Quello di Crocetta è un caso di scuola, ma non certo un caso isolato. Il club dei moralizzatori è affollato (foto LaPresse)

Moralisti da tip tap

Salvo Toscano
Oggi manettari, domani garantisti. A seconda della convenienza Da Crocetta a Travaglio, il catalogo dei maestri del tacco e punta. Il politico dalle pose di sceriffo di recente ha dovuto vestire i panni del garantista doc, con un afflato degno di un radicale.

"Ecco con chi mi vogliono far fare l’alleanza… Su ‘Mafia capitale’ mi aspetto sviluppi in Sicilia”. Così parlava Rosario Crocetta, governatore di Sicilia, nel giugno del 2015. Erano i tempi in cui si ragionava su un ingresso nella sua giunta degli alfaniani di Ncd. Che in Sicilia hanno nel sottosegretario all’Agricoltura Giuseppe Castiglione e nel suocero di lui Pino Firrarello i pezzi da novanta del consenso. Il nome di Castiglione era spuntato fuori nelle carte della famosa inchiesta romana in relazione al Cara di Mineo. E il moralizzatore Crocetta, con la consueta misura, ne approfittò subito per una stilettata al veleno contro i compagni di partito che lavoravano per aprire le porte della maggioranza a Ncd, idea che a lui non andava a genio. Utilizzando la cronaca giudiziaria come arma. Solo per la cronaca, alla fine Ncd in maggioranza entrò, eccome.

 

Un esempio a caso, ma da manuale, di come si ripesca la “questione morale” col pretesto di un avviso di garanzia per rafforzare la propria posizione al tavolo della partita politica del momento. Copione collaudato questo per un campione dell’antimafia politica come Crocetta, che sui ritornelli della legalità, delle denunce in procura e delle minacce, suona da anni spartiti sempre uguali in risposta alle critiche mosse alle sue cangianti giunte (una quarantina di assessori in tre anni e mezzo, record della pista). Eppure, il politico dalle pose di sceriffo, quello che a Gela “ho fatto arrestare 850 mafiosi”, quello che imbastiva nelle prime, pirotecniche conferenze stampa da presidente-moralizzatore processi sommari a questo e a quello, di recente ha dovuto vestire i panni nuovi di zecca del garantista doc, con un afflato degno di un radicale della prima ora. Capita quando nelle peste finiscono gli amici dei moralisti. Come è successo a Patrizia Monterosso, potente capo della mastodontica burocrazia regionale siciliana, posta sul trono di Palazzo d’Orleans (da esterna, in una Regione che all’epoca contava quasi duemila dirigenti) da Raffaele Lombardo e confermata di fresco per altri cinque anni, dallo stesso Crocetta, del quale è ascoltata e influente consigliere. Un rinnovo quinquennale arrivato il 30 giugno, prima che in Sicilia si recepisse la legge Madia sulla pubblica amministrazione, che prevede una stretta per i dirigenti che hanno rimediato condanne contabili.

 

Sono tempi duri per la Monterosso, che incarna in qualche modo la sempiterna continuità del potere siciliano, dall’èra di Raffaele Lombardo, condannato in primo grado per mafia, a quella dell’antimafioso Crocetta, anche se i primi passi nelle stanze dei bottoni la burocrate li mosse addirittura ai tempi di Totò Cuffaro. Dopo una maxicondanna della Corte dei Conti per un danno erariale da un milione e 300 mila euro, dopo la richiesta di rinvio a giudizio per un peculato da 11 milioni di euro (la vicenda è la stessa per cui è arrivata la condanna dei giudici contabili, quella degli extrabudget, cioè delle somme concesse agli enti di formazione professionale in aggiunta a quelle previste inizialmente dal Piano dell’offerta formativa regionale), è spuntato pure un fantomatico collaboratore di giustizia che sostiene che la superburocrate abbia fatto parte di una loggia massonica del Trapanese. Circostanza smentita dall’interessata e da un venerabile del Grande Oriente sentito in Commissione Antimafia. Quella stessa Commissione che il giorno prima ha ascoltato Crocetta, facendogli il pelo e contropelo sul tema dei rifiuti, dei rapporti tra il governo e la Confindustria siciliana e, appunto, sulla scomoda posizione della Monterosso. Un assedio a cui la burocrate ha assistito in prima fila a San Macuto senza battere ciglio. Potendo apprezzare la difesa a spada tratta del governatore, che ha sfoderato tutto il garantismo immaginabile, come già aveva fatto altre volte, per tutelarla.

