L'incredibile Mino Raiola da Angri
Mitizzato o ridicolizzato, molto invidiato. Chi è davvero il re del tavolo nel calciomercato che porta a casa cifre mostruose: quest’anno viaggia sui 50 milioni. La metà è la base annuale che realizza, il resto si chiama Pogba. Dall’Italia all’Olanda: “Se toglie la parte criminale, la casetta sembrava il set del ‘Padrino’. Ragù, salami, spettacolini”.
Non si capisce il perché, o forse si capisce troppo bene, ma molti nel pallone pretendono di guardare ancora Mino Raiola dall’alto in basso. Per pedigree. Per look. Quindi, nell’ordine, sentirete e leggerete sempre – sempre – due cose. La prima: “Il cameriere che diventò milionario”. Che potrebbe essere la storia di molti, ma con lui è un cliché che si alimenta di continuo. Serve a mantenere le distanze e un certo livello di disprezzo, mascherato da ammirazione per la scalata sociale ed economica. Poi conta poco che in realtà fosse il figlio di un proprietario di un ristorante-pizzeria che aiutava i genitori. Mino contribuisce alla mitologia: “Quando scrivete che facevo il pizzaiolo, sbagliate. Facevo il cameriere”. E ogni volta la questione torna, come punto di partenza di ogni ragionamento, con tutti i non detto che si porta dietro. La seconda: “Parla otto lingue, tutte male”. Il che non è vero, o quantomeno nessuno di quelli che l’hanno scritto, lo scrivono e continueranno a farlo, lo può sapere direttamente perché non s’è mai vista una conversazione individuale oppure conviviale che si sviluppa come un esame di lingue e letterature straniere. Semplicemente è stata presa una sua frase vera ed è stato ampliato il senso: “Parlo molte lingue, la peggiore è l’italiano”.
Ecco, questo non manca mai. Ogni cosa di una certa dimensione scritta o detta su Mino Raiola, parte da qui e spesso qui arriva. Perché anche se sono più di vent’anni che gira tra le stanze dei presidenti e dei direttori sportivi dei più grandi club calcistici europei e da dieci anni è di fatto il principale (o uno dei due) protagonista delle trattative più importanti del calcio mercato, il punto uno e il punto due sono il condimento succulento della sua storia. Che viene raccontata sempre, senza eccezione, con quel tono di stupore che si deve alle vicende surreali o semireali. Come a dire: ecco l’incredibile che si materializza. Più affari milionari fa, più il tono dello stupore aumenta. Perché è un registro di comunicazione facile e immediatamente comprensibile, specie nelle estati di lettura distratta: l’uomo che non aveva niente e che ha tutto, l’intelligente ma rozzo italiano emigrato che porta a casa cifre mostruose. L’ultima parte, quella sulle cifre, è indubitabile: quest’anno si viaggia sui 50 milioni. La metà (25 milioni) è la base annuale che ha realizzato in media nelle ultime stagioni, il resto ovvero l’altra metà è l’effetto della cessione di Paul Pogba alla Juventus. Il che permette di arrivare al terzo punto fermo della narrazione raiolana: le commissioni.
Provate a leggere, o ad ascoltare: anche in questo caso non c’è un racconto che non passi attraverso la fenomenologia delle “provvigioni” che riesce a rimediare ogni volta che un suo calciatore si sposta da una squadra all’altra. Il tema è decisamente più ostico e più tecnico rispetto a quello del cameriere e quello delle lingue, per questo è terzo in classifica. E però unito agli altri due crea un gigantesco effetto di invidia sociale che è la vera cifra del racconto che gli altri fanno di lui. L’equazione è più o meno questa: era un cameriere, non sa parlare, ma guadagna quanto una multinazionale. La sintesi produce sostanzialmente due effetti: o Raiola viene mitizzato o viene ridicolizzato. Non esistono gradini che ti portano da un punto all’altro. Alto o basso, mai alto e basso insieme. Invece è proprio lì che sta Raiola. Il quale non si racconta praticamente mai. Una delle rare volte in cui l’ha fatto è stato di recente con Malcom Pagani per Gq. Ne è venuta fuori un’intervista di quelle da tenere da parte: “Ai calciatori domando: ‘Vuoi diventare il più pagato o il migliore?’. Se rispondono ‘il più pagato’ gli indico la porta. Il pittore che dipinge un quadro per denaro e non per passione non lo vende. I soldi sono molto importanti, ma se li insegui non arriveranno mai e con il tempo finisci per capire che c’è sempre qualcuno più ricco di te”.
