Una scena del film “The Witch”, da poco anche nelle sale italiane

Da Dante a “The Witch”, così è cambiato il modo di raccontare il Diavolo nella letteratura

Edoardo Rialti
Raccontare il diabolico vuol dire muoversi tra poli. Avversione e fascino. Terrore, malinconia e perfino umorismo. Al principe delle tenebre continuiamo ad attribuire non solo i nostri incubi, ma anche alcune delle nostre battute migliori.

"Wouldst thou like to live deliciously?”, sussurra il caprone nero del film “The witch”: per lo scrittore giamaicano Marlon James (vincitore del Booker Prize) si tratta del “miglior uso di un avverbio negli ultimi cento anni”. Il film del giovane Robert Eggers (che ha vinto al Sundance Festival) è una visione splendida e terribile dell’America puritana, capace, attraverso l’orrore rinnovato delle vecchie fiabe e credenze popolari, di raccontare il maschile e il femminile, il patriarcato civilizzatore su cui si fonda tanto occidente contemporaneo, e l’insorgenza di uno sguardo completamento altro, quello di una foresta che si vorrebbe sconfiggere con steccati e cataste di legna, e che invece sa prendersi la sua rivicinta. I coloni avevano lasciato l’Europa per cercare Dio, e invece trovano il Diavolo, o se lo portano appresso. E quando Black Philip il caprone inizia davvero, sconvolgentemente, a parlare nell’inglese del Seicento, quello che sembrava il racconto d’un innocenza assediata dal male si rivela anche la storia di un corteggiamento, dell’estasi d’una libertà sconosciuta, dove gioia e orrore possono convivere nella stessa espressione, mentre, per la prima volta si inizia a volare. In fondo raccontare il diabolico, ossia ciò che, per diverse ragioni culturali e ideologiche, si ritenga esprimere il male per eccellenza, ha sempre voluto dire muoversi tra poli opposti.

 



 

Avversione e fascino. Terrore ma anche malinconia e perfino umorismo. Il Nemico, fin dal nome, costituisce ciò che una società ha effettivamente avversato e condannato (basti pensare a come i vari perseguitati diabolici, dai cristiani dei primi secoli agli eretici e agli ebrei, dalle streghe ai comunisti, fino ai vari casi di maestre-orco, siano sempre stati accusati di torturare i bambini, un’accusa che si appella a un timore viscerale e ancestrale), ma anche ciò che non si è potuto esprimere altrimenti, ciò che si può esternare relegandolo solo alla devianza; lasciando tuttavia trapelare, con accenni più o meno discreti, una partecipazione molto più complessa. Basti pensare a tante istanze dell’identità femminile, sessuale, scientifica, politica. Al fenomeno dell’isteria o alla dinamica del capro espiatorio. Capro, appunto. Chi disprezza compra, si dice in Toscana. Per il filosofo del linguaggio Daniel Dennett, il demonio è come Dio – andava proprio inventato: “Se qualcuno solleva sempre obiezioni sulla nostra religione cui non si può rispondere, quella persona è quasi certamente Satana. Più ragionevole è la persona, più desiderosa sia di impegnarsi nella discussione, più è sicuro che sia Satana sotto mentite spoglie! Vade retro! Non ascoltare! E’ una trappola! Questo trucco è un jolly perfetto, così privo di contenuti che qualsiasi setta o credo o cospirazione possono utilizzarlo In modo efficace. Le cellule comuniste possono essere messe in guardia che qualsiasi critica incontrino è quasi sicuramente opera di infiltrati dell’Fbi in incognito, e gruppi radicali di discussione femministe possono mettere a tacere ogni critica senza risposta dichiarandola propaganda fallocentrica, involontariamente diffusa da una vittima del lavaggio del cervello a opera del malvagio patriarcato, e così via. […] Nessuno lo sa, ma ora [il Diavolo] è a disposizione di chiunque”. Da tutt’altra angolazione, il poeta e teologo anglicano Charles Williams, amico di Tolkien e Lewis, notava, non senza ironia che “il demonio, anche se è un fatto, è stato una gratificazione. Ci siamo liberati del nostro senso di sottomissione morale contemplando, persino con disapprovazione, qualcosa che non era né morale né sottomesso. Finché il demonio esisterà ci sarà sempre qualcosa cui poterci sentire superiori”. Raccontare questa terribile miscela di abiezione e grandezza – il più bello degli angeli diventato il più brutto dei mostri – consente dunque di raccontare evoluzione e stabilità delle nostre paure, ma anche dei nostri desideri più segreti.

