Blaise Pascal. Nei “Pensieri”, culmine della sua riflessione filosofico-morale, anche la vetta del suo pensiero filosofico-matematico

Il dio matematico

Roberto Volpi
L’equivoco su Blaise Pascal e il suo genio per i numeri sprecato. In realtà filosofeggiando di fede ha fatto della probabilità una scienza

Eric T. Bell, matematico che nel lontano 1937 diede alle stampe, in America, un libro che continua a essere ristampato ancora oggi in tutto il mondo, non perdonò mai Blaise Pascal, grande matematico oltreché filosofo del Seicento, di aver disperso il suo immenso talento per la matematica per inseguire la filosofia e in particolare, incredibile a dirsi, per dedicarsi a Dio. Il libro è “I grandi matematici” (“Men of Mathematics”) e se c’è un matematico dei 33 raccontati da Bell che il suddetto prende a pesci in faccia, bene, questi è per l’appunto Blaise Pascal. Di fronte alla scelta di Blaise di chiudersi nell’Abbazia di Port-Royal a 31 anni (ne camperà appena 39, inseguito dalle malattie sin dalla fanciullezza) per dedicarsi alla filosofia e alla teologia, dopo aver abbracciato il rigoroso credo giansenista, Eric T. Bell non riesce a trattenersi e lo descrive come “un matematico di genio che, abbandonandosi alle sue inclinazioni, è stato spinto verso ciò che oggi si chiamerebbe nevropatia religiosa, per cui si torturò a lungo e si dette a speculazioni senza profitto su controversie settarie”. Mentre si “lasciò distogliere” dalla “creazione della matematica della probabilità” che, sempre secondo Bell, Pascal condivide con Fermat.

 

E’ curioso che proprio il matematico Eric T. Bell non sia riuscito a rintracciare nei “Pensieri” di Pascal – il culmine della sua riflessione filosofico-morale, opera ancora capace di parlare agli uomini – anche la vetta del suo pensiero filosofico-matematico. Del resto, non è stato l’unico a non averne colto questo aspetto. Certo si tratta di filosofia matematica, ma Pascal getta fondamenta culturali più profonde della probabilità proprio parlando di Dio. Solleva la probabilità dal suo calcolo, ne fa una disciplina e una scienza proprio perché riesce a immetterla in una dimensione filosofica e culturale che non avrebbe assunto se fosse rimasta, come minacciava, puro calcolo e teoria schiacciata sul calcolo combinatorio. Celeberrima è la sua scommessa sull’esistenza di Dio, ancora oggi abbastanza poco compresa e certamente la più importante di quelle “speculazioni senza profitto su controversie settarie” cui si riferisce il Bell.

 

Riepiloghiamola, ricorrendo alle stesse parole del filosofo-matematico. Pascal parte da un duplice assunto: che – primo assunto – l’esistenza (come l’inesistenza) di Dio non può essere provata dalla ragione umana e che – secondo assunto – per il fatto stesso di vivere l’uomo è costretto a scegliere (anche quando non ne ha piena coscienza) tra il vivere come se Dio ci fosse e il vivere come se Dio non ci fosse. La decisione da prendere, afferma Pascal, è scommettere sull’esistenza di Dio, in quanto “se vincete guadagnate tutto, se perdete non perdete nulla”. Pascal definisce questa conclusione in termini di probabilità, secondo questo ragionamento. “Siccome c’è uguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una vi converrebbe già scommettere. Ma, se ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c’è uguale probabilità di vincere e di perdere. (…) Ma qui c’è effettivamente un’infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito” (“Pensieri”, 233). Siamo all’interno di un gioco particolarissimo nel quale lo scommettitore che punta sull’esistenza di Dio ha una convenienza massima, la massima possibile: “Un’infinità di vita infinitamente beata”.

 

La scommessa pascaliana, che anticipa in effetti la teoria dei giochi, fu stroncata senza pietà da Voltaire e Diderot che la definirono bassa e puerile e cinicamente utilitaristica, quando non addirittura una “mostruosità logica”. Va da sé che è stata screditata quando non irrisa fino ai giorni nostri. Scommettere sull’esistenza di Dio in base al concetto che c’è tutto da guadagnare e niente da perdere? Messa così la cosa, in effetti, sembra piuttosto sciocca e puerile e decisamente opportunistica. Punta su Dio, tu che non sai da che parte stare, punta su Dio perché non hai niente da perdere e tutto da guadagnare (sottinteso: se vinci). E questa sarebbe dunque la religiosità, la fede, il grado di convinzione che un rigorista del calibro di Pascal chiedeva ai suoi simili perché riuscissero a meritarsi il paradiso?