 

La condanna della Corte dei conti? Non c’è dolo, non comporta conseguenze di legge, ha ribattuto il governatore ai commissari, tra i quali i più agguerriti erano i 5 Stelle che contro la Monterosso avevano anche presentato una mozione di sfiducia all’Assemblea regionale siciliana. La richiesta di rinvio a giudizio? E’ solo una richiesta, fa spallucce Crocetta. Prudenza, insomma, sacrosanta prudenza. Quella che in passato è sistematicamente mancata per i nemici del momento, fossero essi esponenti politici, dirigenti da spostare o magari assessori da silurare per far posto a qualcun altro in giunta. Come Mariarita Sgarlata, che si beccò un autodafé mediatico che la costrinse alle dimissioni per una vicenda legata alla sua piscina, ovviamente finita, è il caso di dirlo, in un buco nell’acqua. Senza che Crocetta, che la impallinò portando egli stesso il caso in procura, abbia sentito mai il bisogno dopo la richiesta d’archiviazione degli stessi pm di dire una o mezza parola di rammarico all’archeologa sbattuta fuori dalla giunta.

 

E’ l’ultima frontiera del moralismo della convenienza. Spietato verso i nemici, clemente, compassionevole e prudente quando la sventura s’abbatte sul sodale di turno. A cui si riservano parole morbide o magari distratti silenzi. Come è accaduto qualche settimana fa, quando sulla gestione della formazione professionale negli anni in cui al timone c’era appunto Patrizia Monterosso si è abbattuta un’altra tegola, con il Tar di Palermo che ha inviato in procura le carte di un’oscura vicenda del 2010 da cui emergerebbero, a parere dei giudici amministrativi, gravi omissioni e distrazioni della Regione. A Crocetta, rimasto silente, la notizia sarà sfuggita. Non si è nemmeno scomodato a dire qualcosa come “Le inchieste? I dirigenti li valuto io e per me Monterosso ha lavorato bene”, la frase con cui liquidò nel giugno scorso le domande dei cronisti in conferenza stampa dopo aver confermato la burocrate anche nel cda del ricchissimo Irfis, cassaforte regionale per finanziamenti alle imprese. E quando qualche giornalista tentò di insistere sul tema, con una posa delle sue il governatore tagliò corto: “Basta parlare di lei, ho altro a cui pensare. Devo governare la Sicilia”.

 

Quello di Crocetta è un caso di scuola, ma non certo un caso isolato. Il club dei moralizzatori è affollato da quel dì e la caduta, o meglio l’improvvisa revisione garantista, è solo questione di tempo. Rimanendo dalle parti dell’Antimafia politica, della quale Crocetta è un prodotto emblematico, un cenno merita ad esempio la Commissione parlamentare presieduta da Rosy Bindi. Quella stessa che ha assediato Crocetta qualche giorno fa a San Macuto in una vivace seduta con momenti esilaranti e sicilianissime baruffe. L’Antimafia che oggi, a scoppio ritardato, fa la voce grossa e vuole vederci chiaro sulle devianze dell’antimafia stessa, e quando di Sicilia si parla concentra sulla Confindustria caduta in sventura le sue severe disamine. E dire che quando un paio d’anni fa agli stessi commissari e allo stesso presidente Bindi fu prospettato il più purulento e devastante degli scandali dell’antimafiosità, ossia le macroscopiche storture legate all’assegnazione e alla gestione dei beni confiscati alla criminalità organizzata, su cui in seguito la magistratura ha voluto mettere il naso, allora San Macuto preferì girarsi dall’altra parte. Anzi, di più. Lo sventurato che s’azzardò a sollevare la questione delle storture del sistema, il prefetto Giuseppe Caruso, fu trattato in audizione alla stregua d’un eretico e (quasi) redarguito dalla severissima Bindi per aver minato la credibilità delle Istituzioni. Che è poi una variante del logoro, per non dire ormai sputtanato, schema principe di certa retorica legalitaria, ossia quello per il quale ogni critica al club antimafioso rischia di fare un favore alla mafia.

 

Prudente, prudentissima fu la Commissione Antimafia quando di mezzo c’era un magistrato, Silvana Saguto, allora presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, portata sugli scudi a destra e manca. E ora sotto indagine a Caltanissetta per storie di presunti favori, raccomandazioni, conti della spesa lasciati in sospeso nel supermarket sequestrato e si vedrà cos’altro. L’ipotesi su cui si indaga è quello di un gigantesco giro di corruzione e favori che avrebbe avuto il suo perno nella Saguto ma avrebbe coinvolto altre toghe e amministratori giudiziari strapagati. Un sistema di lucrosi incarichi affidati ad amici a parenti, tra cui figlioli di magistrati dalle carriere folgoranti. Un sistema che avrebbe perfezionato il passaggio di mano del bottino mafioso da veri o presunti boss e prestanome alla buona borghesia palermitana. A corredo, denunciano da tempo i sindacati, uno scenario tragico di aziende ridotte a brandelli e posti di lavoro finiti in fumo. Insomma, il più grande scandalo dell’Antimafia. Ma quando il prefetto Caruso sollevò la questione a Bindi e colleghi finì isolato dagli stessi moralizzatori.