 

Quel Wouldst thou like to live deliciously? ha una storia antica come i miti con cui abbiano provato a raccontare i nostri passi in un mondo grande e terribile. Già nelle leggende ebraiche sulla caduta della “Stella del Mattino” che riecheggiano in Isaia, in Ezechiele e nei Vangeli, l’angelo Helel ben Shahar incedeva nell’Eden “carico di luccicanti gioielli”. Per Dostevskij le tre tentazioni diaboliche rivolte a Cristo (il pane, la magia miracolosa, il potere, rigettate dal Messia ma sottoscritte dalla chiesa cattolica – questi ortodossi picchiano duro!) costituivano un’intuizione e un compendio così alto dell’intera tragedia umana da essere una prova dell’origine divina dei Vangeli. Tuttavia, sebbene le tradizioni religiose e folkoriche (dal Seth degli Egizi all’Iblis dell’islam) lo abbiano sempre raccontato, per oltre un millennio di storia il diavolo non trova un vero e proprio cantore in ambito artistico (diverso è il caso delle sue varie epitome terrene, come lo splendido Gano di Maganza, a sua volta il più bello e fiero dei baroni di Carlo Magno).

 



Lucifero nel Cocìto, da un'incisione di Dorè per la Divina Commedia


 

In Dante i diavoli, coi culi che fanno trombetta, sono essenzialmente comici, ed è davvero un’intuizione da par suo quella di presentare Satana nella ghiacciaia dei traditori come una sorta di mulino o macina del male, con il poeta che resta impietrito contemplando l’incomprensibilità quasi meccanica di un mostro idiota da cui il male aliti come un vento. Il filone comico si colora anche di elegante scetticismo, come in Boiardo che si chiede sorridendo se il diavolo ce li abbia davvero piedi caprini e corna, e in Machiavelli, col povero Belfagor che rifugge all’inferno dopo aver provato le “gioie” della vita matrimoniale. Il salto immaginativo vero e proprio, quando la statura prometeica, ribelle e contestatrice di tanti avversari umani (come Capaneo) viene estesa esplicitamente al principe delle tenebre in persona, avviene tra 500 e 600, sulla soglia, ed è significativo, della Modernità.

 

Già Tasso, col suo Plutone ancora tradizionale (“Orrida maestà nel fero aspetto / terrore accresce, e piú superbo il rende: / rosseggian gli occhi, e di veneno infetto / come infausta cometa il guardo splende”) aveva avuto l’audacia di introdurre nelle sue parole “le ragioni dei vinti”, l’orgoglio di chi ricorda ancora di aver combattuto con fierezza la propria battaglia, e come sia stato il concorso degli eventi ad attribuire la vittoria a chi adesso descrive la vicenda come un destino ineluttabile: “Ah! non fia ver, ché non sono anco estinti / gli spirti in voi di quel valor primiero, / quando di ferro e d’alte fiamme cinti / pugnammo già contra il celeste impero. / Fummo, io no ’l nego, in quel conflitto vinti, / pur non mancò virtute al gran pensiero. / Diede che che si fosse a lui vittoria: / rimase a noi d’invitto ardir la gloria”. “Diede che che”: per la prima volta si lascia intravedere che sarebbe potuta andare diversamente.

 

E’ merito del grande critico Mario Praz aver individuato nel Satana di Marino un altro passaggio fondamentale, laddove questi varia la descrizione tassiana cambiando un solo termine: “Negli occhi, ove mestizia alberga e morte”. Quell’accenno di tristezza contiene già in nuce il Satana tragico di Milton, bello e maestoso “seppure in rovina”, dilaniato dalla felicità perduto ma orgoglioso di regnare all’Inferno anziché servire in Paradiso. “Ei su’l resto in statura / e in portamento torreggiava superbo: / ancor sua forma perduto non avea / tutto il nativo scintillante fulgore, / e compariva nulla men che un Arcangel rovinato / e che di gloria un oscurato eccesso: / come allor quando il novo Sol traluce / per l’aere orizontal caliginoso privo di raggi, / o quando tutto il copre il dosso della luna in buia eclisse”.

