Fiat in trincea
All’esito vittorioso della grande guerra, la Fiat, nata solo una quindicina di anni prima dell’inizio delle ostilità, portò un contributo decisivo, non molto inferiore a quello dell’Ilva e dell’Ansaldo, i due maggiori gruppi oligopolistici dell’industria italiana; e mentre questi ultimi furono poi travolti dalla crisi del dopoguerra, la Fiat invece sopravvisse abbastanza brillantemente, conservando sino ai nostri giorni nell’ambito dell’industria nazionale la posizione di primo piano raggiunta durante il conflitto.
La sua grande performance fu possibile grazie soprattutto agli importanti e complessi mutamenti organizzativi e tecnici avviati già con la guerra di Libia e continuati negli anni precedenti l’intervento. Grazie a essi il gruppo torinese fu in grado di rispondere alla domanda bellica in misura nettamente più rapida ed efficace delle altre fabbriche costruttrici di autoveicoli, dall’Isotta-Fraschini alla Spa, dall’Itala alla Zust, all’Alfa Romeo. Tra il 1915 e il 1918 la Fiat emerse quindi dal gruppo delle imprese medio-grandi fino a occupare stabilmente, per dimensione d’impianti e capitale sociale, il terzo posto nella graduatoria di tutte le anonime industriali italiane. Il suo capitale sociale, che nel 1914 era di 17 milioni di lire, nel 1919 raggiunse i 200 milioni di lire, contro i 300 dell’Ilva e i 500 dell’Ansaldo. I dipendenti passarono da 4.000 a oltre 40.000. Il valore dei beni stabili, del macchinario e dei brevetti salì da 11 a oltre 37 milioni di lire. Il fondo di riserva esplose da circa l milione e mezzo a quasi 92 milioni di lire. Gli utili nel 1915 e 1916 furono superiori a quelli di qualsiasi altra impresa del settore. Nel solo 1916 fece profitti per 12 milioni di lire contro un capitale nominale di 30 milioni. Gli aumenti di capitale dei primi due anni di guerra e la costruzione del nuovo stabilimento del Lingotto furono realizzati senza ricorrere a versamenti di nuova liquidità da parte degli azionisti.
I campi di attività del gruppo torinese erano abbastanza vari e si erano estesi anche attraverso il controllo di numerose imprese complementari e non. Nel settore degli armamenti il gruppo era però direttamente attivo. Fu il primo in Italia ad avviare la produzione di mitragliatrici e raggiunse subito un’alta specializzazione anche nel campo degli esplosivi, degli apparati per sottomarini, dell’artiglieria e dei motori navali nonché nel settore aeronautico. Il principale terreno d’espansione fu comunque quello degli autotrasporti. Alla Fiat fu dovuta in misura determinante la creazione ex novo e il successivo potenziamento del parco automobilistico per i servizi generali e per il trasporto delle artiglierie e delle truppe di fanteria e cavalleria. Così come gli autocarri 15bis e 15ter avevano avuto una funzione cruciale nella campagna di Libia, il 18BL ne ebbe una importantissima negli spostamenti di truppe durante la grande guerra. L’esercito italiano aveva aperto le ostilità con 400 vetture e 3.400 autocarri, per lo più di produzione Fiat. Al termine del conflitto, nonostante le ingenti perdite subìte, si trovava a disporre di 2.500 vetture e di 28.600 autocarri. Fiat fabbricò tra il 1914 e il 1918 qualcosa come 71.000 autovetture, di cui circa 63.000 per conto non solo dell’amministrazione militare italiana, ma anche di quelle alleate. Negli ultimi mesi di guerra giunse a fornire il 92 per cento della produzione nazionale di autocarri e l’80 per cento dei motori di aviazione.
Artefice di questa strabiliante crescita produttiva e finanziaria fu un uomo intorno alla cinquantina, che solo nel 1899 aveva fondato, col concorso di una trentina di azionisti, l’impresa che gli consentì nel 1917, dopo Caporetto, di sedere di diritto in quel Comitato Centrale per la mobilitazione industriale che riuniva i principali capitani delle industrie di guerra. Nel drappello abbastanza ristretto dei maggiori industriali italiani, Giovanni Agnelli si presentava come la personalità di maggior spicco, quella che nei rapporti sindacali, nell’organizzazione produttiva, nelle relazioni coi pubblici poteri, nelle analisi di politica interna e internazionale, mostrava le concezioni più all’avanguardia, le vedute più accorte e lungimiranti, le strategie vincenti (insuperato il profilo a suo tempo offertocene da Valerio Castronovo).