 

Il centro della questione per i tanti critici anche odierni di Pascal non sta, si badi, in quel “tutto da guadagnare” bensì in quel “niente da perdere”. Non si perdona al filosofo-matematico quel reclamizzare, se mi si passa il termine, il niente da perdere cui si andrebbe incontro a scommettere su Dio. Qui è l’opportunismo, nel niente da perdere, anche nell’eventualità che, se Dio non esistesse, si perdesse la scommessa. Troppo facile, accusano i tanti critici: se si vince si vince un’infinità di vita, se si perde non si perde un bel niente. E dove vanno a finire allora l’autenticità del sentimento religioso e il senso della responsabilità personale? Ma se leggiamo bene Pascal e i suoi pensieri scopriamo che cosa davvero egli intende con “niente da perdere”. Niente da perdere secondo la sua concezione di questa vita e dell’altra, niente da perdere secondo il metro delle sue idee morali, della sua coscienza. Votarsi a una vita terrena pia e casta? Rinunciare ai beni terreni? Alle passioni eccessive? Tutto e non niente da perdere, per chi se ne sbatte dell’aldilà, per chi non ha dubbi e sceglie il qui e ora, l’hic et nunc, e pure per chi, soppesando le alternative con cuore e ragione, opta per la vita terrena, con tutto quel che può presentare e offrire, senza lasciarsi condizionare da alcuna aspettativa trascendente.

 

“Che avete da perdere? Queste pratiche [religiose, di devozione] vi portano a credere, perché placano le passioni che sono il vostro grande ostacolo”, dice Pascal per controbattere alla possibilità che di là non ci sia nulla, nessun Dio, nessun Paradiso. Avete scommesso su Dio e perso, ma avrete pur sempre vissuto una vita pia, devota, buona. Non avrete comunque da lamentarvi, avrebbe potuto aggiungere Pascal. Non lo ha fatto, ma senz’altro lo avrà pensato. Occorre onorare la scommessa, ecco quel che è chiaro del ragionamento pascaliano. E onorarla significa vivere una vita pia, devota buona. Facile? Per Pascal, ma non certo per tutti. Cosicché la scommessa ci appare ben più equa di quanto non appaia agli occhi di Pascal. Per lui è scommessa squilibratissima, perché lui non sente il sacrificio di una vita pia, devota, buona, mentre il premio che lo aspetta, e di cui è sicuro, gli appare immenso. Ma mica tutti sono Pascal.

 

Ma se l’aspetto più propriamente morale e religioso della scommessa pascaliana è troppo spesso equivocato, l’aspetto della concezione della probabilità che si affaccia, con forza, dalla scommessa su Dio di Pascal è pressoché ignorato, quasi che questo secondo aspetto non meritasse considerazione per essere, diversamente dal primo, privo di novità e interesse – immerso com’è, oltretutto, dentro una scrittura e un’atmosfera così lontane dal linguaggio e dalla forma della matematica.
Ma intanto, chiediamoci, che cosa fa la probabilità? Calcola. Se ci pensate bene non fa altro che questo: calcola le probabilità che vengono assegnate a eventi che debbono ancora verificarsi. De Finetti, il grande matematico probabilista italiano non era così convinto che esistesse. “La probabilità: chi è costei?”, si chiedeva in modo volutamente provocatorio. “Prima di rispondere alla domanda è certamente opportuno chiedersi: ma davvero ‘esiste’ la probabilità? e cosa mai sarebbe? Io risponderei di no, che non esiste”. Salvo poi aggiungere: “Mah! Potrei anche dire, viceversa e senza contraddizione, che la probabilità regna ovunque, che è, o almeno dovrebbe essere, la nostra ‘guida nel pensare e nell’agire’”. La probabilità regna ovunque, nel senso che in fondo in tutte le azioni che compiamo, in tutte le decisioni che prendiamo non facciamo che immettere, anche quando non ce ne accorgiamo, valutazioni in termini di probabilità. Ma ognuno le fa a modo suo, queste valutazioni, non c’è dunque una probabilità oggettiva, ci sono molteplici modi – tanti quanti sono gli uomini, in fondo – di fare valutazioni probabilistiche su quel che sarà. Vero. Ma questo è solo un aspetto della probabilità.

 

E De Finetti naturalmente era il primo a saperlo. Se lancio una moneta per aria si presenterà sempre una faccia, e non due o nessuna, e dunque la probabilità tanto di “testa” che di “croce” sarà comunque di un mezzo – 0,5 – mai 0 o 1. Se i modi di presentarsi di un evento possono essere calcolati con esattezza matematica non c’è niente che tenga: siamo nel campo della probabilità oggettiva e qualcuno potrà pure distaccarsene, fregarsene o ignorarla, ma ciò non toglie che ci sia e che sia quella. Se si mettono al mondo due figli è più probabile che siano un maschio e una femmina e non due maschi o due femmine per la buonissima ragione (probabilistica) che l’evento due maschi e l’evento due femmine hanno un solo modo di presentarsi che possiamo indicare con MM e FF a seconda che trattasi di due maschi o di due femmine. Ma l’evento un maschio e una femmina ha due modi, due possibilità, di presentarsi: MF o FM, nel primo nasce prima il maschio e poi la femmina, nel secondo prima la femmina e poi il maschio. Cosicché i due figli possono presentarsi secondo queste quattro possibilità: MM, MF, FM, FF.