 

Il tema, già tanto presente per accenni e intuizioni nell’immaginario popolare, nelle pieghe delle prediche e delle confessioni, ormai dilaga anche nella grande arte. L’Avversario diventa stranamente bello, nota Praz. Diventa o si rivela per quel che è sempre stato? Come scriveva Lewis, “forse nel mondo industriale la bellezza è diventata cosa tanto rara e il male così esplicitamente brutto che non possiamo più continuare a prestar fede in una bellezza cattiva. Nei poemi antichi le cose erano diverse. Si credeva che una cosa potesse essere perfettamente bella, tanto bella da spezzare il cuore, e allo stesso tempo malvagia”. Quelli che un tempo erano sostenitori del partito del Demonio senza saperlo, come diceva William Blake, si fanno sempre più consapevoli. Del resto, come avrebbe scritto Ute, le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive dappertutto. Da una parte c’è il male sentito come necessario, propulsivo, come espressione vitale, seppur confusa, della ricerca ancora in atto: basti pensare all’indimenticabile Mefistofele di Goethe, che si diverte sempre a fare “quattro chiacchiere col Vecchio [Dio]”, piacere che, nel sereno illuminismo dello scrittore, è totalmente ricambiato dall’Onnipotente, come due filosofi che prendano il porto davanti al camino. Dall’altra il tema diabolico letteralmente esplode negli infiniti ribelli “belli e dannati” dell’immaginario moderno e contemporaneo: “il Demonio di Milton come essere morale è di tanto superiore al suo Dio, di quanto colui che preserva in qualche disegno, che egli ha concepito eccellente, a malgrado dell’avversità e della tortura, è di tanto superiore a chi, nella fredda sicurezza dell’immancabile trionfo, infligge al suo nemico la più orribile vendetta”, scrive Shelley all’inizio dell’800, con una rilettura rovesciata dell’immaginario tradizionale che arriverà fino alla trilogia fantasy per ragazzi “Queste oscure materie” di Philip Pullmann, dove una coppia di bambini aiutano l’audace Lord Asriel a sconfiggere la tirannica Autorità che si è arrogata il dominio su tutti i mondi. La ribellione politica, scientifica e sessuale perme di trasformare così il Regno dei Cieli nella Repubblica dei Cieli. Un libro per ragazzi che nel risvolto di copertina porti scritto “Io sto dalla parte del Tentatore”, senza dubbio avrebbe avuto qualche problema in passato. Ne è passata di acqua sotto i ponti, dai tempi di Salem.

 

Del resto, nel mezzo c’è stata la grande critica alla morale tradizionale operata da Nietzsche, consapevole che il passaggio dall’innocenza all’esperienza si può leggere in termini di trasgressione dolorosa ma positiva (Prometeo che ruba il fuoco per amore degli uomini) o di schiacciante senso di colpa, sessuofobia e misoginia (il frutto proibito e la cacciata dall’Eden). Negli stessi anni di questi Anticristo che costituisce la pars destruens dell’agognato ritorno di Dioniso e Pan, compaiono anche i primi veri libri “satanici” della modernità, in realtà tutti in nesso inscindibile dal cattolicesimo di cui costituiscono uno specchio rovesciato: Lautreamont, Baudelaire (con la sua stracitata astuzia del diavolo nel far credere di non esistere), la Messa Nera raccontata in “Laggiù” di Huysmans, dandy che poi si fece monaco. Con critiche così serrate, e i languori compiaciuti del maledettismo, diventa molto complesso per uno scrittore contemporaneo dar voce e viso a un male ontologico credibile, ma sono proprio gli ultimi due secoli ad averci offerto alcuni dei ritratti del male più convincenti e terribili, dal piccolo borghese che compare in sogno a Ivan Karamazov in Dostoevksij, e che vorrebbe tanto, tanto unirsi al coro di lode universale del Creatore eppure, col sospiro di chi dice di fare un gran sacrificio misconosciuto, non lo fa per introdurre un po’ di movimento in quella gran noia, alla rappresentazione dell’abisso in cui possa precipitare un’intera nazione e un’intera cultura nel Doktor Faustus di Mann col demonio che seduce un compositore tedesco con 24 anni di geniale attività (“Sicchè voi volete vendermi tempo? – Tempo? Soltanto tempo? No, mio caro, questa non è la merce del diavolo… quale specie di tempo, quello conta! Tempo grande, tempo folle, tempo indiavolato, pieno di baldoria e d tripudio… e anche un pochino miserabile, anzi molto miserabile, lo confesso, e non solo lo confesso, ma lo metto in rilievo con orgoglio, perché così è giusto ed equo, perché questa è la natura e la maniera degli artisti”).

