucci (Carolina Crescentini), ragazza di buona famiglia che si difende dal mondo con una maschera di perfezione fatta di cappotti sagomati, capigliatura perfetta e sguardo assente, non scalfito dalle battute altrui, incurante della vita che scorre accanto, fino al momento in cui la prima goccia d’alcol nel bicchiere di astemia risveglia, nel modo meno borghese possibile, la rabbia di non essere vista oltre alla facciata borghese. E resta nell’occhio anche l’ingenuità serena della scandinava Ingrid, studentessa che conosce il professore italiano Andrea mentre è in trasferta a Copenhagen, e con grande naturalezza lo invita a passare la notte a casa sua, al di là dello stretto, in Svezia – e però in Svezia “casa sua” può anche voler dire casa ancora condivisa con gli informalissimi genitori, pronti a soccorrere lo straniero che ha un mancamento all’idea di dormire con Ingrid nella stanza tardo-adolescenziale, piena di cuscini a forma di gatto, pelouche e foto delle amiche, nonostante Ingrid possa già discettare per ore, e a livello universitario, di Luigi Pirandello e dell’incompiutezza de “I giganti della montagna”.
Ma forse c’è una donna che contiene in nuce tutte le altre, ed è la nonna di nome Elvira, protagonista dell’ultimo episodio: una specie di fata pia e burlona che indica al piccolo Andrea (e allo spettatore?) il trucco per trovare il bello nel brutto e il buffo nel triste, e il segreto “per aprirsi alla fantasia ed esercitarla”, senza mai dimenticare di essere “onesti con se stessi”, dice, ma lasciandosi la libertà di andarsene in giro per la propria vita sorridendo delle foglie che sono “verdi d’invidia per l’arcobaleno” o trasecolando, come l’Alice di Lewis Carroll, alla vista del “ghigno senza gatto” e dell’incredibile che è in tutte le cose.
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