La moda modesta
Anche se siete arrivati al mare tre giorni fa con la prima ondata dei vacanzieri agostani, vi sarete accorti che le ragazze sono meno svestite dell’anno scorso e che le signore non hanno l’ansia di mettere in mostra le fatiche di un intero inverno di Pilates. Per le stradine delle isole del sud e i caruggi liguri circolano meno pance nude e quasi zero cropped top, cioè le micro t shirt e i bolerini a pelle che lasciavano scoperto l’ombelico e che che nei dieci anni in cui sono stati di moda tutti avevano imparato a comprare in ottimo inglese. Da questa estate sono stati sostituiti da caftani leggerissimi, di certo un po’ scollati ma comunque lunghi fino ai piedi, lanciati da Valentino e Alberta Ferretti e poi imitati da tutti a scendere di prezzo e qualità di tessuto fino ai modelli a pochi euro di H&M, esauriti in pochi giorni. In costume da bagno, le ragazze (e anche i ragazzi) stanno esclusivamente in spiaggia. Il comune di Alassio, che pochi anni fa emanava ordinanze per il rispetto della decenza e del decoro attorno al celebre muretto, pochi giorni fa ha multato il padrone di due mucche che scendevano a mare la sera a godersi la brezza, per dire. Se non indossano caftani e lunghi abiti da figlia dei fiori modello Talitha Getty a Marrakech anno 1967, le ragazzine portano jeans “flare” (è incredibile quanto il lessico comune della moda aiuti a imparare l’inglese), cioè il modello a zampa d’elefante delle nostre mamme negli anni in cui sfilavano per le strade chiedendo divorzio e aborto con noi nel passeggino ancora però vestite di piquet bianco a punto smock. Insomma, a farsi fotografare in topless sono rimaste solo le starlettine della tv e qualche figura marginale della mondanità o della politica romana. I “carini” si vestono.
Rosy Biffi, patriarca della famiglia più in vista nella vendita di moda a Milano da quasi quarant’anni, giura di non aver venduto neanche un paio di shorts quest’estate. “Le volgarette non piacciono più”, sentenzia nel lessico iniziatico del Quadrilatero. Di certo, è un po’ presto per parlare di tendenza pudore; per quanto riguarda le più giovani non mi azzarderei neanche a ipotizzare “una nuova consapevolezza del corpo”, come fa Andrea Panconesi di Luisaviaroma, la boutique di Firenze diventata un impero da cento milioni di fatturato grazie al web e a un’accorta politica di promozione con i blogger. Per il momento, mi limiterei a parlare di moda del momento che peraltro, se copre il punto vita e le gambe, scopre molto le spalle: “Le ragazze di oggi hanno décollété molto più tonici rispetto a quelle di un tempo, dunque adattissimi a essere mostrati”, osserva sempre la Biffi, forse dimentica che nel secolo per eccellenza degli omeri esposti, il Diciannovesimo, le donne non praticavano quasi neanche il croquet, avevano spalle spioventi e tendevano a morire di tisi. Non ci sono però dubbi che, quasi impercettibilmente, il clima stia cambiando e che il giro d’affari in crescita esponenziale della cosiddetta modest fashion fra le donne di fede cattolica, oltre che fra le islamiche e le ebree ortodosse, inizi a trovare qualche plausibile giustificazione anche nell’occidente che ha abbandonato il velo femminile da almeno tre secoli.