Una cultura priva di fronzoli e di orpelli retorici conferiva ai suoi interventi e alle sue discussioni una chiarezza, una linearità, una sicurezza che dai suoi detrattori era percepita anche come espressione di sussiego e arroganza. Era un lavoratore instancabile. Impersonava perfettamente i tratti migliori del piemontese risoluto e tenace, ma la sua personalità trascendeva di gran lunga per larghezza di vedute, ardimento e capacità organizzative il livello medio del pur operoso ceto industriale subalpino. Fu soprattutto per merito di Agnelli se Torino assunse quel ruolo di città di punta dell’industria italiana che solo recentemente sta abbandonando a favore di una valorizzazione culturale e turistica senza precedenti. A Torino negli anni di guerra si affermò un’impresa che concentrava le più moderne attrezzature, le maestranze meglio selezionate e i sistemi produttivi all’avanguardia in Europa e nel mondo. Fu Giovanni Agnelli a introdurre in Italia il fordismo, la produzione in grande serie, i procedimenti di lavoro tayloristici che portarono la Fiat a orientare, con grande anticipo rispetto alle altre imprese, la propria produzione verso un mercato di massa, abbandonando i suoi modelli di esordio destinati a una domanda facoltosa, ma numericamente ri-stretta. E fu sempre Agnelli a guidare la Fiat nelle acque perigliose e agitate del Dopoguerra.
In un quadro nazionale segnato da gravi difficoltà economiche, sociali e politiche anche la Fiat visse anni molto difficili. Gli esiti tuttavia non furono letali come per l’Ilva, l’Ansaldo e tante altre imprese metalmeccaniche medie e piccole che caddero in dissesto. Giovò alla società torinese il carattere stesso delle sue principali produzioni, che erano più adatte a trovare in tempi abbastanza rapidi un ampio mercato anche nell’economia di pace; ma soprattutto le giovò la superiorità tecnica degli impianti e dell’organizzazione produttiva e, last but not least, l’abile strategia imprenditoriale dispiegata dal suo vertice direttivo. Complessi come l’Ansaldo avevano continuato a investire sin quasi alla vigilia di Vittorio Veneto in funzione di un pronosticato prolungamento delle ostilità che poi però non ci fu. La Fiat invece aveva cominciato a preoccuparsi abbastanza per tempo della riconversione dei suoi impianti in funzione della normalizzazione della domanda e della ripresa degli scambi internazionali. Agnelli fu inoltre abilissimo nel gestire i rapporti con l’amministrazione militare che erano divenuti in generale molto tesi nel corso del 1918.
I ritardi sempre maggiori nel pagamento delle forniture, il regime tributario sui sovrapprofitti di guerra, il crescente controllo dello stato sull’economia creavano nel mondo imprenditoriale viva apprensione e malessere. Ai problemi dei ritardati pagamenti il governo pose rimedio abbastanza prontamente alla fine del conflitto e ancor più soddisfacente fu per Agnelli la successiva sistemazione dei contratti sospesi con la cessazione delle ostilità. Riuscì a salvare una parte sia pur contenuta (100 esemplari) della commessa di 1.400 carri armati avuta nel giugno del 1918, e, soprattutto, ebbe conferma dell’ordine di ben 15.000 dei 35.000 autoveicoli commissionati alla Fiat nell’agosto dello stesso anno. Per di più ottenne il concreto interessamento dello stato per favorire la vendita all’estero di autoveicoli Fiat e assicurazioni di ulteriore potenziamento dei pubblici servizi. Infine un decreto del 19 giugno 1919 assicurò all'impresa torinese un introito di circa 65 milioni di lire a titolo di risarcimento per perdite di vario genere (forniture annullate o ridimensionate, mancato ammortamento di impianti, svalutazione di materie prime).
Una fabbrica della Fiat in una foto d'epoca
Certamente minore fu il successo delle pressioni di Agnelli in materia fiscale e doganale, ma non mancarono, anche in questo caso, risultati abbastanza positivi. Sul fronte fiscale la Fiat ottenne l’esenzione delle plusvalenze derivanti dall’incremento dei prezzi delle merci in magazzino. Sul versante doganale, dopo l’introduzione del divieto francese di importazione di automobili e l’aumento dei dazi inglesi e statunitensi, il governo Nitti accolse in parte le richieste di Agnelli mettendo a punto nuove tariffe protettive. Era un modo per compensare con il mercato interno le perdite che sul fronte esterno erano causate alla Fiat da politiche proibitive di altri paesi che cercavano di arginarne la forte competitività raggiunta grazie alle efficaci scelte organizzative e tecniche effettuate al termine del conflitto.
L’idea della realizzazione di un ciclo produttivo completo dell’automobile risaliva agli anni della guerra. L’assorbimento delle aziende del “Gruppo Piemontese” e la destinazione alla produ-zione automobilistica del nuovo stabilimento del Lingotto erano state realizzate sicuramente in quell’ottica. Tuttavia tra il 1915 e il 1917 si erano moltiplicate le sollecitazioni più varie, connesse per lo più al campo degli armamenti, ma anche alle prospettive di sviluppo postbelliche. Si era guardato con interesse anche alle navi mercantili di grande tonnellaggio, alle vetture ferroviarie, alle macchine utensili, alle attrezzature agricole, e ciò aveva procrastinato per qualche tempo una scelta precisa e definitiva riguardo agli orientamenti produttivi preminenti. La Fiat aveva seguito quindi una politica di espansione delle proprie partecipazioni che non era priva di alcuni indirizzi di riferimento di fondo, ma che si era tuttavia dimostrata, nel complesso, piuttosto scoordinata ed eterogenea. Incalzata dall’urgenza di difendere dalla svalutazione monetaria i guadagni realizzati in guerra, aveva investito in attività molto disparate. I circa 7 milioni di titoli e partecipazioni del 1915 erano diventati 92 milioni nel 1918 e nel 1919 superavano i 173 milioni di lire, contro un capitale sociale di 200 milioni.
