Albert Bierstadt, "Among the Sierra Nevada Mountains", California, 1868,

Cole, Catlin, Homer: la scoperta di un altro Ottocento

Angiolo Bandinelli
Per la critica d’arte europea, il XIX secolo ha un suo acme artistico necessario e imprescindibile attraverso il quale nasce la modernità: ed è l’impressionismo europeo-parigino. Ma anche l’arte americana del XIX secolo ha una sua individualità e una sua riconoscibilità che ne fanno un fenomeno importante nella storia dell’arte mondiale.

La vicenda della cosiddetta “Hudson River School” è ancora poco nota in Italia e in Europa, dove ai pittori americani del XIX secolo si dà scarso rilievo. Posseggono da tempo loro lavori, in Europa, il Museo Thyssen-Bornemisza a Madrid, il Musée d’Orsay, il Musée du Quai Branly e – credo – il Louvre a Parigi. Per la critica d’arte europea, il XIX secolo ha un suo acme artistico necessario e imprescindibile attraverso il quale, come attraverso la cruna dell’ago biblico, nasce la modernità: ed è l’impressionismo europeo-parigino (magari arricchito e sollecitato dall’arte giapponese di Hokusai, non certo dall’americano Winslow Homer). A un critico europeo il nome di Wyeth, o anche di Wood, non dice quasi nulla. Per lui, l’arte pittorica americana esplode, a parte l’eccezione Hopper, nel secondo Dopoguerra, con il “dripping” di Jackson Pollock, l’espressionismo astratto di Rothko, il “pop” di Warhol e compagni, una tecnica o – meglio – una forma d’arte riconosciuta come tipicamente americana. Da allora, addirittura, quest’arte conquista il centro della scena mondiale, ma per il secolo precedente, almeno fino a ieri si poteva tranquillamente ignorare l’esistenza di una pittura d’oltreatlantico. Del resto, Walt Whitman nel 1871 scriveva che “l’America non ha fatto moralmente e artisticamente fino a oggi nulla d’originale”.

 

E invece l’arte americana del XIX secolo ha una sua individualità e una sua riconoscibilità che ne fanno un fenomeno importante nella storia dell’arte mondiale, anche a prescindere dagli ottimi Sargent e Whistler, indecisi se essere americani o europei. Senza considerare l’eccentrico caso di Audubon (1785-1851), l’allievo di David divenuto famoso per la raccolta di 435 disegni di uccelli americani, pittori della “Hudson River School” come Thomas Cole, Jasper F. Cropsey, Albert Bierstadt, Frederic E. Church e Thomas Moran, assieme con quelli del cosidetto “movimento luminista” (John Kensett, Fitz Henry Lane) , a George Catlin e I suoi ritratti di primitivi aborigeni americani o anche, infine, i realisti Thomas Eakins e Richard C. Woodville, William M. Harnett, John F. Peto et John Haberle, illustrano adeguatamente un rinnovamento originale della paesaggistica e della natura morta, portandoci al centro di un periodo cruciale nella formazione dell’identità storica degli Stati Uniti. L’identità che possiamo dire americana era, per questi artisti, fondata su tre temi specifici, “la scoperta”, “l’esplorazione” e “l’insediamento”. Romantici ed emersoniani , rappresentavano paesaggi nei quali l’essere umano e la natura coesistono pacificamente.

 

Dinanzi al ritratto del “Capo indiano” (1845-46) di George Catlin è ovvio pensare che solo un pittore di quel paese avrebbe potuto dipingerlo. Lo stesso si dica della foto del “Capo Sioux” (1870) di Alexander Gardner. La storia degli Stati Uniti è anche la conquista di territori sconfinati dove vivevano popolazioni indigene purtroppo sterminate dall’uomo bianco. Quell’epopea poco gloriosa tutti l’abbiamo conosciuta, più che dalla pittura, dal grande cinema di John Ford, e si identifica tout court con la straordinaria fortuna del genere western, a cominciare da “Ombre rosse”, (“Stagecoach” , 1939). Questo successo planetario ha contribuito a far conoscere il Nuovo mondo e la sua sanguinosa storia, chi ne ha pagato è stato l’appannamento di una pittura che ha momenti originali ma ignoti al Vecchio mondo, all’Europa.

 

Un pittore come Winslow Homer (1836-1910) è, secondo i canoni critici europei, difficilmente collocabile, lo si direbbe al più un eclettico influenzato via via da artisti realisti o impressionisti, senza un suo preciso volto. Visse per un anno a Parigi, e lì conobbe le opere degli impressionisti, cogliendone l’attenzione per la luce naturale e la pittura dal vero ma senza subirne in modo diretto l'influenza. Nel 1881 si trasferì per due anni in Inghilterra, sulla costa del Northumberland, per dipingere i pescatori e le loro famiglie. Nel 1883 si ritirò a vivere nel Maine, a una trentina di metri dall’Atlantico. Qui prese a dipingere le sue monumentali scene di mare. Per alcuni critici del tempo queste immagini, spesso di drammatici eventi, "have the weight and authority of classical figures", “hanno il peso e l’autorità di figure classiche”; secondo un autorevole giornale, Homer va collocato "in a place by himself as the most original and one of the strongest of American painters.", “in una posizione tutta sua, come il più originale e uno dei più forti pittori americani”. Nonostante l’attenzione positiva della critica, Homer non raggiunse la popolarità e celebrità del suo contemporaneo John Singer Sargent, con il suo linguaggio tanto più comprensibile, “europeo”. Homer vendette poco e tardi. Oggi, è difficile dimenticare l’impressione di forza etica e di empatia con la natura che ci viene dai suoi quadri.

 

Forse non in lui, ma in pittori come lo stesso Pollock è forte un’attenzione costante all’arte “indigena”, primitiva; cosicché si potrebbe ben riconoscere la presenza e la validità di un filone artistico “americano”, con le sue lontane origini e le sue più moderne e rivoluzionarie tendenze. Ma, come per la filosofia, l’arte americana è in fondo ancora considerata come “periferica” rispetto al corso “hegeliano” della storia dell’arte, almeno nell’accezione europea e occidentale.

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