Del tutto sconosciuta fra le più giovani, fonte di dilemmi fra noi figlie delle donne che scendevano nelle strade in corteo e che per decenni abbiamo equiparato i centimetri di pelle scoperta all’autoaffermazione, la modest fashion, vagamente traducibile in italiano appunto come “moda pudica” (per noi la modestia ha significati apparentabili alla mediocrità), è il segmento della moda attualmente a più elevato tasso di sviluppo: fattura circa 260 miliardi di euro, e gli analisti prevedono che toccherà i 500 miliardi nel 2019. Non pensate che la moda modesta, o pudica che dir si voglia, equivalga necessariamente ai gomiti e alle ginocchia coperte prescritte per le ebree ortodosse insieme con il tichel o lo sheitel, cioè il foulard avvolto attorno al capo e la mezza parrucca, oppure con lo hijab o la abaya delle musulmane, ancorché firmate Dolce&Gabbana, che in questi mesi stanno lanciando la seconda collezione di abbigliamento halal dopo il clamoroso successo della prima, andata a ruba da Harrods a Londra, a Parigi e a Monaco di Baviera, cioè nelle città dove rischio terrorismo e presenza islamica sono ugualmente forti. Il dato rilevante è che molte donne, anche cattoliche, iniziano a non essere del tutto convinte che l’empowerment femminile passi per il culone oliato di Kim Kardashian o per l’inguine al vento di Bella Hadid all’ultimo Festival di Cannes, fisico a parte e che ovviamente pochissime possono sfoggiare simile al suo. Anche noi donne occidentali laiche che osserviamo con imbarazzo le ormai tante donne con lo hijab che incontriamo per strada e che abbiamo gridato allo scandalo quando, pochi giorni fa, l’ex presidente dell’Unione delle comunità islamiche italiane si è espresso a favore della poligamia, “come diritto civile equiparabile alle unioni gay”, iniziamo a sentirci più a nostro agio se un uomo ci guarda diritto negli occhi e non direttamente nella scollatura.
Bella Hadid al Festival di Cannes (foto LaPresse)
Lo scorso giugno, un gruppo di studentesse della Sapienza che partecipavano a un concorso internazionale di design e di posizionamento di marketing per un nuovo marchio di abbigliamento in denim promosso da Isko e Swarovski si sono presentate alla giuria, presieduta da un iconoclasta della moda come François Girbaud, con un progetto di modest fashion che comprendeva gonne lunghe e svasate, cappe in jeans, pantaloni larghi diametralmente opposti rispetto a quelli che avrebbe progettato il team di soli quattro anni fa, per la prima edizione del concorso. Solo uno studente su dodici, se ben ricordo di origine svedese, ha portato in concorso una linea di capi aderenti; ha vinto una studentessa di San Francisco che aveva rivisitato il grembiule indossato dai cercatori d’oro sopra i jeans. Qualche anno fa, il grembiule sarebbe stato l’unico capo di abbigliamento proposto e il modello avrebbe sfilato a culo nudo modello Kardashian. Nessuno dei partecipanti sembrava aver notato la profonda differenza con le proposte degli anni precedenti. Dichiaravano di aver fatto “quel che si sentivano”, e quel che sentivano è che la donna, o l’uomo, insaccati e inguainati nei vestiti sono quanto di più lontano dallo spirito di questi tempi.
In questa sorta di controriforma estetica strisciante, di cui avvertiamo al tempo stesso l’esigenza e il pericolo, rientra il tema non secondario del peso. Il peso ponderale, si intende. Anche volendo escludere le credenze religiose, la maggior parte della popolazione femminile occidentale non solo non assomiglia affatto a Bella Hadid, ma si è anche stancata di dover sottostare al diktat della taglia, cioè di quella particolare firma di coercizione estetica che le islamiche trovano equiparabile, se non peggiore, all’imposizione del niqab: “Grazie Allah! Di avermi salvata dalla taglia 42”, ironizzava Fatima Mernissi, la grande sociologa marocchina scomparsa nel 2015, sull’“harem occidentale” che impone alle donne il canone della magrezza e ogni sorta di limitazioni per ottenere l’approvazione maschile e, in generale, della società. Mushky Notik and Mimi Hecht, il duo di giovani ebree hassidim di Brooklyn che qualche anno fa ha fondato il brand di moda Mimu Maxi, apprezzatissimo dalle ragazze islamiche e per questo fonte di molti scontri fra le due comunità (nel 2014, l’account instagram di Mushky e Mimi venne violentemente attaccato per aver ripostato l’immagine di una blogger musulmana che indossava un loro vestito: i quotidiani anglosassoni ci imbastirono sopra una polemica di una settimana) non ritengono per esempio che lo stile abbia qualcosa a che fare con la pelle nuda o tantomeno con “la sensualità che è qualcosa di sacro, dunque di intimo e personale”.
Per noi occidentali cresciute fra Thierry Mugler e Gianni Versace, la sensualità è un gioco molto più variegato e sottile, pubblico anche, rispetto a questa dicotomia dogmatica, ma è pur vero che, se questi o i capi della designer ultracattolica americana Charity Jewell Walter venissero proposti con uno styling appena meno lezioso, potrebbero sembrare appetibilissimi anche a noi che nei primi anni Novanta evitavamo di sederci per tutta la serata pur di non mettere in mostra gli slip sotto le minigonne che, per l’appunto, si definivano “inguinali”.