 

Prudenti furono allora i commissari guardiani della legalità, che oggi vogliono passare al vaglio l’Antimafia per separare il grano dal loglio, nel tentativo di individuare una ben definita bad company del carrierismo antimafioso a cui far pagare il prezzo intero dell’impostura, magari graziando se stessa e un eletto pezzo, il solito pezzo, della conventicola. Prudenti furono i commissari e cauto fu il Csm quando affrontò la questione dopo l’uscita delle prime intercettazioni, sospendendo la Saguto ma lasciandole  lo stipendio e trasferendo ma a incarico più prestigioso un altro magistrato coinvolto nell’indagine. Tutti cauti e prudenti proprio come Crocetta quando nelle peste sono finiti i suoi amici. E’ il risveglio garantista dei moralizzatori della convenienza. Quelli che, figli e nipoti della cultura del sospetto anticamera della verità, per una vita hanno bollato con la lettera scarlatta il nemico di turno in forza di un’inchiesta, o magari solo di un’intercettazione imbarazzante, smerciando teoremi per verità. Salvo poi mutare registro quando le scarpe del giustizialismo cominciavano a star strette.

 

Un po’ come Antonio Ingroia, portabandiera di una certa magistratura rivoluzionaria folgorata sulla via della politica, che smessi i panni del censore che sa ma non ha le prove, ora da avvocato si innamora del garantismo quando c’è da prendere le difese del cliente Pino Maniaci, l’esuberante giornalista di provincia elevato negli anni agli onori degli altari antimafiosi dal “movimento” e caduto nella polvere per un’inchiesta su presunte estorsioni da quattro soldi ai danni di amministratori locali. Che secondo il giornalista e il suo legale Ingroia sarebbero invece pagamenti per pubblicità. Parlando ai giornalisti dell’indagine, Ingroia, proprio lui, ha spiegato che i processi si fanno non sui teoremi ma sulle prove, ha accusato gli ex colleghi della procura di aver avuto “una caduta di stile” e ha pure denunciato “la sussistenza del reato di violazione del segreto d’ufficio perché qualche pubblico ufficiale ha fornito filmati e intercettazioni, prima ancora che l’indagato ne fosse a conoscenza”. Anche qui, musica per le orecchie dei garantisti di vecchia data. E’ semmai la storia dell’esecutore dello spartito a lasciare sbigottiti. Le accuse alla Procura di Palermo di aver fatto “un copia incolla delle informative dei carabinieri senza fare alcuna indagine” e ai carabinieri di aver montato uno “spot promozionale dell’accusa, un video fatto intenzionalmente per distruggere Maniaci” suonano appunto come un archetipo del risveglio tardivo del moralizzatore. Che si accorge delle aberrazioni della macchina della giustizia solo quando finisce dall’altra parte della barricata.

 

Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Il punto è che il “tardi” coincide più o meno sempre con la convenienza del momento. E così capita quest’estate di dover leggere sul Fatto quotidiano dispense di garantismo a firma di Marco Travaglio, quando nel mirino del giustizialismo di convenienza finisce la giunta grillina di Roma. Una “brusca torsione dottrinaria” l’ha definita su queste pagine Massimo Bordin, che ha evidenziato come l’improvviso virus garantista del direttore del Fatto non gli abbia impedito di chiedere le dimissioni di Augusto Barbera dalla Consulta se non rinuncerà alla prescrizione (cosa peraltro impossibile, ha spiegato lo stesso Bordin, in quanto Barbera non è imputato) per un’inchiesta sui concorsi universitari truccati. Garantismo e giustizialismo a intermittenza, il solito copione: feroce rigore verso l’avversario, anche fino a massime indimenticate come “la presunzione di innocenza è un gargarismo”, prudenza e cautela quando di mezzo ci sono colori più graditi.

 

Il moralismo della convenienza sembra non risparmiare nessuno nell’affollata curva del coretto “onestà, onestà!”. E così i 5 Stelle, sempre lesti a chiedere le dimissioni di chiunque anche solo dopo aver fiutato l’odore di un avviso di garanzia per un congiunto del nemico di turno, hanno d’improvviso scoperto la prudenza e l’aureo valore dell’attesa quando le grane giudiziarie hanno toccato i loro sindaci, vedi Livorno. Indimenticabili le parole dell’allora candidata sindaco Virginia Raggi che spiegò come “bisogna leggere bene l’avviso di garanzia e capire bene il fatto contestato, poi si valuta. È doveroso capire bene le circostanze, altrimenti si avrebbe una sorta di strapotere della magistratura”. Garantismo a dispense simile nei contenuti agli ultimi editoriali contro il circo mediatico-giudiziario di Travaglio, che più avveduto almeno non si spinge all’evocazione dello “strapotere” delle toghe, di cui il partito dei moralisti è stato infaticabile cantore, senza se e senza ma.