Frasi così nella vulgata del Raiola che nessuno conosce e che tutti fanno finta di conoscere non gli vengono mai attribuite. Piuttosto viene da pensare che dica il contrario. Perché il pregiudizio rende schiavi molti di quelli che si avvicinano alla sua storia. Come se non ci fosse l’idea di raccontarlo, ma quella di rivelare ciò che gli altri pensano di lui. Ovvero che è il prodotto del calcio degenerato, senza più limiti e senza più regole. Eppure i limiti e le regole ci sono, nel pallone, come nella vita e nel lavoro di Raiola. Uno che ha passato una vita accanto a colui che sempre per la stessa vulgata dovrebbe essere il suo peggior nemico, cioè Zdnenek Zeman. Si sono conosciuti a Foggia, la città della moglie di Mino. Il tramite della loro amicizia fu un calciatore, comunque, Bryan Roy. “Si trovò ad allenarsi nel parcheggio: ‘Ma dove mi hai portato?’. Poi cambiò idea. Lo adoravano, gli dedicavano i cori: ‘Abbiamo un angioletto biondo / adesso è diventato nero / segnerà presto per noi / si chiama Bryan Roy’. A Foggia mi trasferii per un anno. Con quel genio di Casillo e con Zeman diventammo amici. Fumavamo, scherzavamo: ‘Zdenek, tu di calcio non capisci veramente un cazzo’. Un giorno, con il campionato fermo per le nazionali, partono tutti e parto anch’io.
Mino Raiola (foto LaPresse)
Resto due giorni ad Angri e poi torno da Zeman: ‘Ciao mister, come stai?’. Silenzio. Gli offro una sigaretta. Lui è tirchissimo e accetta, ma non mi rivolge la parola: ‘Oh, ma che cazzo hai?’. ‘Dove sei stato? Se lasci Foggia mi devi avvertire, non conosci tavole della legge?’. ‘Hai bevuto ieri sera, mister? Io non sono un calciatore e tu non sei dio, faccio come voglio’. ‘O sei nel gruppo e rispetti le regole o sei fuori e te ne vai’, rispose. Ci pensai. Aveva ragione. Gli chiesi scusa. Gli ho voluto veramente bene. Ci siamo un po’ persi e mai veramente ripresi. Anni fa, con un colpo pazzesco, presi la procura di Nedved. Glielo andai a dire e sbiancò. Gli rodeva che avessi trovato un giocatore ceco e temeva che qualcuno potesse dire ‘Zeman ci guadagna’. Mi disse: ‘Lo devi lasciare stare’, gli risposi che non ci pensavo nella discutemmo e gli promisi di portarlo alla Lazio. Un giorno Zdenek mi telefonò in piena trattativa: ‘Tu sei pezzo di merda, non hai rispettato parola’. Per un equivoco con l’intermediario, Nedved rischiava di andare al Psv. Risolsi la grana e Pavel approdò a Roma. Zeman ne decise arbitrariamente lo stipendio: ‘200 milioni per ragazzo sono più che sufficienti’. Il resto della rosa guadagnava il quadruplo, litigammo e non ci parlammo per mesi. L’ingiustizia la sanò Zoff. Un signore. Come Cragnotti. Uno che non mi faceva sentire che lui era il re e io una merda”.
Nedved è stato la svolta, ma non è che prima fosse l’ultimo dei capaci.