Lo scorso maggio, in una Istanbul non ancora sconvolta dal colpo di stato apparente contro Erdogan, è stata organizzata la Modest Fashion Week: le stiliste invitate provenivano da tutto il mondo, compresa l’Australia (Amalina Aman), gli Stati Uniti (Melanie Elturk, una celebrità), la Gran Bretagna (Bubblegum Hijab&Romy Ahmed). Fra le influencer presenti compariva Lalla Mariah al Idrissi, la modella inglese con lo hijab e il piercing al naso scelta da H&M come testimonial lo scorso inverno per la campagna “close the loop” insieme con una modella amputata, un sikh, un transgender, in una evoluzione Terzo millennio delle storiche pubblicità Benetton contro i pregiudizi. Sarà stato perché il tema portante di questa edizione della rassegna era l’“armonizzazione con la moda mainstream”, o perché, dopotutto, le tendenze dello stile occidentale continuano a imporre i propri canoni al mondo, ma nessuno o quasi fra i capi portati in passerella sarebbe stato respingente per noi eredi dell’estetica di Gianni Versace. Fra le collezioni proposte non sarebbe stato difficile ravvisare la lezione di Tom Ford prima maniera, oppure di Miuccia Prada o di Alessandro Michele: il lamé dorato delle gonne a pieghe era giusto un po’ più lungo, forse anche più ricco e pesante; le camicette a maniche lunghe probabilmente avevano lo stesso fiocco annodato al collo di quelle attuali di Gucci. Però sarebbe stato impossibile capirlo sotto il hijab che avvolgeva la testa delle indossatrici.
Il punto essenziale di questa differenza, di questa moda modesta che per molti versi non è neanche così disomogenea, così lontana rispetto a quella che indossiamo ogni giorno tutte noi che non pratichiamo alcuna ortodossia e siamo cresciute con Elisabeth Badinter e Simone de Beauvoir a interrogarci sulle libertà garantite al nostro sesso e il lungo cammino percorso per ottenerle, è proprio questo: il velo, il capo coperto. La moda modesta è una moda seduttiva, perché comoda, perché generosa nei confronti della nostra golosità e degli anni che passano. Ma ci fa paura. Tante di noi indossano i capi comodissimi di Martino Midali, certamente halal, oppure le forme a uovo di Issey Miyake; talvolta esagerano pure in stratificazioni e sciarpe e tacchi bassi nella ricerca di una legittimazione intellettuale che ritengono impossibile ottenere con uno stiletto di Manolo Blahnik e che forse tale è perché, tutto sommato, il velo, il “capo coperto” che san Paolo prescrive alle donne nella Prima Lettera ai Corinzi e Tertulliano il misogino impone, è ancora troppo vicino alla nostra cultura, le imposizioni vestimentarie atte a prevenire l’istinto predatorio del maschio di cui scrivono i moralisti medievali troppo recenti, perché non si provi repulsione all’idea di coprirci la testa e l’irrefrenabile impulso di togliere lo hijab dal capo delle donne islamiche che incontriamo per strada, nelle aule delle università e nei convegni. Possiamo anche coprirci fino ai piedi con le abaya di Dolce&Gabbana, indossare i guanti di rigore in Arabia Saudita e un turbante alto fino al cielo come Wanda Osiris. Ma non possiamo neanche immaginare di farlo per costrizione o per precetto.
La “moda modesta”, pudica, a cui facciamo riferimento oggi è solo e forse l’ovvio rimbalzo tecnico a due decenni di scosciature. La testa “libera e bella” delle pubblicità di poco successive all’abbandono dei cappelli e dei foulard, la chioma scossa come una criniera come e quando ci paia opportuno farlo, è un dato non negoziabile, ed è ancora per questo che in noi laiche occidentali, l’apparizione di una donna velata crea quello che la medievista Maria Giuseppina Muzzarelli, nel suo nuovo saggio “A capo coperto” definisce “turbamento”: perché nessuna di loro ci convincerà fino in fondo di non essere stata indotta a metterlo. Pudore sì, ma solo quando e se ne abbiamo voglia.
Il Foglio sportivo - in corpore sano