 



Una scena del film Rosemary’s baby

 

Il Novecento conoscerà il fattore senza volto che accompagna con premurosa intimità la notte del curato di “Sotto il sole di satana” di Bernanos, ma anche la spaventosa normalità dei vicini di casa satanisti in “Rosemary’s baby” di Ira Levin e il sorriso che anima il cadavere posseduto in “Perelandra” di Lewis: “L’essere guardò Ransom in silenzio e infine cominciò a sorridere. Spesso si parla di un sorriso diabolico, e anche Ransom l’aveva fatto, ma ora si rendeva conto di non avere mai preso sul serio queste parole. Il sorriso non era amaro o rabbioso, e neppure sinistro, nel senso abituale della parola; non era neanche un sorriso di derisione. Sembrava invitare Ransom, con un cenno di benvenuto orrendamente sincero, a prendere parte ai suoi piaceri, come se tutti avessero potuto condividerli, come se fossero stati la cosa più naturale del mondo e non fosse neppure il caso di discuterne. Non era furtivo, né pieno di vergogna, non aveva un’aria d’intesa. Non era una sfida alla bontà, la ignorava fino ad annullarla. Ransom si rese conto che, per quanto riguardava il male, aveva visto fino ad allora solo tentativi timidi e impacciati. Quell’essere si era dato al male con tanto accanimento da superare ogni conflitto e pervenire a uno stato che aveva una spaventosa somiglianza con l’innocenza. Era al di là del vizio”. Ma c’è spazio sempre più anche per ribaltare le categorie assodate, come il frate umanista di Umberto Eco – per cui il diavolo può prosperare solo nel fanatismo religioso, anzi è inscindibile dall’integralismo, come un’ombra gettata da una candela – o come nell’indimenticabile sarabanda messa in atto dal Woland de “Il Maestro e Margherita” di Bulkagov, con i gatti parlanti e la corte di diavoli che mettono a soqquadro la grigia, meschina vita dell’intellighenzia russa.

 



 

Questa versione “altra” del modo in cui leggere il mondo arriva fino ai “Versetti satanici” di Rushdie, che con la sua geniale investigazione sui conflitti tra ironia e mentalità letterale si attirò la fatwa di Kohemini, e “Sympathy for the devil” dei Rolling Stones. Già San Paolo metteva in guardia dal fatto che Satana sa ancora presentarsi “come angelo di luce”: travestimento o scoperta sconvolgente di un bene affettivamente alternativo? Questo è il problema. Quel che è certo è che, con buona pace del paradosso di Chesterton (“il diavolo è caduto per eccesso di gravità”), è proprio al principe delle tenebre che continuiamo ad attribuire, non solo i nostri incubi e le nostre più viscerali attrattive, ma anche alcune delle nostre battute migliori, quelle con cui spezziamo la rigidità di una narrazione e di un ordine fin troppo scritti e prestabiliti, quelli con cui vorremmo incasellare il mondo. Che ci terrorizzi o seduca, di certo non ci annoia. Come quando nell’Esorcista, alla domanda del prete sul perché il demonio che possiede la bambina non spezzi i lacci che lo legano al letto, questi fa una smorfia e spallucce: “Sarebbe una volgare manifestazione di potenza”.