La storia nasce in Olanda, si sa. E si lega molto con il punto uno del racconto che gli altri fanno di lui e che invece Mino, from Angri passando per Haarlem, racconta così: “Da Angri, capitale mondiale del pomodoro pelato, i miei si erano spostati in Olanda, ad Haarlem, in cerca di fortuna. Annunziata Canavacciuolo, mia madre, era l’ambizione e l’orgoglio. Mio padre Mario l’idealismo. Si compensavano. Vivevamo con uno zio panettiere e se toglie la parte criminale, la casetta sembrava il set del ‘Padrino’. Ragù, salami, spettacolini. Il periodo più felice della mia vita. I miei aprirono il ristorante Napoli, aperto 24 ore al giorno. Volevano rieducare gli olandesi: ‘Il cibo fa schifo, insegniamogli a mangiare’. Papà rientrava alle 4 del mattino, non lo vedevo mai, decisi di dargli una mano. Servivo ai tavoli e pulivo. Un giorno si presenta un cliente. E’ vestito male e sembra sporco. Non mi muovo. Sento la voce di papà: ‘Mino’. Non mi muovo. Ripete. Scatto. Era meglio non contraddirlo. Era dolce, ma sul lavoro si trasformava. Certe cose rimanevano tra noi. Se volava uno schiaffo, mi avvertiva: ‘Se ti lamenti con mamma ti do il resto’. Mi accorgo che quel cliente ha scelto la bottiglia più costosa e dico a papà: ‘Sei sicuro che possa pagare?’. Non alza neanche gli occhi dal giornale: ‘Mino esistono due tipi di clienti. Il cliente e il cliente. Stappa il Sassicaia e sbrigati’. Lo straccione era ricchissimo. Fu una lezione. Non giudico mai dalle apparenze, non mi vesto in giacca e cravatta come mi insegnò il mio professore di storia. In un ristorante cresci in fretta. Impari a prenderti le tue responsabilità. Oggi quando un affare fallisce non penso mai ‘è colpa degli altri’, ma sempre ‘è colpa mia’”.
Avrebbe voluto fare il calciatore, Mino. L’Olanda era un bel posto dove farlo: “Ora sono grasso, ma ero forte. Smisi e pensai di diventare avvocato. Qualche esame di Legge l’ho anche sostenuto. Su certi aspetti legali ancora oggi non ascolto nessuno. E comunque l’Olanda c’entra molto con questa storia e con il suo successo, per molte ragioni. Una di queste è che è un posto dove accadono cose che altrove non possono succedere, sia per motivazioni storiche e culturali, sia per il fatto che in fondo numericamente è un piccolo Paese che ha sempre avuto bisogno delle intelligenze altrui. Quindi Mino, chiuso con il campo, diventò prima responsabile delle giovanili dell’Haarlem (squadra più vecchia d’Olanda), poi direttore sportivo della prima squadra, dopo aver convinto il presidente. Leggende e racconti incrociati dicono che ogni venerdì il presidente andasse a cena al ristorante della famiglia Raiola e che Mino, tra il serio e il semiserio gli dicesse più o meno così: “Di calcio non capisci niente”. Una volta la risposta fu: “Allora provaci tu, ti affido la squadra”.
L’idea di fare il procuratore gli era già venuta. Aveva fondato una società di mediazione, la Intermezzo, nome non bellissimo quanto efficace. Per un po’ di tempo riuscì a tenere in piedi entrambe le cose, fino a un accordo con il sindacato calciatori olandese che stabilì che l’Intermezzo fosse l’unico soggetto autorizzato al trasferimento dei calciatori olandesi all’estero. Accadeva così già da tempo, nei Paesi Bassi. Prima di Mino, come ha ricordato Fulvio Paglialunga, c’erano Coster Cor e Apollonius Konijnenburg, che “con Piet Keizer (il primo calciatore olandese della storia ad aver ottenuto un contratto da professionista, con l’Ajax) avevano la Interpro, la società che aveva venduto Van Basten alla Fiorentina – secondo i retroscena più gustosi – nel 1986 (ma i viola fecero scadere l’opzione per dissidi interni e si chiuse con il Milan un anno dopo). E Coster Cor non era un qualunque faccendiere, ma un ricchissimo ex commerciante di diamanti e suocero di Cruijff, essendo padre della fotomodella Danny. Raiola comincia a mettersi di traverso, intuisce la possibilità di fare affari: l’Ajax, allora, prendeva giocatori dalle giovanili delle altre società a un parametro basso e poi li vendeva all’estero, Mino prima propone a Ferlaino di far comprare l’Haarlem dal Napoli, per fare la stessa operazione, poi ha visto tramontare tutto e ha cominciato a muoversi da solo, fino all’accordo con il sindacato”.