Accanto a una rilevante quota di buoni del Tesoro ricevuti a saldo delle commesse belliche si era creato un intreccio di interessi con i settori più diversi (industrie pesanti, minerarie, cantieristiche, elettromeccaniche, imprese commerciali, assicurative, bancarie), che ormai finiva per creare non pochi ostacoli allo stesso processo di riconversione. Tra le più rilevanti c’erano le alleanze di cartello con la Dalmine e con la Magneti Marelli, le partecipazioni nella Società Forze Idrauliche del Moncenisio, nella Rumianca, nell’Unione Italiana Cementi e, soprattutto, nell’Ilva. Con quest’ultima si profilava un fronte anti-Ansaldo di estrema pericolosità per il gruppo genovese. Infine fu acquisito anche il pacchetto di maggioranza dell’Alpinen Montangesellschaft, una delle maggiori imprese austriache, proprietaria delle miniere di ferro della Stiria.
Il 1919 fu però l’anno della svolta per il futuro assetto della società. Nel 1918 i Perrone (Ansaldo) avevano tentato invano una scalata al pacchetto azionario Fiat. Agnelli decise quindi un drastico sfoltimento delle partecipazioni extra aziendali per finanziare con i ricavi un’ulteriore razionalizzazione imperniata sull’asse portante della produzione automobilistica e per contrastare un eventuale nuovo tentativo di scalata dei Perrone. Le partecipazioni scesero dai 173 milioni di lire del 1919 agli 87 del 1920. Furono liquidate non solo le in società in via di emarginazione dai nuovi orientamenti dei mercati, ma anche quelle in imprese con buone prospettive, operanti però in un’orbita troppo esterna rispetto al nucleo centrale della produzione automobilistica. Con i mezzi finanziari di cui venne a disporre, Agnelli nella primavera del 1920 fu in grado, insieme con Riccardo Guali-no, di contrapporre al tentativo dei Perrone di scalata alla Banca Commerciale un analogo tentativo nei confronti del Credito Italiano, che si concluse con un compromesso abbastanza vantaggioso per il duo torinese. Di lì a qualche mese il fallimento dell’Ilva, che in tema di partecipazioni aveva imboccato una via diversa da quella della Fiat, ribadì la validità delle scelte effettuate dalla casa torinese. Validità confermata anche dai positivi risultati di produzione e mercato conseguiti nel biennio 1919-1920, quando venne completata l’operazione di sganciamento dall’economia di guerra.
Nel 1919, nonostante la riduzione dei dipendenti da 40.000 a 25.000 unità, la Fiat riuscì a esportare quasi 2.500 veicoli per uso civile su una produzione di 12.000 unità, ossia una quantità superiore a quella dell’ultima fase del conflitto. Nel 1920 i veicoli esportati furono quasi 7.900. Alla rinuncia definitiva al mercato statunitense faceva riscontro la capacità di aprire nuovi spazi in Euro-pa, dal Belgio alla Svizzera, dalla Spagna alla Germania e all’Europa centro-orientale. Evidentemente la Fiat riuscì a fronteggiare l’ondata di incrementi salariali imposti dalle rivendicazioni delle pur ridimensionate maestranze nel biennio 1919-20 senza compromettere la sua capacità di penetrazione sul mercato interno e su quelli internazionali.
E tuttavia, mentre si concludeva in modo più che soddisfacente la riconversione all’economia di pace, nuovi e più gravi problemi si profilavano all’orizzonte del gruppo torinese. Problemi non più di natura eminentemente produttiva e finanziaria, bensì sociale e politica. Proprio mentre nella seconda metà del 1920, nell’ambito di una programmazione di lungo respiro delle attività del gruppo, si valutavano come indispensabili nuovi ingenti investimenti soprattutto nella componente siderurgica, a Torino si apriva quella stagione di rinnovato conflitto con le forze sindacali e politiche marxiste che sfociò nell’occupazione delle fabbriche. Occupazione che non traeva il suo impulso diretto dalla guerra, ma dall’illusione che la guerra aveva generato di una possibile rivoluzione comunista. Un’illusione che sottopose l’industria italiana a una delle prove più dure di tutta la sua lunga storia. Fu comunque una prova alla quale la Fiat di Giovanni Agnelli sopravvisse meglio di altri colossi che finirono in proprietà delle banche che li avevano finanziati e dello stato che si assunse l’onere ultimo e più ingente del loro fallimento.
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