 

Risultato: la probabilità di avere un maschio e una femmina è pari a 2 su 4, ovvero a 0,5, quella di avere due maschi è pari a 1 su 4, ovvero a 0,25, così come è di 1 su 4, ovvero di 0,25, quella di avere due femmine (con il totale che fa 4 su 4, ovvero 1, ovvero ancora la certezza, dal momento che una di queste possibilità si verificherà sicuramente). Ecco la probabilità oggettiva, andatele pure contro, ma lo fate a vostro rischio e pericolo, perché questa probabilità si basa sulle modalità/possibilità che hanno gli eventi di presentarsi. Se invece volete calcolare la probabilità che vi capiti di vedere un Ufo o di incontrare un morto vivente, uno zombi, beh, fate un po’ come vi torna meglio, secondo il vostro uzzolo, come si sarebbe detto una volta, perché dati oggettivi da prendere in considerazione non ce ne sono, cosicché tana libera per tutti.

 

E allora? Cosa aggiunge Pascal a tutto questo, alla probabilità, alla concezione della probabilità soggettiva e a quella della probabilità oggettiva (che lungi dall’escludersi l’una con l’altra si completano a vicenda, e francamente non si capisce tutto l’azzuffarsi accademico tra i sostenitori dell’una e dell’altra)? Aggiunge sostanza, sostanza nel concepire, nel pensare la probabilità. Nella scommessa di Dio Pascal non calcola. Usa la probabilità, parla di probabilità, ma non calcola alcunché. Che deve calcolare? Potrebbe assegnare una sua probabilità soggettiva all’esistenza di Dio, e sarebbe indubbiamente il 100 per cento. Ma non lo fa perché se lo facesse non ci sarebbe scommessa. Dice anzi che “siccome c’è uguale probabilità di vincita e di perdita” ci conviene puntare sull’esistenza di Dio perché se vinciamo vinciamo “un’infinità di vita”, e non c’è niente che possiamo mettere sul piatto della scommessa che possa neppure lontanamente equilibrare l’infinito che c’è sull’altro piatto. Pascal ci chiede, con la scommessa, di accettare l’incertezza, espressa in termini di probabilità, più essenziale e profonda, più umana che possa esserci. Ma di accettarla predisponendoci ad essa in modo intelligente, così da poterne ricavare il massimo vantaggio. Accettate l’incertezza di quel che sarà, ma fatelo in modo intelligente, questo ci chiede Pascal.

 

E nel chiederci questo ci dice altresì – ed è qui il centro filosofico-matematico del suo pensiero sulla probabilità – che la probabilità è il metodo che “accetta l’incertezza”. E’ solo accettandola, e dopo che sia stata accettata, infatti, che l’incertezza può essere definita, calcolata, affrontata. Nell’incertezza crescente di un mondo sempre più complesso, la probabilità si rivela il metodo scientifico più efficace. Sono talmente tante le variabili in gioco in questo mondo, nelle nostre vite, nelle relazioni tra gli uomini, nei rapporti tra le comunità statuali ed etniche, in quello che succede e che sarà, che nessun calcolo che pretenda di considerare tutto – ogni variabile e ogni relazione tra le variabili – è più possibile, che solo e soltanto ricorrendo a dosi più o meno cospicue di probabilità, di considerazioni e valutazioni fondate sulla probabilità, si può approdare a risultati apprezzabili.
Accettare l’incertezza non è soltanto inevitabile, dunque, è intelligente, è razionale, concede un vantaggio.

 

E la probabilità, il pensiero probabilistico, è l’arma che dà forma scientifica razionale a questa accettazione, quella che ci prepara tecnicamente ma anche culturalmente all’incertezza e ci permette di fronteggiarla. La probabilità è il metodo che accetta l’incertezza, cosicché di fronte alla scienza che ricerca la verità, che non chiede e insegue niente di meno della verità oggettiva (pur se falsificabile in senso popperiano, nel senso che quella verità può essere sottoposta alla verifica e alla smentita suggerita da nuovi dati di fatto, elementi, conoscenze che entrano in gioco), la probabilità è sempre lì a ricordare che l’incertezza, lungi dall’essere eliminabile, è costitutiva di quel che siamo e del nostro universo. Che non si può fare altrimenti che accettarla. Ma con intelligenza. E con il giudizio di una scienza, di un metodo, la probabilità, che accettandola, si getta nell’impresa di indagarla e rappresentarcela senza infingimenti, cosicché non possa sorprenderci e sconfiggerci. Almeno non senza che prima abbiamo provato a resisterle e senza che qualche volta riusciamo pure a vincerla.

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