La prima operazione vera in Italia fu proprio quella con che portò Roy al Foggia, seguita di lì a breve dal primo trasferimento importante, quello di Bergkamp e Wim Jonk all’Inter. Poi l’apertura all’estero con Nedved, poi il colpo vero, ovvero la procura di Zlatan Ibrahimovic. Che ha raccontato così il loro incontro: “Avevamo un tavolo prenotato lì, ma non sapevo che tipo di persona cercare, immaginavo un tizio in completo gessato con un orologio d’oro ancora più grosso del mio. Ma che razza di individuo era quello che entrò dopo di me? In jeans e T-shirt Nike e con quella pancia enorme, sembrava uno dei Soprano. Dovrebbe essere un agente quella specie di gnomo ciccione? E quando ordinammo cosa credete, che arrivò un piattino di sushi con avocado e gamberetti? No, arrivò una valanga di roba, cibo per cinque, e lui divorò tutto come un dannato”.
Zlatan Ibrahimovic (foto LaPresse)
Attorno a Ibra ruota molta della fortuna e della mitologia di Raiola. Ogni cambio di squadra è stato un colpo per il calciatore e per l’agente. E Zlatan ne ha cambiate sette. Uno di questi, quello dall’Inter al Barcellona è stato fondamentale anche per la costruzione del personaggio e della mitologia sul terzo punto della sua biografia che non può mancare: le commissioni. Nell’accordo che consentì l’arrivo di Ibra al Barça, il club si impegnava a versare all’agente un compenso di un milione e duecentomila euro l’anno fino alla scadenza del contratto del calciatore con il club. Succede da anni che le squadre paghino commissioni ai procuratori eppure pare che le abbia inventate Raiola, con tutto quello che questo significa. Perché sulle commissioni si regge anche la sovrastruttura di negatività che sormonta il calcio globale. La verità è che Raiola, per il calcio è il personaggio del decennio. E’ stato lui a trasformare definitivamente il procuratore in protagonista. Ha preso il suo ruolo e l’ha fatto uscire dall’ombra delle stanze in cui si fanno gli affari e l’ha messo di fronte alla telecamera.
Un Don King senza i capelli dritti e gli occhiali, ma con la stessa capacità di fare show a ogni dichiarazione. E’ il re del tavolo: si siede e alza il prezzo. Con la squadra di provenienza e con quella che è interessata al suo giocatore. Il mestiere è questo, in fondo: fare in modo che il suo assistito venga pagato di più, cosicché anche l’agente aumenti i suoi compensi. La semplicità dell’ovvio che per paradosso complica l’estate e anche l’inverno di tifosi, allenatori, compagni, avversari. Perché i procuratori alimentano passioni e tensioni, fanno entusiasmare e deprimere. “Ogni soluzione è possibile”, dice Raiola dei suoi ragazzi. Non ci sono certezze. “Il mio lavoro non è portare tutti qui o lì. Non sono un tassista. Gestisco gente di cui sono orgogliosissimo che non è mai uscita dalla provincia. Il mio mestiere è aiutare le persone a trovare la loro dimensione. Con i ragazzi non ci sono contratti. Basta una stretta di mano. Ci troviamo e ci capiamo, però se non ci capiamo più, poi, liberi tutti.
Adesso gli chiedono tutti: come ha convinto Pogba? “Mi cercò lui. All’inizio non ero neanche andato a incontrarlo perché mi sembrava una perdita di tempo. Mi svegliò un amico: ‘Mino, stai sbagliando’. Gli diedi retta. Lo vidi giocare e mi innamorai. Non stavo sbagliando, stavo compiendo un delitto”. Cento milioni e passa per la Juventus, 13 all’anno per 5 anni calciatore, 25 a lui. La misura del delitto oggi è questa. E’ la dimensione di ciò che molti hanno tenuto sotto traccia, però. Perché il problema non è Raiola, quanto non credere in ciò che si ha. Pogba era allo United a costo zero. Oggi è l’investimento più caro della sua storia e allo stesso tempo della storia del calcio. Raiola è per paradosso, la soluzione: senza di lui, forse Pogba tagliato dal Manchester United a 19 anni sarebbe finito semidimenticato. Allora chi ha ragione? Gli dicono e gli diranno sempre che non c’è nessuno al mondo che un monumento come Alex Ferguson odia più di lui. Perché portando Pogba alla Juve Mino dimostrò che anche i monumenti sbagliano: “Ferguson dice di non aver mai odiato nessuno tranne me. E’ un grande complimento. Se non hai nemici non hai lavorato bene. Le cose normali le fanno tutti. Io muovo l’aria. Muovo i sogni. E ogni tanto faccio incazzare qualcuno”.